RAPPRESENTANZA SOCIALE E RAPPRESENTANZA POLITICA

Lavoro e politica - Convegno IRES CGIL Emilia Romagna, Bologna 31 ottobre 2012

Relazione di Riccardo Terzi

Riccardo Terzi analizza le relazioni tra rappresentanza sociale e rappresentanza politica sottolineando l’importanza di far vivere il pluralismo degli interessi e delle idee e di rimettere in moto la molla del confronto e del conflitto

 

1) La rappresentanza si costituisce in una situazione di conflitto

La rappresentanza, nella sua accezione generale, si costituisce in una situazione di conflitto. Se osserviamo tutto il corso della storia politica, vediamo come la figura dei “rappresentanti” nasce sempre dalla necessità di reggere una situazione conflittuale, per opporsi all’ arbitrio del potere sovrano, o per tutelare interessi collettivi, o per dare voce a minoranze escluse. E ciò si verifica anche nella vita privata, in tutte le cause “civili”, nelle quali abbiamo bisogno di essere tutelati nei nostri diritti. Si può quindi dire, in generale, che è il conflitto la forza strutturante di qualsiasi ordinamento democratico, il quale appunto consiste nel libero gioco delle rappresentanze. Tutte le teorie del superamento del conflitto hanno necessariamente un esito autoritario; o per meglio dire la negazione del conflitto è l’essenza stessa del pensiero autoritario. È su questo fondamento che si sono costituiti i regimi di tipo fascista, col loro culto dell’ordine e della gerarchia, e con la repressione di tutto ciò che mette in discussione l’ordine costituito.

Nella situazione attuale, non devono sfuggirci i tentativi di porre la democrazia sotto tutela, in nome di una qualche autorità superiore, per mettere un freno all’ instabilità e alla turbolenza del libero gioco democratico. In molti casi è la religione lo strumento che viene messo al servizio del potere, per stabilizzarlo e consacrarlo, per affermare un “sistema di valori”, il cui statuto di validità sovrasta il processo democratico, il quale si può quindi svolgere solo all’interno di un perimetro rigidamente prefissato. Ciò si verifica in diversi contesti, in diverse aree del mondo, ogni volta che i due piani del politico e del religioso si sovrappongono, dando luogo a una miscela di autoritarismo e di integralismo. Ma il fatto più tipico della nostra modernità, nei paesi più sviluppati, è l’emergere di un autoritarismo tecnocratico, che ha il medesimo effetto di svuotamento della democrazia, non più nel nome dei valori tradizionali, ma nel nome di una oggettività tecnico-scientifica che pretende di rappresentare l’unica possibile e ragionevole soluzione a tutti i problemi della nostra vita collettiva. Se c’è un’unica risposta, un’unica razionalità che ci deve guidare nelle nostre scelte, allora è evidente che il conflitto è sempre una deviazione, una negatività, è la forza dell’irrazionale e dell’emotivo che deve essere tenuta sotto controllo. Il campo del possibile e del desiderabile viene rigidamente circoscritto, e la democrazia è consentita solo all’interno di questo campo. Ogni tentativo di forzare i limiti e le compatibilità del sistema deve essere assolutamente contrastato, neutralizzato, isolato. L’attuale crisi della democrazia ha qui la sua principale matrice, in questa presunta oggettività delle leggi economiche, in questo “mito” di un sapere tecnico che domina tutta la nostra vita dall’alto delle sue verità indiscutibili. Si pone oggi il problema di riconquistare e rivitalizzare lo spazio democratico, e questo lavoro consiste essenzialmente nella demistificazione del “pensiero unico” e nella critica delle strutture di potere, nel riconoscimento e nella legittimazione, quindi, dei conflitti, sociali, politici e culturali.

La domanda di democrazia trae con sé una domanda di rappresentanza, sia per riaprire il conflitto, sia per rendere possibile una mediazione, per ricomporre un nuovo equilibrio. La rappresentanza agisce nel conflitto, ma non si esaurisce in esso, e il suo compito è quello di dare risposte, di trovare soluzioni, di spostare i rapporti di forza. Conflitto e mediazione sono i due lati di uno stesso processo, con una infinità di possibili combinazioni, ma in ogni caso la vitalità del processo sta nella capacità di tenere insieme questi due lati. Il momento della negazione deve a sua volta essere superato, per dare luogo ad un nuovo equilibrio. E un nuovo equilibrio non nasce mai spontaneamente, ma è il risultato di un processo, in cui si contrappongono e si confrontano diversi punti di vista.

