RIPRESA DEL MOVIMENTO MA CON QUALE SINDACATO?

Patto sociale, scambio politico, ritorno in fabbrica: prima di tutto non essere subalterni

di Riccardo Terzi

Centralizzazione o articolazione, compatibilità o conflitto, questi i dilemmi che si ripropongono oggi alla Federazione unitaria. L’intervento di Bertinotti su Rinascita e la necessità di evitare scelte unilaterali. Importanza dei compiti difensivi in fasi di crisi. Un problema fondamentale: garantire all’interno del sindacato procedure rigorose di democrazia

«Come in tutti i tornanti decisivi nella vita, del sindacato, come in tutti i profondi mutamenti di fase, si affacciano grandi alternative, veri e propri dilemmi. Tornano, cioè, i dilemmi più classici e duri: centralizzazione o articolazione, conflitto o cooperazione, compatibilità o bisogni di trasformazione.»

Così si esprime Fausto Bertinotti in un recente articolo su Rinascita, che può utilmente stimolare una discussione sulle prospettive del sindacato. Io credo che raramente i problemi si presentino nella forma di alternative rigide, che ci sia un rischio di semplificazione ogni volta che ci poniamo di fronte alla realtà con un aut aut che esclude ogni possibile mediazione. E i dilemmi formulati da Bertinotti mi convincono che la via di una scelta unilaterale sarebbe in ogni caso pericolosa ed errata per il movimento sindacale di oggi.

Prendiamo anzitutto la questione della centralizzazione. È certamente vero che negli ultimi anni ha agito una forte spinta alla centralizzazione e che da ciò sono derivate molteplici conseguenze negative sulla vita del sindacato, sulla sua democrazia interna, sulla sua capacità di articolazione e di iniziativa. Occorre però vedere quali sono stati i fattori oggettivi che hanno operato nel senso della centralizzazione; altrimenti si riduce tutto questo problema alla consueta polemica contro il verticismo, come se si trattasse solo di volontà politica, di atteggiamenti soggettivi o di degenerazioni burocratiche. Il sindacato ha agito, in questi anni, dentro i vincoli determinati dalla situazione di crisi. Era forse possibile prescinderne, o non ci sono anche per noi delle “compatibilità”, e quindi dei margini di movimento che sono comunque condizionati? Nella crisi, i compiti difensivi acquistano obiettivamente un rilievo maggiore, e non sono più realizzabili e proponibili i modelli e le ipotesi su cui si reggeva l’iniziativa operaia negli anni precedenti.

È in questo determinato contesto che nasce l’accordo difensivo del 22 gennaio, che va giudicato per le risposte che dà al problemi che si sono posti in quel momento, e non come un «modello contrattuale» da generalizzare o da respingere. Esso è quindi il frutto di una situazione di necessità, che dobbiamo cercare di rimuovere, ma che può ancora a lungo protrarsi e condizionare l’iniziativa del sindacato. È questa un’esperienza irripetibile? Questo non dipende solo da noi, ma dalla natura dei problemi che ci staranno di fronte, e dall’azione degli altri soggetti, politici e sociali. Ogni giudizio definitivo mi sembra essere azzardato e prematuro. Stiamo cercando di orientarci in una situazione nuova e più difficile, di trovare risposte che siano efficaci, e quell’accordo è un momento di questa ricerca. C’è l’ambiguità di cui parla Montessoro, ma è un’ambiguità feconda, perché ci costringe a pensare senza schemi prefissati, senza ideologismi, al futuro del sindacato.

Ma vi è un’altra, più sostanziale, obiezione. Non solo per ragioni difensive, non solo per i vincoli posti dalla crisi, ha assunto rilevanza l’iniziativa centrale del sindacato. Ciò è avvenuto anche per una scelta politica che ha portato il sindacato a impegnarsi sul terreno della politica economica, in un confronto diretto con il governo, cercando di conquistare anche a questo livello una capacità di contrattazione, di aprire uno spazio più vasto all’azione sindacale. Questo intervento “politico” diviene sempre più una leva fondamentale, a cui non è possibile rinunciare, se non al prezzo di un impoverimento dell’azione e del ruolo del movimento sindacale, di un restringimento degli obiettivi entro un orizzonte corporativo. Se davvero gli obiettivi prioritari sono l’occupazione e lo sviluppo, non possiamo sfuggire a una più marcata qualificazione politica del sindacato.

Un certo grado di centralizzazione è quindi funzionale ai compiti istituzionali di un sindacato che si propone di agire come “soggetto politico”. E di conseguenza una scelta unilaterale in direzione dell’articolazione porterebbe tutto il movimento ad un mutamento di traiettoria, ad essere solo strumento di difesa sociale e non anche interlocutore politico, portatore di una proposta generale di trasformazione. Sarebbe più facile per il governo liquidare le resistenze del movimento sindacale se esse si configurassero semplicemente come una posizione di rifiuto pregiudiziale di ogni intervento che possa comportare degli svantaggi immediati per certe categorie di lavoratori. Diviene, al contrario, più impegnativo il confronto con il sindacato se esso riesce a proporre, in alternativa alla politica del governo, una diversa manovra economica complessiva.

