RADICI E CONTRADDIZIONI DELLA “CENTRALITÀ” DEMOCRISTIANA

di Riccardo Terzi

Le elezioni del 7 maggio hanno contribuito a riproporre con forza il tema, centrale per la nostra azione politica, del ruolo della Democrazia cristiana nel nostro sistema politico, sollecitando nuovi sviluppi della nostra analisi e ricerca teorica. Con questo intervento si intende mettere in evidenza alcuni dei temi e degli aspetti che richiedono sviluppi in questa direzione, nel quadro di un ampio dibattito.

Si poteva supporre che lo scoperto orientamento di destra fatto proprio, nel corso della campagna elettorale, dai massimi dirigenti democristiani, del partito e del governo, i quali si sono impegnati in una gara di anticomunismo in concorrenza con l’estrema destra, rendesse vulnerabile il partito democristiano sul fianco sinistro e creasse le condizioni per un relativo sganciamento di strati popolari e per una loro nuova collocazione politica nel quadro delle forze di sinistra. Questa possibilità pareva essere avvalorata dai vari segni di logoramento, e anche di crisi aperta, che si sono manifestati nel tradizionale rapporto di collateralismo che univa strettamente le organizzazioni cattoliche al partito della Democrazia cristiana, e dalla presenza significativa, all’interno del mondo cattolico, di nuove correnti di pensiero, di tendenze innovative che hanno investito sia il campo della dottrina sia quello della morale e della politica. Tutto ciò, fosse o no ragionevole quella previsione, non ha dato luogo a rilevanti spostamenti elettorali, e da questo fatto derivano seri motivi di riflessione.

Occorre anzitutto evitare conclusioni affrettate, come se ormai la partita fosse già perduta, essendo la DC un blocco inespugnabile e l’equilibrio politico del paese condannato all’inerzia. Reazioni emotive di questa natura possono anche manifestarsi, provocando fenomeni pericolosi di demoralizzazione o di irrigidimento settario. In realtà, la dinamica dei processi politici non si esprime soltanto nelle variazioni degli indici elettorali, e chi si fermasse a questo peccherebbe di miopia elettoralistica. Occorre invece cogliere, dietro i risultati elettorali e all’interno di essi, le tensioni di una società in movimento che fatica a trovare un suo nuovo punto di equilibrio. Chi si affretta superficialmente a parlare di fallimento della strategia delle sinistre e di slittamento a destra dell’asse politico dimostra, appunto, di essere viziato, suo malgrado, da una mentalità elettoralistica, di essere incapace di andare oltre un’analisi epidermica e meccanica. Questo richiamo all’esigenza di una interpretazione in profondità dei dati elettorali vale soprattutto per il partito della Democrazia cristiana, che è il punto di incontro e di raccordo di orientamenti politici e di situazioni sociali fra loro molto distanti.

Il voto alla DC è espressione di tutta una estesa gamma di motivazioni, non riconducibili ad un unico fattore, e non può essere sufficiente l’indirizzo ufficiale adottato dal partito per le elezioni a dare al voto democristiano un senso univoco, come se si trattasse, in ogni caso, di una consapevole adesione politica alla linea della restaurazione centrista.

Non vi è nessuna ragione di ritenere che si sia allentata la tensione nel campo cattolico e che la DC abbia saputo riassorbire, su una linea di conservazione, le numerose spinte innovatrici e i vari fermenti critici che in tutti questi anni si sono dispiegati nel movimento popolare cattolico. L’affermazione elettorale della DC non la libera dalle sue interne contraddizioni, ma le ripropone e con tutta probabilità le rafforza. La questione da considerare è perché tali spinte non abbiano potuto trovare altro sbocco, perché ancora una volta il meccanismo dell’interclassismo democristiano, nonostante il radicalizzarsi dello scontro sociale, abbia potuto funzionare.

Per la prima volta, in queste elezioni, vi è stato il tentativo di costituire un nuovo punto di riferimento politico per le sinistre cattoliche, quale voleva essere il Movimento politico dei lavoratori. Non è semplice inquadrare questo movimento, la cui connotazione politica e teorica è abbastanza sfumata e cangiante. Da una parte si dichiara di voler abbandonare ogni carattere di confessionalismo, di non voler essere il secondo partito dei cattolici («Non vogliamo – dice Labor – usare la Chiesa e la religione per fabbricare voti a sinistra, dopo aver criticato chi, per anni ed anni, li ha fabbricati a destra»[1]), ma d’altra parte l’impronta “cattolica” resta evidente e soprattutto il raggio d’azione entro cui si muove l’Mpl è circoscritto a determinati gruppi della sinistra cattolica, aclisti in particolare. Era difficile, quindi, attribuire a questa esperienza, abbastanza singolare, una funzione che non fosse quella di dare coesione a gruppi ristretti di militanti, una funzione cioè di transizione, nell’attesa che maturassero nuove possibilità di incontro unitario fra la sinistra operaia e le avanguardie cattoliche. La natura particolare di questo movimento non si adattava, a mio giudizio, alla prova elettorale, che richiede ben altra solidità, che presuppone una rete diffusa di collegamenti ed anche quel vincolo ideale e quel patrimonio comune che fanno sorgere un vero “spirito di partito”.