 

2) Principio della rappresentanza e principio del potere

Il principio della rappresentanza entra in un complicato rapporto dialettico col principio del potere, o della decisione, e la politica, in fondo, non è altro che questa dialettica, è il movimento che definisce, di volta in volta, l’equilibrio tra questi due princìpi. La rappresentanza diffida del potere, e cerca di imporre tutto un insieme di vincoli e di condizionamenti, per contrastare la sua tendenza dispotica e invasiva. Sull’ altro versante, in modo speculare, il potere diffida della rappresentanza, della sua pretesa di condizionare il processo decisionale, e cerca sempre di sottrarsi ad ogni vincolo, alle infinite trappole e incertezze del processo democratico. L’arte della politica è la costruzione di un equilibrio accettabile, in cui rappresentanza e decisione possono convivere senza annullarsi, senza che uno dei due poli di questa dialettica impedisca l’esercizio dell’altro. Occorre dunque evitare i due estremi di una democrazia impotente, che sa solo registrare il pluralismo della società senza mai riuscire a produrre una sintesi, o di un decisionismo autoritario, fondato sulla forza e non sul consenso si è parlato molto della concertazione: è una delle possibili soluzioni del problema, nel senso che c’è un potere decisionale ma un potere che si confronta con le parti sociali sulle decisioni. Ora, se i due termini, della rappresentanza e del potere, sono in un rapporto di continua tensione, non ci potrà mai essere una soluzione definitiva, non c’è quindi un modello istituzionale perfetto, ma è sempre aperto un ventaglio molto ampio di diverse possibili soluzioni. Nella nostra recente storia politica, con il passaggio che viene comunemente definito dalla prima alla seconda repubblica, è evidente come l’equilibrio si è decisamente spostato sul lato della decisione, ponendo come problema preminente o esclusivo quello della governabilità, della stabilità del sistema, del ripristino del principio di autorità. Siamo entrati, di fatto, pur in un quadro costituzionale invariato, in un nuovo modello politico-istituzionale, nel quale le rappresentanze tendono a svanire e tutto il gioco politico si concentra unicamente sul nodo di chi decide, sulla scelta del leader, che diviene così il dominus esclusivo dell’intero sistema. È da questo mutamento di prospettiva che discende tutta una serie di conseguenze, di mutazioni striscianti del sistema politico: la personalizzazione della politica, lo svuotamento del sistema dei partiti, la centralizzazione del potere, l’inasprimento dei conflitti istituzionali, i tentativi ricorrenti di forzare l’equilibrio dei poteri. È tutta la situazione politica che rischia di deragliare verso un decisionismo senza contrappesi e senza controllo democratico. Tutto ciò non è avvenuto casualmente, o per la spinta di cause oggettive, di processi storici profondi. Non è un destino, ma il risultato di determinate scelte politiche. Nella “seconda repubblica” siamo entrati sull’onda di una nuova visione politica e di alcuni “miti” che sono stati collettivamente coltivati, a destra come a sinistra: il mito della società civile che si sostituisce al sistema dei partiti, e il mito del bipolarismo. Tutta questa rappresentazione ideologica ha l’effetto di mettere in crisi il principio della rappresentanza, perché c’è una società civile idealizzata, e individualizzata, senza interne fratture sociali, senza conflitti da interpretare e da rappresentare, e perché, d’altra parte, tutta la dialettica politica viene scarnificata nella competizione bipolare, dissanguando così tutto il pluralismo delle culture politiche in una competizione per la leadership, dentro uno schema violentemente semplificato, per cui alla fine l’unica cosa che resta in piedi è il prestigio personale del leader, il suo carisma, la sua affidabilità. I cittadini e il capo, in mezzo non c’è più nulla. E tutto ciò che sta fuori da questa rappresentazione non ha diritto di cittadinanza. Quando alla complessità si sostituisce la semplificazione, alla razionalità politica si sostituisce il mito, questa è la mia tesi, è sempre il pensiero di destra ad avere il sopravvento.

I miti della seconda repubblica sono ancora molto radicati, nonostante i loro evidenti fallimenti. A ciò dobbiamo opporre, io credo, l’idea di un pluralismo organizzato, regolato, che dia luogo, nella società e nelle istituzioni, a un processo aperto, non irrigidito, di confronto, di possibili convergenze e mediazioni, in cui si possa rispecchiare tutta la nostra complessità sociale, con la sua rete estremamente differenziata di interessi, di culture e di valori. Una società, quindi, che giunge alla decisione attraverso la rappresentanza, tenendo aperto lo spazio democratico. Alla verticalizzazione del potere si può opporre l’orizzontalità del principio di rappresentanza, alla centralizzazione un sistema di diffusione e di divisione del potere.

