[VERSO IL XX CONGRESSO DEL PCI]

Intervento di Riccardo Terzi in preparazione al congresso di Rimini

Finalmente, con l’ormai imminente congresso di Rimini, giungiamo al termine del lungo e tormentato processo che conduce alla formazione del nuovo partito.

L’esito non è più in discussione. Ai primi di febbraio sarà dunque già costituito il Partito democratico della sinistra.

Come arriviamo a questo sbocco? Ci arriviamo dopo un anno di scontri aspri e di lacerazioni, e con la minaccia non ancora scongiurata di una scissione.

Ci si può domandare se non fosse più saggio assumere già al XIX Congresso tutte le decisioni, così da non restare per un periodo di tempo così lungo in balia di correnti emotive e di un complicato gioco di manovre interne che ha offuscato la visibilità della “svolta” decisa a Bologna.

Ma probabilmente era necessario attraversare questa fase di travaglio, perché nulla di nuovo e di vitale nasce se non gli viene dato il tempo di prendere forma.

Ora è comunque chiaro che il tempo di questo processo non può essere ulteriormente prolungato, perché avremmo solo il disfacimento di un organismo politico incapace di dominare le proprie interne contraddizioni.

Il XX Congresso si apre sullo scenario di una crisi mondiale che ha messo in moto la terribile macchina della guerra. Ogni giorno e ogni ora ci può essere una precipitazione e un allargamento dello scontro.

La scelta netta compiuta dal partito contro la guerra è un fatto politico di grandissimo rilievo, che chiarisce, più di tante dichiarazioni verbali, quale sia il senso di marcia del processo in cui siamo impegnati. Lasciamo pure strillare i De Michelis e i La Malfa.

Senza questa scelta il PDS sarebbe finito prima di cominciare.

Non solo perché si sarebbe determinata una spaccatura tale da rendere ineluttabile la scissione, ma perché soprattutto avremmo sacrificato al calcolo politico opportunistico le nostre risorse più profonde, la nostra capacità di comunicazione con quella parte della società civile, potenzialmente assai ampia, che rifiuta i meccanismi collaudati del potere e non accetta la politica che si riduce a tecnica di dominio.

Schierarsi per la pace, e tirare tutte le conseguenze di questa scelta di principio, prescindendo da ogni calcolo di convenienza politica immediata, è un fondamentale atto di rottura rispetto alla pratica della politica come manipolazione, come stravolgimento dei significati.

Nell’Italia degli omissis e dei segreti di Stato, nell’Italia dell’irresponsabilità e dell’omertà di un’intera classe dirigente, lo spazio politico del nuovo partito è dato solo dalle sue capacità di guardare alle cose con spirito di verità, di essere un punto di riferimento alternativo non in nome di un’ideologia consunta, ma per il fatto che si restituisce significato alla battaglia per la libertà e per la democrazia, restituendo la politica alla sovranità dei Cittadini.

Un partito nuovo, che abbia la freschezza e l’entusiasmo di chi lavora per un nuovo inizio, per un rinnovamento della vita democratica: questo deve essere il PDS.

Se invece dovesse nascere già coperto dalla muffa delle vecchie pratiche partitocratiche, non avrebbe allora nessun futuro, e non potrebbe mettere in moto nuove forze, suscitare nuove passioni.

È ancora possibile un’operazione politica di questo segno, fatta non di rassegnazione o di adattamento, ma di coraggio e di sfida per il futuro?

Io credo di sì, e credo che a tale disegno possano e debbano concorrere tutte le diverse “anime” del partito, senza mutilazioni, a condizione naturalmente che ciascuno sappia rimettersi in discussione e non resti inchiodato alle proprie parziali certezze.

A questo punto è essenziale il problema delle regole, degli strumenti con i quali organizzare una vita democratica ricca e articolata, capace di valorizzare le differenze, di esaltare l’apporto critico e creativo che ciascuno può dare.

Se vogliamo restituire un senso alle parole, allora un Partito “democratico” della sinistra può sorgere solo se mette al primo posto il problema della democratizzazione della sua vita interna.

Ancora oggi, nonostante la rottura che ha fatto saltare le vecchie regole del centralismo democratico, continua ad esistere una struttura di tipo oligarchico, fortemente accentrata, e agisce ancora l’eredità pesante di tutta una lunga tradizione.

La soluzione non è la rigidità delle correnti o, peggio ancora, un partito che è la federazione di più partiti, perché ciò vorrebbe dire il dominio totale della burocrazia e dei capi-corrente.

Se la disciplina di partito ha avuto una sua giustificazione storica, e in qualche misura la mantiene tuttora, perché deve pur essere garantito un minimo di coesione, la disciplina di corrente significa solo il trionfo dello spirito gregario, dell’opportunismo e della mediocrità.

Penso piuttosto ad una struttura organizzativa molto mobile e flessibile, che consente una pluralità di esperienze, di contributi, una varietà di forme di aggregazione, una continua tensione di ricerca che non si cristallizza in forme di tipo burocratico. Forse è un’illusione, ma vorrei pensare al PDS come ad un partito di uomini liberi, capaci di indipendenza di giudizio, gelosi della propria autonomia, impegnati in un’impresa collettiva che non chiede a nessuno il sacrificio della propria personalità.

Non so come tradurre questi principi in regole e in modelli organizzativi concreti. Ma se fossimo d’accordo su questa ispirazione sarebbe già un punto di partenza importante. Potremmo cominciare con l’adozione di nuove regole per la selezione dei gruppi dirigenti, i quali non siano più il risultato dell’autodifesa di una burocrazia chiusa, e dei suoi interni equilibri, ma l’espressione, in forme finalmente aperte, di una collettività di partito che si autogoverna.


Numero progressivo: H9
Busta: 8
Estremi cronologici: [1991, gennaio]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -