SUSSIDIARIETÀ COME DIMENSIONE PUBBLICA E CIVILE DELL’AGIRE SOCIALE

Beni pubblici e servizi sociali in tempi di sussidiarietà
Seminario Urbino 9-10 novembre 2006

Introduzione di Riccardo Terzi al seminario.

Il principio di sussidiarietà è entrato nel nostro ordinamento costituzionale. Nei trattati dell’Unione Europea la sussidiarietà è assunta come criterio di regolazione verticale dei rapporti tra i diversi livelli di governo (comunitario, statale, regionale). E con la modifica del titolo V della nostra Costituzione si introduce una più ampia definizione della sussidiarietà in quanto principio regolatore dei rapporti tra l’amministrazione pubblica e l’iniziativa dei soggetti sociali. La sussidiarietà, così intesa, agisce non solo sull’ asse verticale, ma anche su quello orizzontale, e implica una generale ridefinizione dei concetti di “pubblico” e “privato”, del loro rapporto, delle loro possibili interazioni. Il testo approvato è il seguente: «Stato, Regioni, Città Metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.» A questa formulazione si è giunti dopo una lunga e tormentata discussione, nella Commissione Bicamerale e in Parlamento, nella quale si sono confrontate e si sono anche aspramente scontrate diverse concezioni politiche. C’è stata una fortissima pressione per qualificare la sussidiarietà come un primato del privato sul pubblico, come un indirizzo teorico e pratico che limita drasticamente la sfera pubblica, riducendola ad un intervento di ultima istanza, solo là dove non può giungere l’autoregolazione sociale.

Se andiamo a rivedere i testi della Commissione Bicamerale, vediamo chiaramente all’ opera questa pressione, perché in una prima stesura alle istituzioni pubbliche vengono affidate solo “le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dalla autonomia dei privati”. E voglio ricordare la netta contrarietà allora espressa dalla CGIL, perché quella formulazione poteva essere usata “per invocare una politica generalizzata di deregolazione e di privatizzazione”.

Intorno alla sussidiarietà si è combattuta una battaglia, e i fautori del fondamentalismo privatistico sono stati infine battuti. È evidente infatti come l’attuale testo costituzionale abbia un segno del tutto diverso, in quanto esso indica una linea di integrazione e di collaborazione tra pubblico e privato, nella prospettiva di una migliore e più efficace tutela dei beni pubblici. Non è possibile, a mio giudizio, sottovalutare l’importanza di questo esito, e non vedere come il rischio concreto di uno stravolgimento dei principi costituzionali sia stato neutralizzato.

Naturalmente, come sempre avviene, non si tratta di una battaglia vinta per sempre, e il conflitto continua a percorrere la nostra vicenda politico-istituzionale. Ma abbiamo alle spalle il risultato straordinariamente positivo del Referendum, che ha ridato forza alla nostra Costituzione ed ha bloccato il tentativo di una sua manomissione. La partita è ancora aperta, ma in condizioni largamente più favorevoli. Vorrei anzitutto fissare questo punto: che l’attuale testo costituzionale rappresenta una buona base di partenza, che deve essere valorizzata e difesa. E che del tema della sussidiarietà non possiamo disinteressarci, ma dobbiamo vedere come declinarlo e interpretarlo, nel quadro dei principi fondamentali della nostra Costituzione.

Tuttavia, il concetto di sussidiarietà resta per molti aspetti sfuggente e ambiguo, e si presta a diverse possibili interpretazioni e manipolazioni. Esso possiede più una forza di suggestione che non un suo interno rigore concettuale, col rischio così di divenire non un principio giuridico, ma una ideologia, un nuovo baricentro teorico con una sua pretesa di assolutezza. La nota di Antonio Cantaro, che riassume efficacemente il senso di questo nostro convegno, mette bene in evidenza il ruolo deviante che possono assumere le ideologie, pro o contro la sussidiarietà, in quanto costruiscono uno schema teorico del tutto astratto che poco ha a che fare con la pratica reale e con l’effettività delle diverse esperienze amministrative. L’ideologia agisce sempre come un velo che si frappone alla comprensione della realtà.

Sul piano della costruzione simbolica, il caso più emblematico è sicuramente quello della Lombardia, dove con più coerenza è stata perseguita una linea di interpretazione della sussidiarietà come arretramento del pubblico, come sua abdicazione di fronte alla rete dei soggetti privati: famiglie, imprese, fondazioni. Ne risulta, in via teorica, un modello che può essere definito neo­feudale, perché non c’è universalità della cittadinanza, ma c’è solo una logica di scambio, nella quale le convenienze politiche e quelle economiche si puntellano reciprocamente.

Ma anche il caso della Lombardia va letto non con le lenti dell’ideologia, ma con quelle dell’indagine empirica. Molte cose sono in tutta evidenza ideologizzazioni astratte, come ad esempio l’enfasi sul ruolo primario della famiglia, proprio in una realtà che vede in atto una destrutturazione della famiglia tradizionale e una crescente individualizzazione degli stili di vita. Al di là degli schemi teorici, vanno dunque indagate le prassi reali, che presentano un quadro assai variegato e non riconducibile schematicamente agli schieramenti politici e alle impalcature ideologiche ufficialmente dichiarate.

Se c’è un’ambivalenza, o una ambiguità, nella teoria, c’è ancor più un’oscillazione della pratica, che è fatta di tentativi, di soluzioni provvisorie, di compromessi, di equilibri spesso incerti e precari.

Tutto il confine tra pubblico e privato è attraversato da un sommovimento assai complesso, e non è più così evidente la linea di demarcazione tra i due campi. E risulta assai difficile individuare nella realtà dei modelli compiuti e coerenti.

Questa generale effervescenza della situazione ha come sua causa prima il fatto che il tradizionale centralismo statale, con le sue procedure gerarchizzate e burocratiche, è entrato definitivamente in crisi. È entrato in crisi perché la società non accetta più di essere rigidamente inquadrata in uno schema di potere tutto verticale, dall’alto verso il basso, che non riconosce e non valorizza le autonomie, e perché soprattutto è sempre più evidente che la centralizzazione produce inefficienza e dispersione di risorse, perché pretende di imporre un unico modello standardizzato in una realtà sociale articolata, differenziata, che può essere efficacemente governata solo con una grande flessibilità ed adattabilità degli strumenti amministrativi.

È dunque aperto il problema di dare allo Stato e alla pubblica amministrazione una nuova forma, regolando in modo nuovo tutte le relazioni tra Stato e società. Di qui nasce tutta la discussione sul federalismo, sulla sussidiarietà, sulle autonomie sociali, che si è spesso sviluppata in modo schematico, dando luogo a troppo facili e sommarie semplificazioni, ma non ci deve sfuggire il nodo centrale e sostanziale: come riformare lo Stato e come riorganizzare su una diversa base teorica e pratica tutta l’azione amministrativa. È un tema che ci coinvolge direttamente e che fa parte di quella capacità di “riprogettare il Paese”, di cui abbiamo parlato nell’ultimo congresso della CGIL. La sussidiarietà può essere una utile chiave interpretativa per chiarire il senso di questo lavoro di riforma. È questo l’obiettivo di questo nostro incontro: vogliamo misurarci con un problema complicato, ma non eludibile, per cercare di definire una nostra linea di azione riformatrice, nel nuovo quadro costituzionale che si è venuto configurando.

Il problema è di ordine pratico: quali sono le soluzioni più efficaci per rispondere alle nuove emergenze sociali, in un Paese che sta cambiando soprattutto per effetto della nuova curva demografica, con un aumento massiccio della popolazione anziana, e per effetto della crescente ondata migratoria. Lo stato sociale, di fronte a queste nuove emergenze, entra in sofferenza, anche perché non è possibile forzare oltre una certa soglia la pressione fiscale, e si pongono allora difficili alternative nell’uso e nella destinazione delle risorse. Inoltre siamo in presenza non solo di bisogni materiali, ma di “bisogni di relazione”, che non possono essere affrontati solo per via amministrativa e burocratica, per cui l’intervento pubblico non è più sufficiente e occorre mobilitare tutte le risorse dell’associazionismo e del volontariato. Il sistema di welfare si scontra quindi con limiti sia quantitativi che qualitativi.

In questo contesto la sussidiarietà non è altro che la ricerca del livello e degli strumenti più efficaci per rispondere, di volta in volta, al bisogno che si intende affrontare. Sull’ asse verticale delle istituzioni, occorre avvicinarsi il più possibile alla concretezza delle domande sociali e decentrare tutto ciò che è ragionevolmente possibile decentrare. E sull’ asse orizzontale, che regola il rapporto tra pubblico e privato, occorre affidare le diverse funzioni in base ad una valutazione che riguarda esclusivamente l’efficacia dell’intervento rispetto alla domanda. La sussidiarietà è una scala, verticale e orizzontale, e lungo questa scala si tratta di scegliere di volta in volta la posizione più efficace.

Se invece si sovrappongono schemi ideologici astratti, allora c’è solo il fondamentalismo di una posizione di principio che prescinde dalla realtà: privatizzazione ovunque e comunque, o viceversa rifiuto pregiudiziale del privato, inteso solo come speculazione e affarismo. In entrambi i casi, la scala della sussidiarietà non è utilizzata, perché è ideologicamente inibito percorrerla in una direzione o nell’altra. Il privato che annulla il pubblico, o viceversa il pubblico che annulla il privato, sono due pessime soluzioni, perché è sempre indispensabile che questi due aspetti si sappiano integrare. Insisto su questo punto: la sussidiarietà non è un’ideologia, ma una pratica sperimentale, che resta sempre aperta a diverse possibili soluzioni.

I due movimenti, quello verticale e quello orizzontale, non devono essere separati, ma procedono necessariamente l’uno con l’altro. Essi trovano il loro punto di congiunzione nell’idea di una comunità locale capace di autoregolazione, capace cioè di organizzarsi come un “sistema integrato”, con una forte sinergia tra istituzioni pubbliche e soggetti privati. L’idea di fondo è quindi quella di organizzare una comunità solidale nella quale si integrano le diverse funzioni.

La grande novità del nuovo principio costituzionale è che esso supera la tradizionale dicotomia pubblico-privato, amministrazione-amministrati, e cerca così di costruire le condizioni di una collaborazione, di una alleanza. Le funzioni pubbliche non sono più riservate al monopolio dell’amministrazione statale, e ci può essere una autonoma iniziativa sociale che concorre al raggiungimento di obiettivi di interesse generale, e che per questo deve essere riconosciuta e sostenuta. Pubblico non vuol dire statale, e privato non vuol dire particolaristico: si può costruire un ponte che unisce questi due mondi, finora rigidamente separati.

Si rovescia così una antica tradizione del pensiero politico, che vede la società civile solo come il campo degli egoismi, affidando di conseguenza al potere esterno dello Stato il compito di tenere sotto controllo la conflittualità endemica che attraversa tutte le relazioni sociali. Secondo questa tradizione, che ha in Hobbes il suo capostipite, l’ordine sociale è solo il prodotto artificiale dello Stato, e il singolo cittadino non è mai in grado di superare la sua sfera privatistica. Il pessimismo antropologico ha come sua inevitabile conseguenza un’idea autoritaria della politica. È possibile rovesciare, o almeno correggere, questo paradigma? La sussidiarietà ha un senso solo se si esce da questa tradizione, e si guarda alla dinamica sociale e ai comportamenti individuali dei cittadini con un occhio meno diffidente, se si considera possibile non solo il governo dall’alto, ma una responsabile partecipazione dal basso.

Ci può essere allora una “alleanza” tra amministrazione e cittadini, ed è in questa alleanza, secondo Gregorio Arena, che sta il significato essenziale della sussidiarietà: non il pubblico che si ritira e delega ad altri le sue funzioni, ma una pubblica amministrazione che si apre alla partecipazione dei cittadini e con essi collabora per costruire le soluzioni più efficaci. È il metodo della “amministrazione condivisa”. “Quindi entrambi, cittadini attivi e amministrazioni, svolgono una funzione che è di interesse generale non perché è pubblico il soggetto che la svolge, bensì perché essa soddisfa gli interessi di una pluralità di persone facenti parte di una comunità”.

Credo che possiamo convenire con questa impostazione. Nel momento in cui viene superata l’equazione di pubblico e statuale, sia aprono due opzioni: quella di una linea di “privatizzazione”, nella quale il privato resta particolaristico e si sottrae al controllo pubblico della comunità, e quella in alternativa della costruzione di uno spazio pubblico, visibile e controllabile, nel quale anche il privato che ambisce a rappresentare interessi generali deve rispondere della sua azione e deve offrire le necessarie garanzie. È la distinzione che fa Antonio Cantaro tra “regime privatistico” e “regime di pubblicità”. Il problema, dunque, è quello di una regolazione trasparente, che debba valere per tutti i soggetti, così da salvaguardare non le prerogative dello Stato, ma la tutela effettiva dell’interesse generale. È la dimensione del “pubblico” che deve essere ridefinita, ridisegnando la mappa dei beni pubblici e riscrivendo le regole della nostra convivenza. Abbiamo bisogno, per evitare che la crisi dello Stato trascini con sé qualsiasi considerazione dell’interesse generale, di ricostruire uno spazio comune che sia fondato su regole e su valori condivisi. Altrimenti rischiamo di scivolare velocemente verso un regime di corporazioni e di privilegi, dove non c’è più una cittadinanza universale, ma ci sono solo le prerogative legate ad un determinato status sociale.

È questo in gioco nella discussione intorno alla sussidiarietà e nel conflitto tra le sue diverse possibili interpretazioni: il profilo universalistico dei diritti, o l’idea che il principio di eguaglianza sia ormai un vecchio arnese ideologico non più utilizzabile e non più adeguato alla crescente complessità e differenziazione del tessuto sociale.

Prendiamo un esempio concreto: quello della scuola. Può agire il principio di sussidiarietà in questo campo, e quali forme può assumere? Nella logica privatistica, lo Stato deve solo offrire il supporto materiale (infrastrutture e risorse) sul quale si svilupperà la libera competizione dei diversi progetti educativi. È’ come costruire un’autostrada, un investimento pubblico che è destinato alla circolazione privata. In questo senso si è pronunciato recentemente un autorevole esponente della Chiesa cattolica, il Cardinale Scola, rendendo così del tutto esplicita un’idea della libertà scolastica che raramente viene formulata con questa chiarezza. In questo caso, non c’è più una scuola pubblica, ma c’è una rete di iniziative private, e lo Stato si limita a un’azione di sorveglianza.

Se invece pensiamo alla sussidiarietà come alleanza, come collaborazione tra amministrazione e cittadini, ciò significa per il comparto della scuola coinvolgere nella gestione e nelle scelte tutti i diversi soggetti interessati (docenti, studenti, famiglie, istituzioni locali). Significa dunque far leva su quel principio di autonomia che consente ai diversi istituti di regolare in modo creativo la propria attività e di sperimentare nuove forme di partecipazione democratica.

Un discorso analogo può essere fatto per la sanità. La proposta, a cui stiamo lavorando, della “Casa della Salute” punta esattamente a costruire un presidio sanitario nel territorio, al quale collaborano e partecipano tutti i diversi soggetti, in una linea di integrazione che supera le barriere e le separatezze burocratiche. La sussidiarietà, così intesa, non è la liquidazione del pubblico, ma è la sua riforma, la sua democratizzazione. Anche nei grandi comparti dello stato sociale, che attengono ai fondamentali diritti di cittadinanza, la sussidiarietà può dunque essere attivata, a certe condizioni ed entro certi limiti, escludendo comunque una sua interpretazione privatistica che in questi campi avrebbe il significato di una lesione non accettabile dell’universalità e dell’eguaglianza dei diritti sociali.

In altri campi ci possono essere soluzioni più flessibili, più aperte all’iniziativa privata, come ad esempio in tutte le attività di assistenza, dove è attiva una forte rete associativa e cooperativa, che può utilmente integrarsi con le amministrazioni pubbliche, statali o territoriali. Si tratta appunto, a seconda dei problemi che si intendono affrontare, di trovare la soluzione più efficace, senza restare prigionieri di un unico e rigido modello organizzativo.

Non c’è solo lo Stato, o il mercato. C’è una vasta area intermedia, c’è una dimensione “civile”, che non è guidata solo dal particolarismo degli interessi corporativi, ma può concorrere, come dice la norma costituzionale, allo “svolgimento di attività di interesse generale”. Sarebbe davvero incomprensibile una sordità del sindacato a questa impostazione, proprio perché il sindacalismo confederale rientra a pieno titolo in questo discorso e rappresenta un caso significativo di sussidiarietà, ovvero di azione pubblica svolta da un soggetto privato. Tutta la rete dei servizi costruita dal sindacato confederale, i patronati, i centri di assistenza fiscale, e le forme di associazionismo come l’Auser, sono un esempio di “privato sociale”, di funzioni pubbliche esercitate in autonomia da un soggetto sociale, con un riconoscimento e con un controllo pubblico sulla qualità delle sue prestazioni. Prima ancora che si parlasse di sussidiarietà, noi l’abbiamo esercitata. E per questo siamo interessati al suo sviluppo perché questo può aprire alla nostra iniziativa nuove importanti prospettive.

Il sindacato non è solo un agente contrattuale. È un soggetto della concertazione sociale. E in particolare un’organizzazione come lo SPI, che non rappresenta una categoria, ma una condizione sociale, trova la sua funzione e la sua vitalità se agisce a tutto campo, combinando contrattazione e concertazione, e partecipando, nella sua autonomia, al processo decisionale, in un confronto aperto con i diversi attori sociali e istituzionali. Non c’è solo la dimensione rivendicativa, ma c’è quella della responsabilità, del farsi carico dell’interesse generale. La sussidiarietà è, nei fatti, l’ambito in cui noi ci troviamo ad agire. Dobbiamo imparare ad usarla. E dobbiamo interpretarla in un senso progressivo, come l’occasione per una più efficace integrazione tra Stato e società, tra pubblica amministrazione e soggetti sociali. Discutendo di sussidiarietà discutiamo quindi di noi stessi, del nostro modo di essere e di operare all’interno di un quadro istituzionale che si sta evolvendo e che può essere l’occasione, se sappiamo usarla, di una nuova stagione riformatrice.



Numero progressivo: D25
Busta: 4
Estremi cronologici: 2006, 9-10 novembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Si è scelto di collocarlo tra gli Scritti Sindacali per il contesto in cui è inserito, ma il contenuto del discorso è prevalentemente politico
Pubblicazione: C. Magnani (a cura di), “Beni pubblici e servizi sociali in tempi di sussidiarietà”, Giappicchelli Editore, Torino, 2007, pp. 32-39