Il risultato di questo tentativo non può spiegarsi solo con considerazioni di ordine organizzativo, con l’inevitabile difficoltà che incontra un nuovo movimento. Vi sono, invece, delle ragioni politiche e di principio che spiegano questo insuccesso, e che devono essere messe in evidenza.

In primo luogo, l’Mpl non è sfuggito alla facile tentazione del far propria una parte di quell’armamentario logoro delle critiche “da sinistra” al PCI, riducendo così la propria area d’influenza a quelle frange di cattolici “d’avanguardia”, già dislocate su posizioni di rottura, senza poter seriamente incidere all’interno dell’elettorato democristiano.

La stessa posizione delle ACLI, che avrebbero dovuto fornire al nuovo partito quell’ossatura organizzativa di cui esso non poneva autonomamente disporre, non è stata certamente di appoggio incondizionato, ma è stata invece improntata ad una linea di prudenza, volendo evitare di legare le proprie sorti ad un’impresa politica dall’esito incerto e non volendo né inasprire i già tesi rapporti all’interno dell’organizzazione né perdere il collegamento con i lavoratori tuttora orientati e organizzati dalla DC. Vi è stato dunque un apporto individuale, di singoli militanti, che non era impegnativo per l’insieme dell’associazione.

E soprattutto, mi pare si possa rilevare un’intrinseca contraddizione nell’idea stessa che stava alla base di questa esperienza elettorale, in quanto un partito “cattolico” non può esistere se non come partito moderato, ed è in partenza senza radici ogni tentativo di partito confessionale “di sinistra” e “di classe”. Una chiara scelta di classe trae con sé non dico il superamento della religione, ma certamente il senso pieno della autonomia della politica, come sfera che ha in se stessa la sua giustificazione e il suo criterio di verità. Non si ha più allora bisogno di una qualsiasi legittimazione religiosa, in quanto la politica fa tutt’uno con il movimento reale dei lavoratori e con la sua unità concreta, che si realizza su un terreno completamente diverso da quello ideologico o religioso. L’Mpl, cui va riconosciuta la possibilità di assolvere ad una funzione preziosa di transizione e di maturazione, andava necessariamente a cadere in queste contraddizioni nel momento in cui si poneva l’obiettivo ambizioso di essere un partito, e finiva col divenire così proprio quella «replica degli equivoci confessionali» che lo stesso Labor dichiarava in modo esplicito di rifiutate.

Come conseguenza di ciò, la dislocazione a sinistra dei gruppi cattolici avanzati, continuando ad essere impregnata di motivazioni religiose e volendo mantenere una propria connotazione ideologica, non ha dato luogo ad un incontro reale con il movimento operaio organizzato, ma ha alimentato l’ambizione di una sua rifondazione, di un suo rinnovarsi dalle radici. Vi è l’idea, in fondo, che solo attingendo ai valori profondi della tradizione cristiana il socialismo potrà divenire una prospettiva accettabile, potrà rigenerarsi, dando luogo a qualcosa di essenzialmente nuovo rispetto alle esperienze finora compiute. La “scelta socialista” si carica allora di complessi significati ideologici, che la intorbidano più di quanto non la arricchiscano. L’Mpl, muovendosi entro questo orizzonte, è rimasto così come sospeso nel vuoto, senza vere radici né nel movimento popolare cattolico né nel movimento di classe dei lavoratori. Di fronte a queste incertezze e ambiguità nella impostazione teorica, ha avuto buon gioco la Democrazia cristiana.

Rileggendo la relazione che l’on. Granelli, fin dal gennaio dello scorso anno, aveva dedicato al Movimento politico dei lavoratori, non possiamo negare la fondatezza di taluni rilievi critici.

 

«Sarebbe un grave passo indietro è detto in questa relazione rispetto all’evoluzione del pensiero moderno, se, dopo decenni di vivace dibattito ideale e di approfondimento critico, si ritornasse semplicisticamente a certe primitive forme di identificazione tra cristianesimo sociale e socialismo utopistico. L’equivoco, su questo punto, non è di poco conto. Com’è possibile compiere una scelta di campo socialista, accettando in pratica obiettivi e traguardi impliciti in questa scelta, respingendo del socialismo dottrina, la prassi, la cultura, l’esperienza storica, il potenziale di massa accumulato con lunghe e aspre lotte? È immaginabile, nel conflitto storico, un socialismo del tutto nuovo, che nasce a livello zero, ad opera di uomini di estrazione non socialista e in qualche modo distinto da ciò che il socialismo è stato storicamente ed è oggi dove è al potere o dove lotta per raggiungerlo, nella realtà contemporanea?»[2]

 

La critica è pertinente, anche se ovviamente non ne possiamo condividere la finalità politica, che è quella di scoraggiare la presa di coscienza di classe da parte delle forze popolari cattoliche e di lasciarle prigioniere della logica dell’interclassismo. La nostra critica, all’inverso, deve tendere a far divenire operante la scelta socialista, a realizzare un incontro non effimero e non viziato da pregiudizi ideologici.