 

3) Rappresentanza e appartenenza

La rappresentanza va tenuta distinta dall’appartenenza, la quale è solo una delle sue possibili forme. C’è appartenenza quando c’è un meccanismo di totale identificazione tra il singolo e l’organizzazione, fondato su un’adesione di tipo ideologico, per cui ci si trova immersi in un universo valoriale che non può essere scalfito dall’ esterno e non può essere messo in discussione. L’organizzazione, sia essa politica o sociale, assume così i caratteri della compattezza, della militanza, della disciplina, con un deciso spostamento dell’equilibrio dall’io al noi, dall’individuale al collettivo. Questa è stata, in larga misura, la configurazione delle grandi organizzazioni di massa del Novecento: partito, sindacato, chiesa. È questa forma che è entrata irrimediabilmente in crisi, con l’avanzare dei processi di individualizzazione, con lo svanire delle grandi narrazioni ideologiche, con l’affermarsi di un più esigente spirito critico.

In questo nuovo contesto, in questo passaggio culturale che muta in profondità la nostra coscienza civile, le esigenze della rappresentanza non vengono meno, ma assumono un nuovo carattere. La crisi dell’appartenenza non è, di per sé, un arretramento, una decadenza, perché, non dobbiamo dimenticarlo, in quella compattezza c’era anche un meccanismo di dominio, di controllo autoritario, di limitazione della libertà individuale. Là dove c’è appartenenza c’è anche subalternità, adesione acritica, c’è la passività della delega fiduciaria. Dobbiamo quindi liberare la rappresentanza dai vincoli troppo rigidi, e oggi non più sostenibili, di un modello organizzativo compatto e totalizzante, per dare luogo a forme più aperte e flessibili, a un processo di adesione più maturo e più consapevole, nel quale la dimensione collettiva non schiaccia quella individuale.

Ciò si può realizzare solo a una condizione: che si realizzi in modo del tutto coerente e sistematico un criterio di democraticità e di trasparenza in tutto il processo decisionale. Se c’è oggi una crisi delle rappresentanze è per effetto dell’opacità burocratica che tuttora le contrassegna. Nel momento in cui vengono meno gli antichi vincoli di fedeltà ideologica, la macchina organizzativa non ha cambiato passo, e continua i suoi vecchi riti senza accorgersi che nel frattempo non ci sono più i “fedeli”, ma ci sono domande a cui rispondere, ci sono intelligenze critiche con cui entrare in relazione. Da qui viene il collasso delle strutture tradizionali, in forme evidenti per i partiti politici, in forme più attenuate per le organizzazioni sociali, ma comunque all’interno di un passaggio critico che richiede a tutti un profondo ripensamento delle strutture organizzative e dei meccanismi interni di decisione.

Solo in un quadro di rinnovata e compiuta democrazia le funzioni della rappresentanza possono tornare ad essere vitali. L’unica significativa innovazione che è stata introdotta è quella delle elezioni primarie, su cui ha scommesso in modo particolare il Partito Democratico, con alcuni risultati importanti sotto il profilo della partecipazione. Ma il limite di questo strumento è che esso riguarda solo il chi e non il che cosa, il leader e non il progetto, restando quindi all’interno di una concezione della politica come personalizzazione, come competizione di vertice. Le risorse della partecipazione dal basso, che le stesse primarie hanno il merito di aver fatto emergere, hanno bisogno, a questo punto, di una più larga valorizzazione, per dare alla vita politica, in tutti i suoi passaggi, in tutte le sue scelte, un autentico fondamento democratico, rovesciando lo schema del decisionismo e della verticalizzazione del potere.

Analogamente, per il sindacato c’è la necessità urgente di definire un quadro vincolante di regole per l’azione contrattuale ai diversi livelli, combinando, in una logica di sistema, la democrazia associativa, che si rivolge agli iscritti, la democrazia rappresentativa, che riguarda il ruolo dei delegati eletti dai lavoratori, e la democrazia diretta. È sicuramente necessaria, sia per i partiti che per i sindacati, una legislazione di sostegno, ma questo non può essere l’alibi per non fare nulla e per rinviare all’ infinito le indispensabili misure di autoriforma che possono già da ora essere realizzate.