Non ci sono spazi per una contrattazione su questo terreno? È solo un’illusione, un rischio? Se davvero così fosse, allora la partita sarebbe già persa. A questo punto, si pongono due esigenze tra loro strettamente correlate. La prima è che l’assunzione di un ruolo politico non faccia smarrire al sindacato la sua peculiare funzione di rappresentanza sociale. Il rischio di uno slittamento dei ruolo istituzionale dei sindacato si è obiettivamente manifestato, ed è tuttora presente. Esso non sta tanto nella “teoria” dello scambio politico, quanto piuttosto nella sua traduzione pratica, nella tendenza a ridurre tutto ad una tattica di continuo mercanteggiamento, in cui si finisce subalterni alla politica del governo. I meccanismi di scambio non sono una novità per il sindacato, sono anzi un aspetto ineliminabile della sua azione. Si tratta di valutare, di volta in volta, il contenuto concreto dello scambio. Ciò che non è accettabile è l’ideologizzazione, oggi abbastanza diffusa, che porta a considerare come fittizio e superato il conflitto di classe, e quindi come risolutrice di ogni problema la pratica dello scambio, la ricerca di una soluzione concertata tra le parti, con la mediazione del potere pubblico. Una tale concezione porta, necessariamente, alla negazione dell’autonomia di classe e a una pratica sindacale tutta istituzionalizzata, dentro le coordinate della politica governativa.

La seconda esigenza è quella di garantire, all’interno del sindacato, procedure rigorose di democrazia, in modo che tutte le decisioni che vengono prese siano sostenute da un effettivo consenso tra i lavoratori. A questo fine, occorre che siano precisati e affinati gli strumenti di consultazione, per rendere trasparente e non manipolabile la volontà della maggioranza, evitando discussioni confuse, in cui si sovrappongono problemi diversi, e che possono dar luogo, come spesso è avvenuto, a interpretazioni e valutazioni del tutto divergenti. È il mancato collegamento tra centralizzazione e democrazia che ha provocato, nei mesi passati, gli effetti negativi che tutti oggi riconoscono: uno scollamento crescente tra i gruppi dirigenti e i lavoratori, e anche, di conseguenza, una minore capacità di resistenza a tendenze compromissorie e a patteggiamenti subalterni.

Vi è poi una seconda leva fondamentale dell’iniziativa del sindacato, l’azione articolata nelle fabbriche e nel territorio. Proprio perché vi sono spinte oggettive nel senso della centralizzazione, è indispensabile mettere in azione subito, con grande determinazione, delle controspinte, puntando ad un forte rilancio dell’iniziativa articolata. Questo è necessario sia per utilizzare appieno tutto il potenziale di iniziativa delle strutture di base del sindacato, per riaffermare il ruolo contrattuale dei consigli, sia per affrontare questioni decisive della condizione operaia su cui rischiamo un arretramento grave, una caduta della capacità di controllo del sindacato. Le innovazioni tecnologiche e l’organizzazione del lavoro, l’ambiente di lavoro, il regime degli orari, la valorizzazione della professionalità, il controllo dei salari di fatto, l’adozione di nuovi strumenti di solidarietà tra i lavoratori: tutto questo complesso di questioni non può che essere affrontato a partire dalla fabbrica con uno sforzo di conoscenza dei processi reali, di concretizzazione degli obiettivi, di articolazione della politica rivendicativa. Condivido pienamente, a questo proposito, l’esigenza che pone Montessoro di una ridefinizione della politica salariale del sindacato, che metta al centro il rapporto con la produttività e con la professionalità.

Se manca questo, manca uno dei capisaldi dell’azione sindacale. Una correzione, una svolta sono quindi necessarie. Ma bisogna evitare di alimentare illusioni tra i lavoratori, bisogna sapere che la risposta ai drammatici problemi di oggi non può stare tutta nell’azione di fabbrica. Inoltre, la stessa iniziativa di fabbrica si configura in modo diverso rispetto al passato, in quanto non si tratta solo di organizzare il conflitto, ma di dare risposte di merito adeguate ai problemi nuovi che nascono dalla profonda ristrutturazione in corso. Di qui l’importanza che assume il problema delle relazioni industriali, dell’individuazione e sperimentazione di nuovi strumenti di confronto tra le parti, di qui la necessità di un elevamento generale della nostra capacità di elaborazione e di proposta.

Ecco perché una linea che si affida tutta all’articolazione e al conflitto, senza fare i conti con i vincoli oggettivi della crisi, può sfociare in una estremizzazione perdente, in quanto non tiene conto di tutta la complessità della situazione. Per riassumere, io vedo come essenziali tre momenti: l’iniziativa politica centrale, che affermi coerentemente un asse di politica economica finalizzato all’occupazione e allo sviluppo, la costruzione di rapporti democratici effettivi e permanenti tra i gruppi dirigenti del sindacato e i lavoratori, lo sviluppo di una politica rivendicativa che sia il più possibile aderente alle situazioni concrete, alle condizioni reali dei lavoratori, ai processi di trasformazione in atto. E sono necessarie oggi, dato lo scenario di crisi in cui ci troviamo a operare, una più forte coerenza tra i diversi livelli dell’azione sindacale, una chiara indicazione di priorità, e quindi una più alta capacità di direzione unitaria del movimento.»



Numero progressivo: B75
Busta: 2
Estremi cronologici: 1983, 21 ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Rinascita”, n. 41, 21 ottobre 1983, pp. 9-10