Sarebbe necessario, a questo punto, esaminate a fondo tutto il fenomeno del dissenso cattolico per meglio intenderne i contenuti ideali e le linee evolutive. Potrà essere questa una materia su cui lavorare prossimamente. Vi sono certamente qui potenzialità che possono avere sviluppi fecondi, ma mi pare anche che non si possano fare grandi passi in avanti fino a che si resta nel quadro del “dialogo”, cioè di quella particolare forma di approccio al problema che ha in sé implicita la prospettiva di una sintesi di valori, che appare sia storicamente sia teoreticamente inattuabile. La questione è invece quella della autonomia della politica, dell’incontro operativo sul terreno storico concreto, sgombrato da ogni forma di ideologismo e di integralismo. È su questo terreno che dobbiamo riuscire a far camminare le forze cattoliche progressive, senza avere l’impossibile pretesa di aver prima ridotto ad unità le diverse espressioni ideologiche in cui si manifesta la coscienza delle masse popolari. È questo un cammino lungo, che però già molti lavoratori cattolici hanno saputo imboccare, senza rinunciare alla loro fede, con semplicità e con chiarezza.

Per quanto riguarda la Democrazia cristiana, che riconferma la sua forza di partito cattolico e popolare, a me pare sia superficiale l’idea secondo cui questo partito sarebbe in un rapporto solo strumentale con i valori del cattolicesimo, la cui vera sostanza si ritroverebbe altrove, in posizioni di radicalismo rivoluzionario. In realtà, tutta la tradizione storica e culturale della religione cattolica e della Chiesa sfocia coerentemente in una posizione di realismo moderato e conservatore. Non sono certo mancate spinte di segno contrario, coraggiose tendenze progressive, ma si tratta di fenomeni che sono rimasti ai margini della corrente fondamentale seguita dalla Chiesa, e che non raramente hanno dovuto subire in condanna sul terreno dei principi e la persecuzione sul terreno politico. Sarebbe difficile sostenere che la sostanza del cattolicesimo sia da ritrovarsi al di fuori della sua storia, delle sue tradizioni, delle sue istituzioni. Se dunque quelle forze, anche avanzate e democratiche, che sono organizzate come movimento cattolico, non hanno trovato in generale altra forma di espressione se non ancora all’interno della DC, ciò non è un enigma inspiegabile, ma è tutto sommato confacente alla loro natura.

Il movimento operaio ha da tempo superato la vecchia mentalità anticlericale, ha imparato ad apprezzare tutto ciò che di positivo si manifesta pur all’interno di una visione religiosa della vita, ma ciò non significa certamente – è forse bene ricordarlo – che la religione come tale sia uno stimolo alla coscienza, sia un fattore progressivo. È necessario non identificate il mondo cattolico con il partito politico della Democrazia cristiana, cogliere tutti gli elementi di tensione di questo rapporto, ma sarebbe ancor più artificioso considerare queste due sfere come tra loro in antagonismo e in opposizione. D’altra parte, è cosa nota che anche in questa campagna elettorale la DC ha potuto avvalersi largamente della autorità della Chiesa e di tutto il complesso e articolato sistema delle organizzazioni clericali. Non è dunque senza legittimità la sua pretesa di rappresentare sul terreno politico gli orientamenti e le ispirazioni ideali della Chiesa cattolica e della sua gerarchia.

La presenza della Democrazia cristiana sulla scena politica italiana sta a significare però, in sostanza, la presenza di un’area moderata, pur con tutte le differenziazioni che all’interno di essa si manifestano. A questo proposito, ha poco fondamento il luogo comune secondo cui allo spirito conservatore dei gruppi dirigenti si opporrebbe, alla base, una tendenza radicalmente diversa; e di conseguenza non ha molto senso la vecchia disquisizione sul condurre l’azione unitaria “dal basso” o “dall’alto”. In realtà, i gruppi dirigenti sono sempre, con una certa approssimazione, espressione di orientamenti diffusi nella massa. Sarebbe ingenuo ritenere che per venticinque anni il potete dc abbia potuto basarsi essenzialmente sull’inganno o sulla mistificazione religiosa. Mi pare più serio e realistico partire dalla premessa che il predominio politico democristiano sia stato reso possibile grazie ad un equilibrio di forze, su cui ha pesato il fatto che strati popolari consistenti sono rimasti in una condizione subalterna e non sono andati oltre una posizione di cauto riformismo.

Né ci debbono trarre in inganno i fenomeni di maturità e combattività sindacali, pur così importanti, la cui dinamica non si identifica con quella della lotta politica. Ancora in molti settori del movimento sindacale, e non solo al vertice, coesistono un grado avanzato di maturità sindacale e una singolare assenza di coscienza politica autonoma e di classe. Le lotte sindacali vengono cioè intese come un necessario correlativo all’interno di questo sistema politico e sociale, i cui fondamenti non vengono affatto messi in questione, ma sono invece presupposti come l’unico possibile e valido quadro di riferimento. Su questi strati di lavoratori il richiamo della DC alla necessità di salvaguardare l’attuale sistema di libertà non è senza efficacia. Ciò, tra l’altro, dimostra quanto siano pericolose le tendenze alla spoliticizzazione del movimento sindacale, e quanto sia necessario contrastarle per evitare che possa ulteriormente diffondersi questo atteggiamento di sudditanza politica e ideale della classe operaia.

Ponendo così la questione, la mancata sconfitta elettorale “da sinistra” della DC trova una sua spiegazione plausibile. Da un lato, le correnti cattoliche che si pongono apertamente sul terreno della lotta socialista sono minoranze, apprezzabili certamente, ma non rappresentative di un orientamento di massa. E dall’altro lato, dentro la DC non ha cessato di operare, nonostante la svolta a destra dei gruppi dirigenti, una componente democratica e popolare, la quale, proprio per la sua impronta cattolica e per la sua ispirazione interclassista, non si pone il problema di una rottura della DC e del sistema di potere che essa ha costruito, ma quello di conquistare all’interno delle posizioni più salde e più efficaci. È una prova di ciò l’affermazione ottenuta dagli esponenti delle sinistre, anche di quelli che più scopertamente si sono differenziati dalla linea ufficiale del partito e che hanno ripudiato la tesi del ritorno al centrismo.

E ne è una prova anche il risultato elettorale delle zone operaie, dove la DC conserva in generale le sue posizioni e in qualche caso le rafforza. Questo fenomeno appare evidente non solo nelle tradizionali zone “bianche” dove più forte è l’influenza delle motivazioni di ordine religioso ma anche in una provincia come quella di Milano, dove l’azione delle correnti di sinistra, che vi hanno una posizione dirigente, ha saputo mantenere collegati alla Democrazia cristiana larghi strati di lavoratori, che sono parte viva del movimento sindacale.

Se ci si limita a dire che la DC è il partito della borghesia e dei monopoli, finisce per divenire incomprensibile questa sua connotazione popolare, e tutta la nostra azione prenderebbe una strada sbagliata. Per questo, dobbiamo più a fondo intendere che cosa sia questo partito, che è stato e resta elemento centrale dell’equilibrio politico italiano.

Anzitutto esso non è, come qualche volta erroneamente si giudica, una “confederazione” di partiti, una somma di gruppi organizzati a se stanti, non accomunati da nessun vincolo reale. Al di là delle feroci lotte intestine, agisce uno spirito di partito, sia pure di tipo particolare, per cui ogni singola corrente si muove sempre con la preoccupazione di non staccarsi dall’insieme del corpo del partito ed agisce entro i limiti che sono fissati dall’equilibrio complessivo del partito. Tutto il complicato dibattito interno, con i suoi fenomeni di trasformismo, di alleanze imprevedute, di tregue e di oscuri tatticismi, si spiega appunto alla luce di questo particolare spirito di partito, il cui intimo tessuto connettivo non è solo di natura ideologica, ma è soprattutto il senso del potere, la tenace e concorde difesa del ruolo di guida politica assunto storicamente dalla DC. È quindi senza efficacia ogni tattica che non tenga conto di questo, che si rivolga in modo unilaterale ad una determinata parte della DC e che punti su una sua assoluta libertà di movimento, al prezzo anche di lacerazioni insanabili.

Allo stato attuale delle cose, l’ipotesi di tina rottura organizzativa della DC, di una lotta interna che giunga sino all’estrema conseguenza della scissione, non appare realistica, e pertanto sarebbe un errore politico grave puntare tutte le carte su questa improbabile e remota eventualità. Anzi, una dichiarata volontà di rottura non farebbe che rinsaldare lo “spirito di partito” e dare esca alle tendenze integralistiche, già così fortemente presenti nel partito cattolico. La forza della DC sta proprio in questa sua natura di partito che è unità di diversi, la cui linea politica è sempre il risultato di mediazioni complesse e faticose, in cui entrano non soltanto i diversi orientamenti presenti nel partito, ma anche le spinte, gli interessi, le posizioni di potere dei numerosi organismi sociali che fanno capo, più o meno direttamente, al partito di maggioranza come loro espressione politica. Il punto d’arrivo di questo faticoso processo di mediazione non può non essere, nella sostanza, di carattere conservatore, non può cioè non rispecchiare, nella loro staticità, i rapporti di forza esistenti.