 

4) Rappresentanza sociale e rappresentanza politica

Si tratta ora di distinguere tra rappresentanza sociale e rappresentanza politica. Le due funzioni sono nettamente distinte, perché la prima si riferisce alla sfera degli interessi di un determinato gruppo sociale, mentre la seconda riguarda il campo delle idee, dei progetti, dei modelli di società. Condizione materiale, da un lato, costruzione teorica, dall’altro. Questo schema è inevitabilmente un po’ astratto e forzato, perché queste due sfere non sono mai del tutto separate e ci sono sempre dei movimenti di rimando dall’una all’altra. Tuttavia, è essenziale tenere distinti i due piani e affermare con nettezza la loro reciproca autonomia, in quanto essi sono guidati da due diverse logiche, e in ogni sovrapposizione si perde la loro ragion d’essere essenziale. Il collateralismo, che pure è stato largamente praticato sia nella nostra storia nazionale sia in altri paesi, finisce per essere sempre un limite, un freno, in quanto l’azione sindacale viene piegata a ragioni esterne, di carattere politico, o viceversa il progetto politico non riesce a esprimersi pienamente e coerentemente, perché appesantito dal calcolo degli interessi immediati.

È sempre più evidente una tendenziale divaricazione delle due prospettive, essendosi ormai dissolto quel tessuto ideologico unificante che teneva insieme, in una visione unitaria, l’economico e il politico, come articolazioni di un unico processo storico, come momenti che si integrano nella formazione della “coscienza di classe”. Rappresentanze sociali e rappresentanze politiche camminano ora su due diversi binari, e di volta in volta possono convergere, possono incrociarsi, o entrano tra loro in collisione, e in ogni caso non ci può essere nessun “primato”, nessuna intrusione, e i tentativi, da un lato o dall’altro, di invadere il campo, finiscono per essere del tutto controproducenti. Credo che sia importante aver presente questo dato di fondo, senza continuare a rincorrere il miraggio del “governo amico”, senza ridurre quindi l’iniziativa sindacale ad un gioco di sponda, seguendo così non i ritmi propri, ma quelli dell’agenda politica.

L’autonomia, o indipendenza, come qualcuno preferisce dire, è questa capacità di trovare in se stessi le proprie ragioni e i propri obiettivi, entrando a pieno titolo nello spazio pubblico, senza limitazioni, ma con la forza di un proprio originale progetto. Ciò si riassume nella formula del sindacato come “soggetto politico”, che ha dunque in se stesso la politicità, senza prenderla in prestito dall’esterno. Ma occorre, in tutto questo discorso sulla rappresentanza, non accontentarsi di formule troppo semplici e schematiche, e vedere non solo il momento dell’autonomia, ma anche quello della relazione. Le due forme della rappresentanza, pur nella loro radicale distinzione, partecipano di un comune destino, crescono o declinano insieme, e c’è un filo sotterraneo che le lega in un rapporto, che può essere sì conflittuale, ma senza che sia possibile una netta separazione o una reciproca indifferenza.

La rappresentanza sociale è sempre esposta al rischio della grettezza corporativa, e ha quindi bisogno di aprirsi alla dimensione politica, a una visione d’insieme della società e delle sue prospettive. La confederalità non è solo l’unità solidale del mondo del lavoro, ma è la capacità di leggere, a partire dal lavoro, l’intera realtà sociale in tutta la sua complessità, è la coscienza della propria parzialità, e insieme il saper valutare le conseguenze delle proprie decisioni. D’altra parte, l’autonomia del politico deve pur trovare un suo ancoraggio, un suo radicamento nella concretezza dei rapporti sociali, per non finire nell’irrilevanza, nell’ astrattezza, in un discorso solo retorico. La politica che pretende di rappresentare tutti, in realtà non rappresenta nessuno. E tutti i discorsi sul “bene comune”, sull’ interesse generale, sono spesso solo parole in libertà, non perché il problema sia in sé privo di senso, ma perché vanno definiti tutti i passaggi e tutti gli equilibri sociali che diano concretezza al discorso politico. Se non si fa questa fatica di un lavoro progettuale concreto, scavando nella realtà, e prendendo posizione nei suoi interni conflitti, resta allora solo l’evanescenza di una posizione “moderata”, la quale significa solo l’opportunismo di chi non sa mai assumere nessuna scelta determinata, o resta la politica come pura spregiudicatezza nella lotta per l’accesso al potere. Ecco perché l’autonomia non deve essere separazione, ma relazione, confronto, e anche conflitto. Non funziona una delimitazione delle sfere di influenza, una linea di confine che tiene a distanza il sociale e il politico, perché nella realtà tutto è connesso, tutto è intrecciato, e tutti i diversi soggetti interagiscono in un comune spazio democratico.

