XII CONGRESSO NAZIONALE CGIL

Relazione di Riccardo Terzi – Segretario generale CGIL Lombardia

Non è facile capire, oggi, se questo Congresso della CGIL saprà davvero segnare un momento di svolta nella cultura e nella prassi del sindacato.

Saranno le verifiche pratiche del prossimo futuro a decidere, del valore delle decisioni che oggi prendiamo.

È bene quindi astenersi dai proclami troppo solenni e avere piena consapevolezza del carattere incerto e problematico delle alternative che ci stanno di fronte.

Ma è sicuramente di grande rilievo l’assunzione di una linea di ricerca che guarda coraggiosamente in avanti, alle potenzialità nuove che maturano, dentro la società· moderna, la convinzione cioè che dalla crisi non usciamo rincorrendo l’identità perduta, ma solo con un’operazione radicale di innovazione della nostra cultura.

È con questo metro, mi pare, che dobbiamo pronunciarci intorno alle proposte della relazione di Trentin, non considerandola come una nuova Bibbia, come un insieme rigido di principi e di direttive, ma come un nuovo e più avanzato campo di ricerca, che sollecita la nostra intelligenza critica e la nostra concreta capacità di sperimentazione. Io temo che si possa smarrire questa problematicità, questo stimolo a studiare e a capire la realtà con intelligenza aperta, senza miti e senza dogmi, e che ci si riduca ad una ripetizione pigra ed opaca di qualche formula, declinando all’infinito il tema dei diritti e quello della persona, come se già avessimo in mano tutte le chiavi per interpretare e. per dominare la realtà.

La rottura storica che si è consumata in questi anni è quella, che la relazione ha tracciato, della fine dell’utopia, della crisi non reversibile di· ogni concezione finalistica e salvistica.

Una tale rottura storico-culturale genera uno stato ansioso di incertezza, ma essa produce, nella sostanza, un effetto liberatorio, perché possono prendere voce i bisogni concreti della società civile, nella loro immediatezza, liberati finalmente dalle manipolazioni ideologiche.

Non è un crollo, una sconfitta, ma un’occasione per ridare a tutta l’azione della sinistra vitalità, freschezza, capacità di parlare agli individui concreti, alla loro sensibilità, alla loro condizione di oggi, nel lavoro e nella vita sociale.

È questa la riconversione culturale che dobbiamo compiere, e così possiamo parlare all’intero mondo del lavoro, e non solo al nucleo tradizionale della classe operaia così come possiamo comunicare con le nuove forze democratiche che si sono messe in moto nei paesi dell’Est dell’Europa, che hanno vissuto direttamente sulla loro pelle le distorsioni di un dogmatismo ideologico che ha totalmente sacrificato la dimensione della persona e i suoi diritti individuali.

Ciò che conta, allora, in questo Congresso è capire se siamo d’accordo sulla linea di marcia della nostra ricerca, del nostro lavoro.

Non c’è dubbio che vi è bisogno, per questo obiettivo, di una pluralità di contributi, di approcci culturali.

C’è davvero ancora bisogno di ribadire, tra di noi, il valore del pluralismo? Esso non è solo lo spirito di tolleranza, le garanzie democratiche per le posizioni di dissenso, ma è, più in profondità, un tratto costitutivo di una grande organizzazione di massa che vuole rappresentare una realtà sociale e culturale multiforme, differenziata, dinamica.

Ma ho l’impressione che quando discutiamo del pluralismo facciamo fatica a intenderci perché abbiamo in mente significati diversi, concetti diversi.

Io continuo a pensare che la rigidità dell’organizzazione per correnti impoverisca la nostra vita democratica e limiti la libertà del nostro confronto, costringendoci tutti nelle strettoie di un dibattito artefatto preordinato, in cui ciascuno è costretto a recitare una parte. Probabilmente dopo un congresso come questo, che ha visto la novità e la difficoltà di un dibattito su tesi contrapposte, non siamo ancora in grado di sciogliere in modo definitivo i nodi del nostro regime interno. Abbiamo bisogno tutti di un grado elevato di flessibilità.

Occorre evitare una logica di tipo burocratico che riduce il tutto alla questione della spartizione dei posti, senza chiarezza politica perché così daremmo vita a gruppi dirigenti lottizzati, non legittimati da un progetto, e costretti a rincorrere ogni giorno non la mediazione politica, ma il compromesso di potere tra opposte fazioni.

In questo senso, considero sbagliati criteri meccanici nella composizione dei gruppi dirigenti, e credo che si debbano verificare, in modo più stringente, le possibili convergenze su un piano di azione, che abbia alcuni essenziali punti comuni, e sulle regole di comportamento, che garantiscano coesione e solidarietà dell’intera organizzazione.

Ne ha parlato Trentin, richiamando la necessità di alcuni doveri elementari di compattezza nei momenti della decisione, della responsabilità verso i lavoratori. C’è un’esigenza di coesione dell’organizzazione, che va esplicitamente affermata, contrastando le tendenze corrosive, disgreganti, per le quali ogni bombardamento del quartier generale è sempre, in ogni momento, un atto di libertà, di creatività, indipendentemente dai contenuti, dalle ragioni, dagli obiettivi che vengono perseguiti.

Per questo, non è oziosa la domanda intorno ai caratteri che il nostro pluralismo intende assumere: se si tratta di uno stile di direzione aperto al confronto e alla verifica democratica più rigorosa, o se invece è l’organizzazione di una lunga guerra di trincea, che cristallizza e irrigidisce gli schieramenti attuali. Da ciò non potremmo non trarre alcune conseguenze, per far valere le decisioni democraticamente assunte dal Congresso e per impedire che esse siano inceppate o stravolte.