È dunque nella logica intrinseca di questo partito il fatto che la funzione dirigente venga assolta dalla sua ala più moderata, da coloro i quali appunto non si propongono altro obiettivo all’infuori della gestione del potere, realisticamente commisurata alle possibilità di equilibrio tra le diverse spinte sociali. Nell’attuale fase, di complesso travaglio e di crisi, la DC ha potuto così raccogliere attorno a sé tutte quelle forze, anche di diversa collocazione di classe, che temono una rottura, una radicalizzazione dello scontro, che vogliono risolvere i problemi all’interno del quadro attuale, vedendo al di fuori di esso soltanto un pericoloso salto nel buio. La forza della DC, in altri termini, è la forza di conservazione del sistema. La sua linea di “centralità” non è solo una trovata propagandistica, ma traduce in modo efficace questa intima natura del partito, questa sua forza di gravitazione che riesce ad aggregare forze sociali diverse (gli strati intermedi della società in particolare), le quali non vedono altro possibile equilibrio, altro ordine sociale, se non nel tener fermi quei capisaldi su cui si è basato lo sviluppo del paese in questo dopoguerra.

Ecco che allora tutta l’ideologia della “libertà” ha una sua precisa funzione, in quanto coagula questi stati d’animo e dà loro forza politica. Nella difesa della “libertà” si sublima questo spirito di rassegnazione e di inerzia e si smorza ogni concreta volontà di lotta e di mutamento. Non si tratta più ormai di una qualche concezione determinata della democrazia, ma di un puro feticcio ideologico, meno facile pertanto da risolvere. Le vecchie concezioni liberali sono state travolte, e ad esse si sostituisce ormai uno statalismo oppressivo e corruttore, e la Democrazia cristiana ne è da tempo la forza organizzatrice e l’espressione ideologica mistificata.

È pienamente legittimo, dunque, considerare la DC come il nemico principale, come l’espressione politica più compiuta dell’attuale sistema e lo strumento più efficace di cui può avvalersi la classe dirigente. In effetti, anche nella più recente fase politica, i gruppi capitalistici decisivi hanno dato il loro appoggio politico alla DC, pur esercitando una forte pressione per imporre un più netto orientamento conservatore e utilizzando, a questo fine, l’arma di ricatto della destra fascista. Certamente nella svolta a destra della DC vi è il riflesso di questi orientamenti padronali, e vi è anche, dopo il fallimento della linea riformista moderata del centro sinistra, la ricerca affannosa di una nuova strategia, di un nuovo argine di difesa dell’ordine costituito.

Questi problemi di linea politica si ritrovano, dopo le elezioni, invece che chiariti, aggrovigliati. La DC è però riuscita ad assicurarsi la sua funzione di centralità, senza subire serie erosioni a sinistra e riannodando legami profondi con le forze economiche dominanti. È pure da segnalare il fatto che dal voto dei giovani pare emergere la tendenza ad una polarizzazione della lotta politica attorno ai due Partiti maggiori, il Partito comunista e la Democrazia cristiana. Tutte queste considerazioni non fanno che riportarci alla conclusione ovvia, e non nuova, che i nodi fondamentali da sciogliere, per mettere in movimento la situazione e aprirla a sbocchi più avanzati, stanno nella DC, nelle sue interne tensioni e nei suo rapporto con il paese.

La questione è allora quella delle forme che deve assumere la lotta per scalzare l’egemonia politica democristiana, per incrinare il sistema di potere che ha nella DC il suo perno fondamentale. E qui occorre eliminare un equivoco dannoso, che si basa sul seguente ragionamento: essendo la DC il nemico principale, non è possibile nei suoi confronti nessuna azione positiva, ma solo una contrapposizione frontale. È questa una posizione politica del tutto errata, in quanto rinuncia ad intervenire all’interno del sistema di potere e lo lascia sussistere indisturbato. Il ragionamento va del tutto capovolto: proprio perché la DC è l’avversario decisivo, dobbiamo moltiplicare la capacità di agire all’interno delle sue contraddizioni, per incepparne le capacità di mediazione conservatrice, e dobbiamo pertanto essere in grado di cogliere appieno, senza semplificazioni propagandistiche, i termini reali del dibattito interno, sfruttando tutti gli agganci concreti per svolgere un’azione positiva.

Sotto questo profilo, a me pare, vi è un ritardo del nostro partito e della sinistra, una capacità e una attenzione inadeguate, spesso un modo di operare chiuso e improduttivo, cui fa da contrappeso talvolta una concezione rilassata della azione unitaria. Nel nostro dibattito interno, la discussione verte ancora in generale attorno al se fare un’azione unitaria nei confronti della DC, e non attorno al come essa debba organizzarsi. Ed è questa una discussione che rischia di essere sviante, perché affronta il problema in astratto e non nella sua specificità.

