VITA ATTIVA: UN PROGETTO SOCIALE

Prefazione di Riccardo Terzi (Segretario nazionale SPI CGIL) al volume di F. Pirone, “La transizione dall’occupazione al pensionamento. Una ricerca tra i lavoratori anziani dell’industria automobilistica italiana

Il lavoro di Francesco Pirone si inserisce in quel filone di ricerca che ruota intorno all’idea dell’”invecchiamento attivo”. Con questa formula si intende la necessità di un nuovo modello di organizzazione sociale, che sappia tradurre la nuova composizione demografica delle nostre società in una risorsa, in una occasione di vita attiva, in un libero sviluppo di tutte le potenzialità che stanno racchiuse nell’età matura. Su questi temi si è concentrata negli ultimi anni l’attenzione dello SPI-CGIL, che ha promosso, in collaborazione con l’Ires, un vasto programma di ricerche. È stato presentato recentemente il volume “Vita attiva?”, che fornisce un quadro riassuntivo di tutto questo lavoro, e su questa base lo SPI, d’intesa con la CGIL, si sta apprestando all’elaborazione di una “carta dei diritti” delle persone anziane, considerate sia nella loro attività lavorativa sia nel loro impegno civile dopo il pensionamento.

Sono perciò evidenti le ragioni del nostro interesse per la ricerca di Pirone, la quale in particolare si concentra su un nodo davvero cruciale, quello della “transizione dall’occupazione al pensionamento”, scandagliandone tutti i complessi risvolti psicologici, esistenziali, sociali. Sta proprio qui, in questa “transizione”, in questo passaggio, il punto critico, il momento in cui ciascuno deve saper misurare il proprio progetto di vita, in una prospettiva che resta aperta a diversi possibili esiti, di sviluppo creativo o di regressione, di maturazione o di ripiegamento. Il tema dell’invecchiamento è, fin dall’antichità, un grande argomento della riflessione filosofica, proprio perché in esso sono implicate tutte le domande fondamentali sul senso della nostra vita e sul nostro destino. Ci si potrebbe attendere, nel momento in cui c’è uno straordinario innalzamento delle aspettative di vita, un risveglio di questa riflessione, un dibattito teorico e culturale che si misuri con la nuova realtà.

È invece del tutto sconcertante il modo sbrigativo, burocratico, ragionieristico, con cui il problema viene trattato nel dibattito politico corrente, il quale si limita a discutere della soglia da fissare per l’età pensionabile, degli equilibri di bilancio, del contenimento della spesa previdenziale. È del tutto assente uno sforzo di progettazione sociale, che prenda in considerazione i grandi mutamenti che sono indotti dall’attuale andamento demografico, i quali investono frontalmente la vita delle persone, la loro identità, i legami sociali, le forme della convivenza e della partecipazione democratica. Mi sembra perciò utile ragionare sulla “transizione”, secondo due diverse e complementari accezioni: transizione verso un nuovo modello sociale, che va costruito a partire dai dati della realtà, e transizione esistenziale, passaggio di vita, in cui ciascuno deve saper riprogettare il proprio futuro.

Nel primo senso, si tratta di superare la tradizionale tripartizione del ciclo di vita, con la sua rigida scansione temporale tra studio, lavoro e riposo, perché essa produce, nelle diverse età, una atrofizzazione degli spazi vitali. Ciò risulta con particolare evidenza nell’età matura, che viene consegnata ad una prospettiva di totale passività, ma altrettanto deformante è l’idea di un’età lavorativa nella quale tutto lo spazio è occupato e scandito dai ritmi di una competitività totale, a cui tutto deve essere sacrificato. È dunque necessario riorganizzare i tempi dell’intera vita sociale, così da combinare, in tutte le diverse fasi, il momento del lavoro e dello studio (l’educazione permanente), così come occorre lasciare sempre aperto uno spazio per le relazioni affettive, per la cura di sé, per il libero sviluppo della propria personalità. Il modello sociale che è stato imposto nell’epoca dell’industrializzazione e dell’organizzazione fordista del lavoro dà luogo ad una umanità dimezzata, che nel lavoro sacrifica la sua anima, e che dopo il lavoro si volatilizza in una condizione di astrazione e di vuoto, senza più nessun rapporto con la realtà. E il passaggio dall’una all’altra di queste condizioni diviene, necessariamente, un evento traumatico, perché segna una rottura violenta, un brusco capovolgimento dello stile di vita, senza che sia data la possibilità di una maturazione, di un processo da regolare e da graduare in base alle proprie esigenze.

Tutte le testimonianze raccolte da Pirone ci dimostrano come i lavoratori vivono la prospettiva del pensionamento con un atteggiamento che può essere definito di inquietudine, di incertezza, perché essi si trovano in bilico tra la prospettiva liberatoria della fine di un lavoro che ha prosciugato le loro energie e la prospettiva disperante di un ripiegamento nelle mura domestiche e di una perdita del ruolo sociale. Questo è allora il tema da affrontare: non a quale età si deve imporre questa rottura esistenziale, ma come si può evitare la rottura, come si può governare diversamente tutto il processo.

Una importante innovazione può essere l’adozione di un pensionamento parziale, che consenta un distacco dal lavoro più graduale, offrendo alle persone anziane la possibilità di un’attività più prolungata nel tempo e insieme più compatibile con la loro condizione. In ogni caso, tutto il tema del pensionamento deve essere affrontato con il massimo di flessibilità, perché occorre tener conto di molte variabili, che attengono alla situazione familiare, allo stato di salute, alle aspettative personali.  Discutere di “età pensionabile” prescindendo da tutte queste variabili è un atto di arroganza e di stupidità, che suscita legittimamente nelle persone interessate un movimento di ribellione, perché nessuno sembra preoccuparsi della loro reale condizione. Basti pensare alle diverse tipologie di lavoro, alla diversità che oppone il lavoro manuale a quello intellettuale, alla questione mai risolta dei “lavori usuranti”, o anche alla diversa condizione delle donne, su cui continua a scaricarsi tutto il peso del lavoro di cura e della conduzione familiare.

Questo stato di inquietudine è ulteriormente amplificato per effetto delle strategie aziendali oggi dominanti, le quali puntano a salvaguardare un nucleo ristrettissimo di funzioni strategiche e a creare, intorno a questo nucleo, una vastissima area di mobilità e di precarietà, che deve potersi adattare alle mutevoli esigenze del mercato. Ne viene una fortissima spinta verso un continuo ricambio della manodopera, con effetti drammatici per i lavoratori più anziani. Mentre si teorizza la necessità di posticipare il pensionamento, la fragilità occupazionale comincia assai prima, già intorno ai 50 anni, e si determina un lungo periodo di incertezza, non coperto da adeguati strumenti di protezione sociale. Non si tratta affatto di un “conflitto generazionale”, ma piuttosto di un destino di fragilità che accomuna gli uni e gli altri, entrambi sacrificati al calcolo brutale degli interessi imprenditoriali. Ne viene la necessità di una unitaria azione rivendicativa e contrattuale, per una diversa gestione del mercato del lavoro. In questo quadro, è importante considerare l’età come un possibile fattore di discriminazione, e apprestare su questa base tutte le necessarie difese di carattere giuridico.

Nelle storie individuali dei lavoratori di Arese e di Pomigliano vediamo quanto abbia inciso pesantemente questa pratica di liberarsi dei lavoratori più anziani, con un ricorso massiccio alla cassa integrazione, alla mobilità e al prepensionamento, per cui il loro racconto è quello di persone che si sentono tradite e abbandonate, dopo una vita dedicata con impegno e partecipazione attiva al lavoro di fabbrica. Non si tratta quindi di una transizione fisiologica, scandita secondo i ritmi naturali della vita delle persone, ma di uno scontro sociale che mette in opposizione i bisogni soggettivi delle persone e le convenienze oggettive dell’impresa, per cui in ogni caso i lavoratori sentono che questo passaggio non è nelle loro mani, che sono usati, piegati ad esigenze esterne, senza nessuna considerazione per i loro soggettivi progetti di vita. Non è certo facile trovare un equilibrio, ed individuare delle soluzioni realistiche che siano capaci di armonizzare le due opposte esigenze. Ma almeno occorrerebbe capire che questo è il tema, che il discorso sul sistema previdenziale non è un discorso tecnico, contabile, economicistico, ma è il discorso da cui dipendono i ritmi, le scansioni della nostra vita, le forme dell’organizzazione sociale.