Vorrei inoltre sottolineare come la ricerca di una nostra nuova identità non è, non deve essere, separata dall’obiettivo dell’unità sindacale.

Non solo, come più volte è stato ricordato, sono venute meno le ragioni storiche della divisione, ma c’è oggi, di fronte alle nuove sfide, di fronte al grande compito storico della costruzione di una nuova grande Europa, democratica e socialmente progressiva, la necessità urgente, attuale di un nuovo sindacato unitario.

Non è un processo spontaneo, o scontato, ma esso richiede una forte determinazione dei gruppi dirigenti, perché nulla di vitale si costruisca senza sforzo, e perché c’è una forza d’inerzia delle organizzazioni, e c’è una storia, una identità, uno spirito di appartenenza, che hanno radici profonde, e la prospettiva unitaria può divenire reale in quanto matura a partire da queste radici ed è sentita come necessaria dalle forze fondamentali che noi rappresentiamo.

Non servono dunque forzature o semplificazioni.

Ma deve essere chiaro il mandato che questo Congresso affida al prossimo gruppo dirigente, un mandato politico impegnativo per esplorare da subito tutte le possibilità di un avanzamento dei rapporti unitari e per avviare con CISL e UIL una discussione seria, concreta, che metta sul tavolo come problema politico attuale quello della realizzazione di un nuovo progetto unitario.

Un sindacato unitario, democratico e pluralista, rappresenterebbe, nell’attuale situazione politica dell’Italia, un potente elemento di coesione, un argine alle tendenze particolaristiche, una nuova ragione di fiducia, di mobilitazione attiva dei lavoratori.

Se la CGIL compie, in questa direzione, un passo impegnativo, si crea un fatto nuovo, che impegna tutti a misurarsi in una discussione esplicita.

Il terreno sul quale questo progetto di unità va costruito non può che essere quello della più rigorosa autonomia dal sistema politico.

Non può essere, dunque, il riflesso di processi politici, i quali hanno una loro diversa dinamica e diverse motivazioni. E importante che rendiamo chiara questa distinzione, proprio per la storia della CGIL, per legami che abbiamo con le forze politiche della sinistra, i quali oggi vanno ridefiniti in un nuovo e diverso contesto, superando ogni residua forma di collateralismo, e impegnandoci in un confronto con le forze politiche che verifichi nel merito concreto delle scelte la possibilità di convergenze, di obiettivi comuni.

Ciò avviene oggi nel vivo di una precipitazione della crisi politica del paese.

Lo scontro sulla politica economica del governo e sulla finanziaria è un momento di grande rilievo, di una vicenda politica e istituzionale che ha dimensioni più larghe e che è giunta ora ad una stretta, a un passaggio cruciale, perché è ormai in questione non solo e non tanto la sorte di questo governo, ma la prospettiva del nostro ordinamento democratico.

Io sento molto la necessità che il sindacato, in quanto grande organizzazione della società civile, sia parte attiva nella battaglia, per una riforma democratica dello Stato, per un nuovo ordinamento che valorizzi le autonomie e spezzi il vecchio apparato centralistico, e nella lotta politica e culturale contro le tendenze regressive, di un localismo angusto e intollerante, che colpisce al cuore i valori della solidarietà sociale, e che apre nella società lacerazioni drammatiche, con una impressionante regressione della cultura politica e democratica.

In questa situazione di aspro scontro politico, dopo la grande giornata di lotta del 22 di ottobre, deve continuare il rapporto democratico con i lavoratori, ‘per dare continuità all’iniziativa, per costruire in modo più nitido una nostra proposta alternativa.

Ed è urgente, a me pare dare attuazione, anche in modo parziale e. sperimentale, all’accordo sulle nuove rappresentanze unitarie nei luoghi di lavoro, per cominciare a rendere visibile un nuovo processo democratico, che ha regole precise, e che affida alle rappresentanze aziendali poteri effettivi di contrattazione, dando così forza a una linea di riforma del sistema contrattuale.

Sulle esigenze di democrazia, nel rapporto con i lavoratori e nella vita interna della CGIL, evitiamo, nella nostra discussione, di introdurre in modo strumentale forzature di tipo propagandistico. È un problema di tutta la CGIL, e sappiamo di avere alle spalle un’esperienza inadeguata e di avere tuttora un funzionamento dell’organizzazione ancora troppo appesantito da elementi di burocratizzazione.

Anche questo Congresso, pur così rilevante per la partecipazione degli iscritti, ci segnala problemi irrisolti, a partire da quello, decisivo, della selezione dei gruppi dirigenti, che viene decisa con procedure non chiare e in ambiti ancora troppo ristretti.

In questo senso mi risulta poco comprensibile l’assillo con il quale i nostri gruppi dirigenti tendono a mettersi al riparo dai rischi democratici del ricorso al voto segreto.

Se l’unità nasce così, come misura di emergenza, e come patto di vertice, nasce fragile e finisce per essere solo un’apparenza. Credo che questo Congresso possa avere un’ambizione maggiore, possa costruire una base unitaria più matura, su alcuni punti qualificanti del nostro programma di azione, spostando in avanti la discussione tra di noi, sugli obiettivi, sulle cose da fare, sull’iniziativa di massa che va costruita nel paese, evitando di restare inchiodati senza capacità di dialogo e di ascolto alle posizioni di partenza. La CGIL in ogni caso non resterà ferma, e le energie democratiche che il Congresso ha attivato saranno preziose per realizzare, nei fatti, una svolta in tutto il nostro lavoro.



Numero progressivo: A16
Busta: 1
Estremi cronologici: 1991, 11 novembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Nota settimanale della CGIL Lombardia”, n. 16, 11 novembre 1991, pp. 20-22