Sul partito si esercita, d’altra parte, una pressione da parte di forze esterne che non sempre si ha la forza di respingere. È indicativa, in questo senso, l’esperienza di alcuni comitati antifascisti sorti a Milano (e probabilmente il fenomeno non è soltanto milanese), che hanno subito la logica settaria imposta da alcuni gruppi studenteschi, restringendosi ad essere espressione di uno schieramento minoritario, mentre al contrario il valore dell’unità antifascista sta nella capacità di raccogliere e di mobilitare la grande maggioranza. Occorre aver chiaro che il settarismo non ci fa compiere nessun passo in avanti, e che si tratta invece di saper contrastare, su tutti i terreni, concretamente, il ruolo dirigente della DC, il che significa porci noi stessi il problema di un rapporto con le forze intermedie e moderate, al fine di neutralizzarle e impedire un blocco di destra, e ciò richiede la ricerca di obiettivi che possano suscitare una larga confluenza democratica.

Naturalmente, il problema è di tale ampiezza da non potersi racchiudere in un formula. È l’insieme dell’azione del partito, in tutta la sua complessità, che può creare delle nuove condizioni e degli equilibri diversi: è l’azione di massa, la costruzione tenace di alleanze, la battaglia ideale e politica. Io mi limito qui, senza voler allargare oltre i confini di questa analisi, a porre un problema politico concreto, che riguarda i modi della nostra iniziativa politica e della nostra lotta nei confronti della DC.

Ci siamo scontrati, in tutti questi anni, con una difficoltà di fondo, in quanto le contraddizioni interne alla DC e connaturali al suo carattere interclassista non hanno dato luogo ad una chiara dialettica di posizioni politiche, ma sono state offuscate, imbrigliate dalle preoccupazioni di potere, e, sia pure faticosamente, assorbite o stemperate. Prendendo ancora una volta l’esempio della situazione milanese, appare qui in evidenza questo fenomeno di deterioramento della dialettica interna: la funzione di primo piano delle correnti di sinistra, che controllano la direzione provinciale, non si è risolta in un metodo di governo sostanzialmente diverso, e la collocazione nella vita interna del partito appare spesso un fatto di schieramento clientelare più che la adesione ad una chiara proposta di linea politica.

Come ha osservato Agostino Novella nel suo saggio sulla Crisi dell’interclassismo democristiano, occorre chiarire: «le ragioni che hanno impedito sin qui alle sinistre democristiane di esprimere in termini di nuovi orientamenti della Democrazia cristiana e di nuovi rapporti di forze al suo interno, tutto il potenziale di rinnovamento maturato in larga parte dalla base di massa della Democrazia cristiana. Questo potenziale democratico e riformatore esiste nella DC ed è reale. […]. Esso ancora può dare alla politica di questo partito nuovi contenuti, democratici, popolari e antifascisti, non genericamente intesi, ma espressione di una volontà reale di procedere a riforme politiche, economiche e sociali».[3]

 

Questo, in effetti, è il nocciolo del problema. E la risposta dipende non solo, ovviamente, dalla capacità delle sinistre democristiano di superare le proprie insufficienze e di darsi una prospettiva organica e generale, ma anche dalla nostra iniziativa, dalle occasioni di convergenza che sapremo creare, dagli stimoli di ordine politico e culturale che sapremo offrire alle forze popolari cattoliche.

La situazione politica, quale esce dalle elezioni del 7 di maggio, non è sfavorevole a questa azione di chiarimento, in quanto la DC è posta ormai di fronte a un bivio, e non potrà facilmente eludere la necessità di una scelta mediante espedienti e manovre immobiliste. La scelta di restaurazione centrista, dati i margini esigui su cui può fondarsi una tale maggioranza, non può non essere un passo grave nella direzione di un sovvertimento dell’ordine costituzionale, o limitando le prerogative del Parlamento o facendo cadere la discriminante antifascista. Su questa via si va anche ad un mutamento profondo dello stesso ruolo della DC.

D’altra parte, la ripresa di una trattativa politica con il Partito socialista, se questo partito non rinuncia alla propria collocazione di sinistra e ai propri obiettivi di riforma, è qualcosa di diverso dalla semplice continuazione della politica precedente, tanto più se si considera la violenta polemica antisocialista condotta dai dirigenti della DC negli ultimi mesi. Si tratterebbe cioè di una inversione di marcia, rispetto agli orientamenti di destra che sono prevalsi recentemente, tale da non poter avvenire senza rotture e da richiedere, anch’essa, una nuova dislocazione politica del partito cattolico.

In entrambi i casi, viene messa a dura prova la linea della centralità della DC, che ne è stato il punto di forza, e non appare agevole per i dirigenti democristiani risolvere questo problema in modo indolore. È dunque un momento in cui il collegamento del movimento operaio con le correnti cattoliche democratiche è condizione indispensabile per mantenere aperta una via di sviluppo e per impedire involuzioni reazionarie.

Quell’esigenza generale di avere una politica verso la DC appare ora essenziale, e con tempestività vanno corrette le nostre insufficienze. Ciò che si richiede è una iniziativa concreta, che si svolga ai vari livelli con ampiezza e continuità, che tenga conto realisticamente della natura del nostro interlocutore, che si proponga di ottenere non un facile, quanto improduttivo, smascheramento, ma un avvio di convergenze sul terreno dell’avanzamento democratico.

Ciò che a mio avviso può mettete in crisi l’unità indistinta e confusa della DC non è l’emergere di una opposizione di classe, ma è piuttosto il contrasto tra una linea democratica aperta e una linea di restaurazione autoritaria e di eversione delle basi costituzionali del nostro regime politico. È bene ricordare che nei gruppi dirigenti della DC ha sempre fatto difetto una vera sensibilità democratica, che dalla loro iniziativa sono venuti i più gravi attacchi alle conquiste democratiche della Resistenza. Vi è d’altra parte un’analogia fra l’ideologia della libertà predicata dalla DC, di cui già si è detto, e la dottrina sociale della Chiesa, per la quale la libertà si risolve nella difesa del privilegio, nella conservazione di un ordine gerarchico considerato come naturale. In entrambi i casi la libertà non sta a significare un concetto generale, universale, ma una somma di libertà particolari e personali (la libertà di iniziativa economica, la libertà di insegnamento, la libera professione ecc.) in cui appunto si risolvono i privilegi storicamente acquisiti delle classi dominanti. Ma accanto a queste forze che intendono la difesa della libertà come difesa del loro feudo personale, vi è una corrente democratica per la quale il richiamo all’antifascismo e alla Resistenza rappresenta una scelta di principio irrevocabile, vi sono forze che, maturate nel quadro costituzionale antifascista, ne hanno assimilato i valori di fondo e non sono disposte a regredire.

Non è senza significato l’affermazione fatta da Moro al Consiglio nazionale del settembre scorso:

 

«È stata richiamata frequentemente la nostra caratterizzazione essenziale, presente nella nostra origine e nella nostra storia: popolare, democratica, antifascista. È una indicazione tanto ovvia quanto essenziale, ma conviene ricordarla ora, come fu significativo sottolinearla in altri momenti difficili della nostra vita nazionale. Nulla sarebbe infatti più innaturale, più dannoso, mi si passi l’espressione, più impossibile, sul terreno storico, sul terreno degli ideali, che condurre la Democrazia cristiana, privata della sua funzione vitale, ad essere componente effimera e dissolventesi di un blocco d’ordine, che immagini di risolvere i gravi problemi del paese in termini diversi da quelli della libertà e del progresso. La matrice storica della Democrazia cristiana contiene, nel contesto d’indicazioni positive coerenti con una visione cristiana, libera e aperta, della società, un netto ripudio della violenza politica e dell’oppressione sociale, della battuta d’arresto, drammaticamente lunga, che il fascismo impose ad una società in sviluppo. Abbiamo già detto questo no e dobbiamo dirlo ancora, tutte le volte, come ora, che la minaccia sembra avvicinarsi. Questo è un nostro indiscutibile modo di essere.»[4]

 

Queste espressioni sono qualcosa di diverso dalle solite rituali e vacue dichiarazioni di antifascismo, ma sono testimonianza, pur nella loro forma allusiva, di una lotta politica, i cui termini oggi si ripropongono nettamente e drammaticamente. In sostanza, è la questione della democrazia che oggi assurge a discriminante tra le forze politiche. Si tratta allora di tenere ben saldo questo terreno di lotta, e di esplicarne appieno il contenuto, affrontando tutti i numerosi nodi che riguardano la natura democratica dello Stato, la sua difesa dalle tendenze corporative ed eversive che si sono lasciate crescere negli apparati più delicati della macchina statale, lo sviluppo conseguente dei principi della Costituzione e la lotta decisa contro i rigurgiti fascisti e contro la spirale della provocazione.

Si obbietterà da parte di qualcuno che questa è una battaglia solo difensiva. Ma se non si vince su questo terreno, se non si impone, con la forza di un grande schieramento democratico, un’inversione delle tendenze di destra, tutta la lotta e tutta la prospettiva del movimento operaio vengono ributtate indietro. In generale, ha poco senso disquisire sul carattere difensivo od offensivo degli obiettivi di lotta, i quali vanno individuati e perseguiti in relazione ad un’analisi storica concreta e ad una valutazione oggettiva dei rapporti sociali e politici.

Tutta questa analisi ci riconduce con forza all’obiettivo della svolta democratica, che è stato il filo conduttore del nostro dibattito congressuale. Era detto nella relazione preparatoria del XIII Congresso:

 

«Dato il punto cui e giunta la crisi politica nel nostro paese, la democrazia italiana ha bisogno, come condizione per la sua salvezza e il suo sviluppo, di un profondo risanamento, di una vera e propria rigenerazione. Essa deve divenire effettivamente una democrazia di popolo. Il potete politico deve fondarsi sul consenso, la partecipazione e l’unità delle masse popolari. Naturalmente, la lotta per aprire al paese questa prospettiva si combatte, in primo luogo, sul terreno di una riforma delle strutture economiche e sociali. Ma essa si combatte anche sul terreno della battaglia per una generale democratizzazione dello Stato e di tutto l’ordinamento politico; e per un risanamento della vita pubblica e degli stessi partiti. Se non si va avanti decisamente in questa direzione, la crisi della democrazia può divenire inarrestabile.»

 

Il problema della DC, della sua evoluzione e della sua crisi, va posto necessariamente in questo quadro. Il suo ruolo di struttura portante dell’attuale regime politico fa sì che vi sia una relazione assai stretta tra le prospettive della DC e l’avvenire della democrazia. Ciò, ovviamente, in un senso rovesciato rispetto a come viene posta la questione dai dirigenti democristiani. Sta alle forze della sinistra gettate le basi di questa offensiva democratica, con spirito unitario e con incisività di obiettivi, così da rimettere in moto, rapidamente, una dialettica feconda che coinvolga quelle forze popolari che sono rimaste, all’interno della DC, subalterne e passive, così da mettere alla corda e da non lasciare margini di manovra ai gruppi conservatori che cercano di spegnere La sensibilità democratica e di far scivolare il nostro regime verso forme, più o meno mascherare, di dispotismo autoritario. Soprattutto è da battere la tendenza all’inerzia, che appare spesso, come già più volte è avvenuto nella nostra storia, nobilitata da argomentazioni di “sinistra”: si tratta appunto di quelle posizioni che rifiutano come arretrato ed equivoco il terreno della lotta democratica, e che, guardando sempre in avanti, non vedono i pericoli che si profilano alle spalle. E, per vie opposte, si giunge allo stesso risultato di passività quando, sopravvalutando le forze dell’avversario, si subiscono senza combattere i ricatti della destra, e ci si appaga di una democrazia svuotata ed esausta.

La DC, con il groviglio dei suoi contrasti, con le radici che essa ha profonde nei ceti conservatori, con il suo integralismo di potere, può essere lo strumento ed il tramite di un attacco reazionario, può essere la miccia che conduce ad una gravissima crisi della democrazia. La svolta a destra non era una semplice manovra tattica, dettata dalle preoccupazioni elettorali, ma era il risultato di reali e potenti pressioni, sia interne che esterne, ed in ogni caso si è messo in moto un meccanismo che ormai procede di forza propria, che ha incoraggiato e attivizzato i gruppi più reazionati, i quali possono essere tentati, visti fallite i propri obiettivi sul terreno elettorale, di ricercarli su un altro terreno. Sventare questi pericoli, ridare l’iniziativa alle forze democratiche, riannodare il vincolo unitario dell’antifascismo, costringere i gruppi dirigenti della DC a recedere dalla loro linea avventuristica e a tener conto della maturità e dell’impegno democratico del paese, è questo, nel momento attuale, il compito preminente, e tutta la nostra tattica deve essere conforme a questo giudizio politico.

In una situazione così caratterizzata, di instabile equilibrio politico, gli errori si pagano a caro prezzo, e per questo è da sollecitare un largo dibattito che consenta alle forze di sinistra di affrontare i problemi del momento con una più elevata coscienza dei propri compiti, con una più sicura padronanza della tattica e degli obiettivi. Abbiamo il diritto, credo, di guardare senza pessimismo all’esito della battaglia elettorale e alle prospettive che si aprono, alla condizione però di ricavarne tutti gli insegnamenti necessari.

[1] Dal discorso ai Teatro dell’arte di Milano, 21 febbraio 1972

[2] Dalla Relazione del Congresso provinciale della DC (Il Popolo lombardo, 16 gennaio 1971)

[3] A. Novella, Crisi dell’interclassismo democristiano e problemi dell’unità con i cattolici, in Critica marxista, Quaderni, n. 5, Storia politica organizzazione nella lotta dei comunisti italiani per un nuovo blocco storico, 1972, p. 122.

[4] Dal discorso al Consiglio nazionale della DC del 25-30 settembre 1971.



Numero progressivo: G46
Busta: 7
Estremi cronologici: 1972, marzo-giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Critica marxista”, marzo-giugno 1972, pp. 20-31