[VERSO IL XVII CONGRESSO NAZIONALE DEL PCI]

Intervento di Riccardo Terzi decontestualizzato

1) La convocazione del XVII Congresso nazionale del PCI è stata decisa dopo i due insuccessi delle elezioni amministrative e del referendum, che hanno confermato ed aggravato la tendenza negativa avviatasi nel 1979.

Il senso del Congresso sta quindi, in primo luogo, nella ricerca delle ragioni che hanno determinato questa situazione di crisi.

Una tale riflessione critica e autocritica è scarsamente presente nelle tesi, nelle quali sono prevalenti gli elementi di continuità. Non si coglie il fatto che il PCI si trova oggi a un passaggio cruciale, che rimette in discussione il suo ruolo e la sua identità.

L’offensiva delle forze conservatrici, che si è sviluppata in Italia e su scala mondiale, tende a colpire l’insieme delle conquiste sociali e dei valori ideali propri del movimento operaio e della sinistra.

L’accentuata conflittualità tra comunisti e socialisti rischia di compromettere, nella prospettiva storica, la possibilità per la sinistra di una risposta efficace e decisa ai disegni di restaurazione, e rischia di lacerare il vasto tessuto unitario che è stato costruito negli anni passati.

Di fronte a questa nuova situazione e a questi pericoli, il partito ha reagito in modo incerto e contraddittorio.

All’avvio di nuovi e più ampi rapporti con le diverse forze della sinistra europea, non ha corrisposto, nella politica interna, un analogo impegno per la costruzione di uno schieramento unitario di tutte le forze riformatrici. Al contrario, sono emerse tendenze all’arroccamento, all’isolamento, si è esaltata la “diversità” del partito in contrapposizione a tutte le altre forze politiche, ci si è mossi dunque lungo una linea che non poneva in primo piano la necessità di lavorare per una larga convergenza nella sinistra e di eliminare le radici storiche di una divisione non più motivata da essenziali divergenze ideologiche e di principio.

All’esaltazione dell’“anomalia” del caso italiano occorre sostituire una piena consapevolezza della dimensione europea in cui necessariamente si colloca la nostra azione politica, e al culto della diversità del PCI occorre sostituire una forte ispirazione unitaria che collochi il ruolo del partito sul terreno saldo delle conquiste storiche del movimento operaio e democratico. Tutta la nostra storia ci indica che la nostra forza è inseparabile dalla forza complessiva e dall’ampiezza del tessuto unitario in cui si organizza il movimento dei lavoratori.

È necessario dunque impegnare tutte le nostre forze in un’opera di ricostruzione e di sviluppo unitario, nel movimento sindacale, nei rapporti politici, nelle istituzioni democratiche, nel confronto culturale. È questa la condizione preliminare per superare la crisi attuale.

In questo senso il congresso deve segnare una svolta, deve denunciare e contrastare apertamente errori di settarismo e di chiusura, deve indicare a tutto il partito la necessità di lavorare in modo nuovo, cogliendo tutte le ricche e multiformi potenzialità democratiche e riformatrici presenti nella società italiana.

 

2) La dimensione dello scontro politico non è solo nazionale, ma europea e mondiale. Per questo sono di estrema importanza le scelte, contenute nei documenti congressuali, che configurano il nostro partito come “parte integrante” della sinistra europea.

A questa affermazione di principio deve seguire una pratica coerente, la ricerca sistematica di forme e sedi di confronto e di elaborazione politica comune tra le forze della sinistra democratica in Europa, superando in via definitiva le barriere ideologiche che si sono storicamente prodotte.

È ormai definitivamente alle spalle ogni idea di collocazione internazionale del PCI che sia condizionata da un rapporto privilegiato con l’URSS e con il blocco dei paesi socialisti dell’Est europeo. Una nuova unità della sinistra europea non può che nascere sulla base di una riflessione autonoma e originale, e sulla base di una critica rigorosa delle esperienze di socialismo che si sono costruite sul modello sovietico.

D’altra parte, gli elementi di novità presenti nell’attuale politica del nuovo gruppo dirigente sovietico confermano queste nostre critiche. La società sovietica avverte ora, dopo un lungo periodo di stagnazione burocratica, la necessità impellente di procedere ad un’opera di modernizzazione e di innovazione, e da questo processo, se verrà condotto avanti con coerenza, potranno venire effetti positivi anche nel senso di una progressiva trasformazione delle strutture politiche e statuali, che sono state troppo a lungo ossificate in un conservatorismo burocratico che ha soffocato bisogni insopprimibili di libertà e che ha negato ogni momento di articolazione autonoma della società civile. È interesse comune a tutte le forze della sinistra europea favorire e incoraggiare questo processo di modernizzazione, in modo che esso non resti in superficie, ma affronti gli aspetti strutturali e le contraddizioni di fondo della società sovietica e degli altri paesi socialisti.