D’altra parte, il concetto di transizione ha un significato anche più ampio, perché l’invecchiamento segna comunque un passaggio critico, un crocevia esistenziale, che è sempre aperto al rischio di una disfatta, di una vita che finisce intrappolata nei meccanismi del risentimento, della nostalgia, della paura, del rifiuto del cambiamento. Per questo occorre un approccio al problema dell’invecchiamento che non sia solo di carattere economico, ma culturale, psicologico, filosofico, proprio perché la domanda che si esprime, in modo più o meno consapevole, nelle persone anziane è una domanda di senso, di identità, di relazioni, di socialità. Il Sindacato dei pensionati deve avere questa apertura, questo orizzonte largo, se non vuole ridursi ad essere solo una struttura di servizio, per le varie pratiche burocratiche, se vuole cioè realizzare già al suo interno il principio dell’”invecchiamento attivo”, l’idea cioè di una piena e consapevole partecipazione delle persone anziane a tutti i momenti della vita sociale, politica, culturale. Il Sindacato dei pensionati rappresenta quindi un momento di “anticipazione”, nel senso che si trova ad esplorare tutto il tema della cittadinanza, aprendo così la strada ad una nuova e più moderna concezione della confederalità, superando le vecchie logiche settoriali e corporative, vedendo come i diritti del lavoro e i diritti di cittadinanza sono inseparabili, sono le due facce dello stesso problema.

Se guardiamo alla società dal punto di vista delle persone anziane, nell’ottica dell’invecchiamento, vediamo più chiaramente le strozzature, le contraddizioni, e la necessità quindi di un modello sociale che non sia regolato esclusivamente dalla logica del mercato e della competitività, la necessità di creare spazi vitali che stiano “oltre” il mercato, e che realizzino quelle condizioni di socialità, di relazioni umane disinteressate, di convivenza civile, le quali rappresentano il punto di debolezza e di fragilità dell’attuale sistema. Questo è il tema che ci sta di fronte: la costruzione di un nuovo equilibrio sociale, nel quale trovino spazio i bisogni soggettivi delle persone, i loro diritti, la loro libertà di scelta. E gli anziani rappresentano un capitolo decisivo di questa riprogettazione sociale, proprio per la loro condizione, per il loro essere esposti a un possibile destino di emarginazione, per il loro bisogno di affermare il proprio ruolo nella vita sociale, non sul terreno della competizione economica, ma su quello della qualità della cittadinanza e della convivenza civile.

Questo tipo di ricerca ci spinge ad esplorare tutto quello spazio intermedio che sta tra lo Stato e il mercato, a declinare quindi i temi della sussidiarietà, della cittadinanza attiva, dell’economia sociale. Sono i due opposti fondamentalismi dello statalismo, che pretende una totale regolazione dall’alto, e del liberismo, che si affida esclusivamente alla spontaneità dei mercati, i due fattori di alienazione, di asservimento della vita delle persone a potenze esterne, e gli insuccessi della modernità sono dovuti a questa polarizzazione, nella quale tutti gli spazi intermedi sono rimasti schiacciati. Qui si apre un vasto campo di progettazione e di ricerca, e il sindacalismo confederale può essere rilanciato e valorizzato solo in questa prospettiva, mettendo cioè in moto processi innovativi di auto-organizzazione sociale e di democrazia partecipativa. L’invecchiamento, con tutte le sue complesse implicazioni sociali, è sicuramente uno dei temi più impegnativi, che mette alla prova il ruolo e la capacità progettuale del sindacato.

Non è un tema settoriale, che possa essere affrontato come un capitolo a se stante. Il limite di fondo di tutte le politiche fin qui praticate è stato proprio nella settorialità dell’approccio, per cui infine ci si limita a qualche intervento assistenziale, senza agire in profondità sulla struttura sociale complessiva. Possiamo dire così: che le forme dell’invecchiamento sono il risultato dell’intero corso della vita, che è la qualità della vita, in tutti i suoi passaggi, ciò che decide dell’invecchiamento e lo fa essere un momento di maturazione o di sconfitta. Invecchia bene solo chi ha la possibilità di vivere bene, chi accumula nel corso della sua esperienza quelle risorse culturali, sociali, umane, che gli consentono di gestire la sua età matura, di governarla e non di subirla, di progettarla secondo una propria autonoma scelta. La saggezza, che gli antichi attribuiscono alla vecchiaia, è possibile solo come un accumulo di esperienza, come il coronamento di una vita che è stata, nel suo insieme, governata, regolata, guidata da un criterio di razionalità. Non può darsi saggezza come una sorta di illuminazione tardiva, e ciò che noi siamo nella nostra età matura non è altro che il risultato finale dell’intera esperienza di vita. Per questo, occuparsi dell’invecchiamento vuol dire occuparsi non di un segmento, ma dell’intero. Vuol dire progettare una società in cui la saggezza sia possibile, in cui le persone, nel passaggio critico dell’invecchiamento, non siano messe fuori gioco, disarcionate, spinte in una condizione di marginalità.

Ora, se il discorso investe la globalità della struttura sociale, dobbiamo analizzarne le articolazioni, le fratture interne, le diverse traiettorie esistenziali nel loro rapporto con la concreta condizione sociale. È questo un lavoro analitico che troppo spesso viene abbandonato, per cui tutto il discorso intorno ai diritti resta appeso per aria, nella finzione di una eguaglianza e di una universalità che è solo astrattamente proclamata, senza indagarne le relazioni con l’effettività dei rapporti sociali e con la materialità delle strutture di potere. Si parla di “società civile”, come se si trattasse di una entità omogenea, e si rimuove il fatto che esistono delle spaccature sociali le quali impediscono, in quanto tali, l’eguaglianza nell’esercizio dei diritti fondamentali. Così, ad esempio, tutta la retorica intorno al “merito” dimentica volutamente l’esistenza di un “sottosuolo”, di un universo sociale sommerso, che non ha mai potuto cimentarsi sul terreno del merito, dovendosi occupare solo delle necessità elementari della sopravvivenza.

In questo nostro mondo, che ama definirsi post-ideologico, ci sentiamo ancora minacciati dai fantasmi politici del ‘900, e allora ci sono parole che non possono più essere nominate, perché il solo nominarle ci espone all’accusa di essere fuori tempo. Classe operaia, lavoro operaio, sono parole ormai espunte dal vocabolario politico, e con l’accusa di operaismo si pensa di aver liquidato il problema. Oggi sono altri i soggetti meritevoli di attenzione, sono altri i temi che segnano la linea di confine tra destra e sinistra. E allora accade, inevitabilmente, che gli operai non si riconoscono più in una rappresentanza politica, si sentono messi fuori gioco, e possono quindi sbandare nelle più diverse direzioni. È la fine drammatica di un ciclo politico. Ma non c’è bisogno dell’operaismo in quanto ideologia per capire che la condizione operaia è pur sempre un essenziale metro di misura del livello di civiltà di un determinato assetto sociale. Se gli operai finiscono nel sottosuolo, finisce anche per dissolversi ogni idea di giustizia e di solidarietà.

Ora, il maggiore interesse che ci offre lo studio di Francesco Pirone è proprio quello di prendere in considerazione uno specifico segmento sociale, quello del lavoro di fabbrica negli stabilimenti di Arese e di Pomigliano. Forse toccherà anche a lui l’accusa di essere un operaista impenitente. Ma il suo è un approccio rigoroso, scientifico, è l’impegno a calarsi nella realtà, a vederla nelle sue diverse sfaccettature, non secondo schemi teorici precostituiti, ma dando voce alle testimonianze concrete delle persone, alle loro storie individuali.

Per questo giudico il suo lavoro un importante e coraggioso contribuito a ristabilire un criterio di verità e di oggettività nella valutazione dei processi sociali. Io ho incontrato più volte nel mio lavoro la realtà dell’Alfa Romeo di Arese, quel mondo operaio orgoglioso della sua professionalità, legato da un forte senso di appartenenza all’azienda, un mondo che ha agito da protagonista sulla scena politica e sindacale, che ha prodotto quadri, cultura politica, coscienza di classe. E ricordo la “rottura” che si è prodotta con il passaggio alla Fiat, il senso di una sconfitta, non solo e non tanto per i lavoratori, ma per l’intera struttura industriale del Paese. E ho condiviso, da allora, questo giudizio negativo sull’insieme dell’operazione, la cui finalità era solo quella di liquidare un potenziale concorrente, senza nessun investimento strategico che fosse capace di rilanciare il marchio dell’Alfa Romeo. Tutto il mondo milanese, sindacale e politico, era a favore dell’accordo con la Ford, ma, come si sa, è prevalsa la scelta dei vertici nazionali, che si sono lasciati guidare solo dal criterio dell’italianità e che hanno concesso alla Fiat un potere assoluto in tutto il settore dell’auto. Ad Arese comincia così una storia di decadenza, e insieme di fortissimo inasprimento delle relazioni interne, con l’introduzione di uno stile di governo aziendale attento solo alla disciplina, al controllo, ai ritmi di lavoro, e non alla qualità del progetto industriale. Il destino dell’Alfa era già allora segnato, e i lavoratori lo hanno vissuto con sofferenza sulla loro pelle, sentendo che andava perduta la loro identità di “alfisti”, la loro storia, il loro essere un punto di avanguardia nel tessuto sociale del paese.

Il caso di Pomigliano è in parte diverso, e i lavoratori di quell’area hanno avuto meno difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione, anche perché tutta l’economia meridionale si regge su meccanismi più flessibili, su forme di precarietà e di lavoro sommerso, per cui per quei lavoratori non c’è stato un cambiamento di status sociale, ma la continuazione, in nuove condizioni, di una vita di permanente incertezza. Ora, che cosa esce da queste storie, qual è il loro tratto comune e distintivo? Per inquadrare tutta questa situazione, mi trovo costretto ad usare una di quelle parole “fuori corso”, non più legittimate dal linguaggio politico corrente, la parola “alienazione”, che qui serve ad illuminare le due facce del problema: i meccanismi che nel lavoro determinano una fortissima pressione sulla soggettività del lavoratore, e dall’altro lato la perdita di senso che si produce con l’uscita dal lavoro. Il lavoratore si trova così ad essere doppiamente sconfitto, doppiamente “alienato”, ovvero asservito ad una logica esterna, nel lavoro e nella fine del lavoro. Lo si vede chiaramente nelle testimonianze raccolte da Pirone: da un lato si sente che sono venute meno le energie fisiche per un lavoro stressante, regolato secondo ritmi non più sopportabili, ma dall’altro lato la fine del lavoro non è una liberazione, ma è un’uscita di scena, il passaggio verso una condizione di marginalità. Qui è chiaro il nesso che lega le diverse fasi della vita. Se abbiamo dovuto sacrificare tutto al lavoro, senza poter costruire una rete di interessi e di relazioni, la vecchiaia finirà per essere l’espressione di un vuoto, perché non si sono elaborate per tempo le risorse per gestire in autonomia il tempo dell’invecchiamento. Proprio per questo, è necessario quell’approccio globale, di cui prima abbiamo parlato, è necessario cioè agire sull’intero corso della vita e sul modello sociale complessivo, per spezzare i meccanismi dell’alienazione, i quali impediscono, sia nel lavoro sia dopo il lavoro, un esercizio pieno dell’autonomia della persona.

Parlare di “invecchiamento attivo” vuol dire parlare di questo. Vuol dire intervenire, con un progetto sociale, nella vita concreta delle persone, e vedere di questa vita tutti i suoi risvolti, i suoi conflitti, i suoi lati più nascosti, i suoi fallimenti. Il tema, ripeto, riguarda sia l’esperienza lavorativa, sia la condizione sociale dopo il pensionamento. Occorre trovare un filo di coerenza che leghi questi due momenti, per fare dell’età matura non il momento della passività e dell’abbandono, ma una nuova occasione di impegno. Le due cose stanno insieme: si umanizza l’invecchiamento se e in quanto si umanizza il lavoro, se la società intera è ripensata e riprogettata dal punto di vista delle persone e della loro autonomia. Un sindacato confederale deve avere l’ambizione di affrontare il problema in tutta questa sua ampiezza, e solo così può riattivare una partecipazione consapevole, può rimettere in moto le risorse civili del paese, può ridare voce politica e fiducia a chi rischia di smarrirsi in una vita svuotata di senso.



Numero progressivo: E17
Busta: 5
Estremi cronologici: 2010
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Bozza definitiva della prefazione (vedi record V45)
Pubblicazione: F. Pirone (a cura di), “La transizione dall’occupazione al pensionamento. Una ricerca tra i lavoratori anziani dell’industria automobilistica italiana”, Ediesse, 2010. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione”, pp. 59-68