 

5) La partita politica in tema di rappresentanza

Intorno al tema della rappresentanza si gioca una partita politica che è decisiva per il futuro della nostra civiltà. Il tratto comune di tutte le posizioni di destra, conservatrici, tecnocratiche, è la svalorizzazione della rappresentanza, nella sua dimensione sociale come in quella politica, per dare luogo a un sistema di potere accentrato, senza vincoli, senza partecipazione democratica. C’è la variante tecnocratica, e quella populista-plebiscitaria, c’è una destra più aggressiva e una più moderata, ma tutte queste diverse forme hanno in comune la rappresentazione di una società atomizzata, senza legami sociali, senza strutture rappresentative. Per affermare questo modello occorre distruggere il sistema dei partiti, ed emarginare o addomesticare le rappresentanze sociali, ed è esattamente quello che sta accadendo, con una virulenta campagna mediatica contro tutte le forme della democrazia organizzata, le quali tutte rappresenterebbero solo il vecchio da rottamare, il luogo dell’infezione, la palla al piede di cui liberarsi per aprire finalmente una nuova stagione di dinamismo creativo. Tutto ciò viene motivato dentro lo schema retorico del conflitto generazionale, per cui è la rottura delle tutele e dei vincoli tradizionali la condizione per rimettere in moto un dinamismo sociale che dia un futuro alle nuove generazioni. Le strutture della rappresentanza, in questa ottica, sono la gabbia che imprigiona le energie sociali del paese e impedisce il loro sviluppo, il loro slancio innovativo. La rappresentanza viene identificata con la corporazione, con il privilegio.

C’è infine l’idea di una territorializzazione della rappresentanza, che sposta il conflitto dalla sua dimensione sociale al rapporto tra le diverse aree del paese, o tra le diverse etnie: il Nord contro il Sud, gli indigeni contro gli immigrati. Il risultato di questa operazione ha lo stesso segno autoritario, aggravato dall’intolleranza razziale e da una rottura esplicita di tutti i vincoli di solidarietà. In una società senza rappresentanza -e questo è il progetto su cui lavorano molte e diverse forze -c’è spazio solo per i populisti e per gli avventurieri, e vengono travolte le nostre difese costituzionali. Tutto può allora accadere.

 

6) Democratizzazione e derive autoritarie

Il terreno su cui contrastare tutte le possibili derive autoritarie è quello della democratizzazione. Non basta la difesa formale delle istituzioni e delle procedure democratiche, ma occorre un processo di trasformazione di tutte le strutture di potere, per affermare nuove e più efficaci forme di controllo e di partecipazione. È in questo processo, e nel conflitto politico che esso richiede, che le rappresentanze possono far valere il loro ruolo, rinnovandosi ed aprendosi ad una più larga spinta partecipativa.

La battaglia per la democratizzazione è ciò che tiene insieme il sociale e il politico, praticando la democrazia non come retorica, ma come combattimento, su tutti i terreni, contro tutte le forme di potere oligarchico, tenendo insieme, in una visione unitaria, diritti civili e diritti sociali, cittadinanza e lavoro. I termini di questo combattimento sono già oggi chiaramente tracciati. C’è il modello Fiat, c’è l’idea di un sistema d’impresa che si costituisce come universo chiuso, autoritario, senza rappresentanza e senza conflitto. O c’è, in alternativa, una battaglia da riprendere e rilanciare per la democrazia economica. C’è l’agenda Monti, l’idea di una politica che sta tutta dentro i vincoli e le rigidità dell’ortodossia liberista. O c’è, in alternativa, un progetto sociale che si pone oltre quei vincoli e che definisce altre priorità, a partire dal lavoro. C’è soprattutto la necessità di riaprire la libera dialettica tra le diverse posizioni in campo, di far vivere il pluralismo degli interessi e delle idee, e di rimettere in moto la molla del confronto e del conflitto, senza la quale la democrazia finisce per essere del tutto svuotata.



Numero progressivo: D10
Busta: 4
Estremi cronologici: 2012, 31 ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Bozza sostanzialmente identica al testo a stampa
Pubblicazione: “Inchiesta”, ottobre-dicembre 2012, pp. 21-25. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione”, pp. 127-137