 

3) Sul piano della politica interna la questione centrale da affrontare e da approfondire è quella dell’alternativa democratica. La politica di alternativa non è stata concretizzata in un’azione puntuale di elaborazione programmatica e di costruzione delle necessarie convergenze politiche, ma è apparsa piuttosto come un’esigenza astratta di rifondazione della politica, in polemica aspra con le altre forze politiche, e con il PSI in primo luogo. Ne è derivata la tendenza ad un’azione propagandistica, ad un offuscamento della capacità di misurarsi con i problemi reali del Paese come forza di governo.

Una correzione di questi limiti è in atto, e nelle stesse tesi per il Congresso è presente l’esigenza di-restituire pienamente al partito capacità di iniziativa politica concreta.

C’è però il rischio che, criticando e superando i modi astratti e propagandistici entro i quali è stata fin qui tenuta la prospettiva dell’alternativa, si pervenga ad un suo sostanziale rovesciamento.

La proposta di un “governo di programma” contiene questo rischio, in quanto non è sufficientemente elaborata e non appare chiaro il rapporto con la scelta strategica di fondo dell’alternativa democratica.

Ne deriva un offuscamento della linea di alternativa, che viene sospinta sullo sfondo e rinviata a tempi indeterminati, mentre in primo piano si pone una esigenza di ricercare punti di intesa programmatica con tutto l’arco del le forze politiche democratiche.

Non si vede però quali possano essere oggi all’interno della Democrazia Cristiana interlocutori politici attendibili, anche ai fini di un accordo di governo limitato e temporaneo. Con la morte di Moro si è davvero chiusa una fase, e l’attuale gruppo dirigente persegue lucidamente una linea che punta, in forme nuove e aggiornate, a ristabilire un ruolo di guida della DC in quanto espressione di un blocco moderato, in un rapporto col PCI che è di tipo alternativo non tanto per ragioni ideologiche, ma per la diversità dei contenuti e dei programmi.

La scelta di una linea di alternativa alla DC e al suo sistema di potere è quindi avvalorata dai fatti, e appare più realistica rispetto ad ipotesi del tutto improbabili di convergenze programmatiche che superino la reciproca collocazione alternativa delle due maggiori forze politiche.

La proposta di “governo di programma” sembra rispondere essenzialmente ad una esigenza di ordine tattico. Nel momento in cui si viene aprendo una crisi all’interno della maggioranza di governo, e si possono pertanto determinare sviluppi nuovi nella situazione politica, è evidente che il PCI deve giocare le sue carte con tutta la necessaria duttilità, senza restare prigioniero di schemi rigidi. Ma si tratta, appunto, di una questione di tattica politica che non può essere pregiudizialmente definita in una piattaforma congressuale, ma deve essere lasciata alla valutazione concreta degli avvenimenti.

Con il Congresso si tratta piuttosto di definire gli obiettivi di fondo, le mete strategiche, si tratta quindi di elaborare in modo adeguato la politica dell’alternativa, i suoi contenuti, il sistema di alleanze che è necessario costruire, l’insieme di condizioni che occorre determinare per rendere questa linea politica praticabile ed efficace.

Ciò richiede in primo luogo una riflessione sul partito, sulla sua identità, sui valori che ne orientano l’azione politica concreta, una capacità di revisione e di aggiornamento critico dei nostri presupposti. E ciò richiede una discussione chiara intorno ai nostri rapporti con il PSI, che non può che essere, in questo contesto, l’interlocutore privilegiato della nostra iniziativa politica.

Sono evidenti i numerosi motivi di differenziazione che tuttora ci distinguono dalla politica del PSI. Ma si tratta di valutare se il PSI può essere un elemento dinamico, lungo una linea che punti a liquidare la tradizionale centralità democristiana, o se viceversa esso si è integrato dentro un assetto di potere conservatore ed ha quindi perduto la sua ispirazione riformatrice.

In nostro partito, nel giudizio su tale questione, ha oscillato, ha alternato attacchi frontali a iniziative di distensione, e questo problema appare anche nelle tesi non risolto. È necessaria invece una posizione politica chiara, che faccia del rapporto col PSI, pur nel confronto critico e nella lotta politica, un passaggio strategico necessario per la costruzione di una linea di alternativa.

 

4) La politica dell’alternativa democratica ha bisogno di essere sostenuta da una forte elaborazione programmatica, che individui quali sono, in questo momento di scontro sociale aperto, e di fronte all’offensiva dei gruppi capitalistici dominanti, i punti essenziali su cui concentrare l’iniziativa del partito, della sinistra, del movimento operaio.

In questo senso l’elaborazione di un programma è anzitutto la scelta di un terreno di lotta.

Due sono le questioni essenziali. La prima è quella del governo democratico dell’economia.

Per affrontare con successo il problema drammatico della disoccupazione, per accelerare ed estendere i processi di innovazione, per favorire una politica di sviluppo, è indispensabile una forte capacità di governo dei processi economici e quindi una lotta politica che si opponga alle tendenze neo-liberistiche oggi prevalenti, le quali non possono che accentuare la frantumazione corporativa della società e rendere insanabili le contraddizioni e le arretratezze della nostra strutture economica.

Un governo democratico dell’economia implica anche l’individuazione di nuove forme di controllo e di partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti alle scelte; mediante una riforma democratica dell’impresa.

Per questo ha grande rilievo oggi la questione sindacale.

L’attacco conservatore al potere contrattuale del sindacato non può essere respinto con le sole forze del sindacato, ma richiede una più ampia ed estesa lotta politica. E chiaro deve essere un orientamento politico che favorisca il pieno recupero dell’unità sindacale.

La seconda questione essenziale è quella della riforma dello Stato. Questo tema va affrontato sia ridefinendo il ruolo dello Stato e i suoi strumenti operativi ai fini di una effettiva capacità di governo dei processi economici; sia rivedendo i meccanismi elettorali, il funzionamento delle assemblee elettive, il rapporto tra Parlamento e Governo, in modo da configurare un sistema politico non più paralizzato e meno esposto al rischio di una instabilità permanente, ma orientato verso la formazione di schieramenti politici alternativi che si qualificano sulla base di un programma di governo.

 

5) Il partito non ha saputo nella misura necessaria rapportarsi ai mutamenti che sono avvenuti nella società, e soffre da tempo di una tendenza negativa sia per quanto riguarda il numero delle adesioni, sia sotto il profilo della qualità e della vitalità dell’iniziativa politica di base. Tendenze pericolose al burocratismo prendono corpo e rischiano di rendere più difficili e più aleatori i nostri rapporti con la società civile e con le sue forze più dinamiche.

 

Per queste ragioni è matura oggi l’esigenza di una riforma coraggiosa del regime di vita interna del partito, che ponga in primo piano la necessità di uno sviluppo democratico conseguente, tale da consentire un confronto aperto delle posizioni e un intervento attivo degli iscritti e delle strutture di base.

In questo senso va posta esplicitamente la questione del superamento del centralismo democratico. È sempre più evidente che le regole del centralismo democratico non riescono più ad adattarsi alla realtà di un partito che è al suo interno ricco di articolazioni, sociali, politiche e culturali, e che tali regole finiscono quindi per determinare un appiattimento burocratico, che non valorizza tutte le potenzialità, ma piuttosto le condiziona e le costringe entro una logica di mediazione che abbassa il livello del dibattito. Non è sufficiente il riconoscimento del diritto individuale al dissenso, perché si tratta qui solo di un atteggiamento di doverosa tolleranza che non modifica i meccanismi di funzionamento dell’organizzazione. Le tesi, pur cercando di allentare i vincoli del centralismo, ribadiscono, affermando che il partito si regge sul principio dell’unità, quello che è il nocciolo politico ed ideale del centralismo democratico, l’idea cioè che la forza politica del partito sia proporzionata alla sua compattezza organizzativa, alla sua coesione, alla sua capacità di disciplina.

L’unità non può essere un “principio”, ma solo il risultato di una sintesi; politica a cui pervenire sulla base di un confronto limpido e pluralistico che si svolge apertamente davanti a tutto il partito e all’opinione pubblica.

Ciò comporta anche una profonda revisione delle modalità di selezione dei gruppi dirigenti e la costruzione di un modello organizzativo nel quale venga ridimensionato il peso degli apparati e venga restituito alle istanze democratiche, a partire dalle sezioni, un effettivo ruolo decisionale.



Numero progressivo: F23
Busta: 6
Estremi cronologici: [1986?]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -