PRIMO CONGRESSO DEI DS

Torino, 13-16 gennaio 2000

Relazione di Riccardo Terzi

La nostra discussione congressuale è stata spesso rappresentata, strumentalmente, con le categorie contrapposte dell’innovazione e della conservazione.

Molti hanno pensato, nel gruppo dirigente, di poter chiudere facilmente i conti con una sinistra interna inchiodata in una difesa statica della tradizione.

Ma il congresso ha avuto una dinamica del tutto diversa, e ora è chiaro che si tratta d’altro, di una discussione che riguarda essenzialmente il futuro, il destino della sinistra nel mondo che cambia, nella consapevolezza comune dei grandi sconvolgimenti mondiali che impongono a tutti nuove analisi e nuovi approcci teorici. Non è la ripetizione stanca della discussione dell’89. Il tema del congresso si può riassumere in una comune parola d’ordine: governare il cambiamento.

Era anche lo slogan del convegno del PSI di Rimini, nell’82. Le formule politiche sono sempre ambivalenti, e vanno interpretate.

Sappiamo come sono andate le cose negli anni ‘80: la governabilità come unico principio regolatore e il cambiamento visto come un processo oggettivo che deve essere solo assecondato. Da quella formula non ha preso avvio una stagione di riformismo, ma una stagione di galleggiamento.

La forza del craxismo era in questa combinazione di spontaneismo sociale e di dinamismo politico: una politica forte non in quanto determina gli assetti sociali, ma in quanto ne asseconda e ne interpreta la dinamica naturale.

Oggi si ripropone il medesimo problema, e di fronte alla velocità e all’intensità delle trasformazioni in atto molti pensano che governare significa solo accompagnare i processi, che la politica è l’arte dell’adattamento.

Ora, tutta l’evoluzione del quadro mondiale dimostra che l’adattamento non è sufficiente.

Mercato internazionale, rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri, rapporto tra sviluppo economico e diritti, tutela dell’ambiente sono i nodi aggrovigliati di un mondo incapace di regolazione politica, esposto a rischio di lacerazioni e contraddizioni sempre più violente.

La politica deve essere il tentativo di rispondere a questi interrogativi. Governare il cambiamento significa quindi intervenire nella realtà, nella materialità delle relazioni economiche e sociali, attivare contrappesi efficaci, controlli, tutele dei diritti fondamentali.

Il nostro problema, quindi, non è di ordine esistenziale, se essere o no partecipi del processo di globalizzazione, ma è di ordine politico: quali politiche adottare, quali scelte economiche, sociali, giuridiche.

Senza una politica siamo in balia degli eventi.

Ma è proprio questo che manca nella piattaforma della maggioranza. C’è un atteggiamento culturale di generica apertura verso il nuovo, o di denuncia morale senza un’analisi delle cause. Siamo un po’ come i futuristi del primo 900, i quali non hanno capito che cosa si stava preparando.

Nella mozione della “nuova sinistra” si propone di ripartire dalla centralità del lavoro, dal rapporto tra politica e lavoro come fondamento dell’identità della sinistra. Ciò significa, su tutte le questioni, assumere un preciso punto di vista sociale: non il nuovo contro il vecchio, ma i diritti sociali contro le logiche di dominio. Sappiamo che il mondo del lavoro è investito da trasformazioni profonde, che il post fordismo rappresenta un nuovo paradigma non solo produttivo, ma sociale.

Ma la realtà del cambiamento sociale non può essere usata contro la scelta politica, essenziale per un partito di sinistra, di essere la forza rappresentativa del lavoro, del lavoro che cambia, della nuova complessa costellazione di soggetti sociali, di bisogni, di nuove aspettative e nuove esclusioni. Si tratta, appunto, di rappresentare politicamente questo passaggio e di organizzare gli interessi che sono in gioco.

 

A questa scelta politica, sicuramente ardua perché è tutto da ricostruire il nostro rapporto con la società che cambia, si contrappone una diversa prospettiva, secondo la quale la sinistra non può più essere definita in termini sociali, come una forza che agisce dentro il conflitto: dalla sinistra come forza di rappresentanza alla sinistra dei valori.

I valori, se non sono materializzati nella concretezza dei rapporti sociali, sono solo un esercizio retorico. Tutta la storia delle politiche conservatrici è stata declinata nel nome dei valori contro il materialismo delle classi subalterne.

Una sinistra socialmente neutra, la cui cultura politica non si definisce più a partire dall’analisi materiale della società e dei sui conflitti, tende a trovare nell’amplificazione retorica il surrogato della propria identità.

Ripartire dal lavoro significa anche ripartire da un’analisi sobria e realistica della realtà. Significa praticare un riformismo fattivo e concreto. Il riformismo, per definizione, non può essere un’enunciazione astratta, una nuova ideologia, ma esiste solo in quanto si dà un programma operativo: che cosa cambiare, con quali strumenti, con quali attori sociali. Nelle condizioni attuali, il nemico del riformismo non è la conservazione, perché la destra non è più la difesa di un ordine sociale irrigidito, ma al contrario è l’innovazione senza regole, è la competizione lasciata libera nella sua dinamica distruttiva.

Il conflitto è tra società dei diritti e società della competizione.

Riformismo è oggi ricostruzione di un ordine, di una forma sociale, di una comunità capace di coesione interna. Si tratta di tematizzare, nelle nuove condizioni, l’idea di società giusta: giusta sotto il profilo sociale, dei rapporti di classe e di potere, dei diritti di cittadinanza.

La tradizione del socialismo europeo, alla quale ci richiamiamo, è questa, e in quella tradizione è chiarissimo il rapporto con il lavoro, ed è chiarissima la collocazione nel conflitto sociale.

È su queste basi che possiamo definire una nostra identità. Può essere vero che noi siamo oggi destinati ad un’identità incerta, perché siamo immersi in una realtà sempre più problematica e complessa, e può essere un bene non affidarci più alla certezza delle ideologie.

L’identità politica non la reinventiamo a tavolino, con operazioni ingegnose di manipolazione ideologica o di revisionismo storico.

L’identità, più semplicemente, è il risultato del nostro agire politico. C’è se questo agire ha un senso, se sa comunicare con gli interessi e con i sentimenti delle persone.

La crisi dei partiti è la crisi di questa capacità di comunicazione. La rottura tra la società e il linguaggio e le forme della politica può condurre a breve ad un collasso della democrazia. Dobbiamo domandarci, onestamente, se non abbiamo contribuito anche noi a questa deriva.

Quando si sia consumata questa rottura, la politica diviene solo un affare delle oligarchie e viene meno la partecipazione democratica attiva. Non è un problema di tecniche elettorali, ma di contenuti, di significati della politica.

Non avere richiamato tutto il partito ad una presa di coscienza vera e profonda della crisi che stiamo attraversando è stato un grave errore politico, che getta un’ombra su questo congresso, come se si trattasse oggi solo di ratificare decisioni che sono state tutte giuste e di rinnovare il mandato fiduciario al gruppo dirigente.

L’area della sinistra non ha nessuna intenzione di firmare delle deleghe in bianco. E considera, in questa situazione, del tutto errata e controproducente la decisione di una investitura plebiscitaria del segretario, perché ciò di cui abbiamo bisogno è esattamente l’opposto, la ricostruzione di una collegialità democratica delle decisioni.

Sono in campo due diverse e alternative opzioni politiche, ciascuna con una sua coerenza interna. Nella posizione della maggioranza il passaggio chiave mi pare essere nella rottura con il fondamento sociale, di classe, che ha segnato tutta la storia della sinistra.

In questa chiave ha un preciso senso politico tutta l’operazione revisionistica sulla storia del PCI: non è un’imprudenza ma una scelta necessaria.

E se si esclude per ora l’esito del partito democratico, ciò non significa affatto che si sia fatta chiarezza, perché quell’esito è nell’ordine delle cose, è anzi già oggi operante. Il partito democratico non è solo un possibile approdo per il futuro ma è già ciò che noi oggi siamo. Il resto verrà, di conseguenza.

Se dunque si confrontano idee e progetti alternativi quali possono essere le nostre conclusioni?

La mozione della sinistra ha dato un senso politico e un valore democratico al congresso. Spetta ora al congresso decidere se questo pluralismo può essere un elemento fecondo, o se dobbiamo semplicemente far valere il principio di maggioranza.

Il nostro partito è nato da una convergenza plurale di diverse culture. Ciò è una difficoltà, ma è anche una possibile grande risorsa. Possiamo tentare la costruzione di un partito di tipo nuovo nel quale non ci sia solo -come ormai è ovvio -il pluralismo delle opinioni e la libertà del dissenso, ma il pluralismo delle pratiche politiche, dei progetti, con un ventaglio aperto di possibili sperimentazioni. Questo è il possibile salto di qualità da realizzare, verso un partito davvero aperto e plurale.

Possiamo chiudere unitariamente il congresso, non con un pasticcio unanimistico non con un compromesso di facciata, ma costruendo insieme un partito nel quale sia riconosciuta la piena legittimità dei diversi progetti politici.

La sinistra interna sarà questo. Non un’opposizione verbale o peggio un gruppo di pressione impegnato nella spartizione dei posti, ma un centro di iniziativa. A partire dalle nostre premesse, dall’idea che abbiamo della società e del lavoro, intendiamo sperimentare una pratica politica concreta e realizzare una verifica sul campo. Per questo è di importanza cruciale la decisione sul modello di partito.

Dobbiamo scommettere sulla risorsa democratica.

La vita democratica del partito è oggi gravemente rattrappita. Ma il congresso ci ha dimostrato che ci sono nuove energie, nuove disponibilità di impegno e di partecipazione. Queste risorse possono essere incoraggiate e incrementate, o possono essere facilmente disperse se si sceglie un modello verticistico e plebiscitario.

Oggi non funziona più il rapporto tra il capo e i gregari. Non ci sono più capi riconosciuti, e non ci sono più gregari disposti ad una dichiarazione incondizionata di fede. Il partito politico, contrariamente a tutto ciò che si dice e che soprattutto si fa, ha un futuro solo se è un organismo democratico. Se decidiamo questo, se ci proponiamo di essere uno strumento di partecipazione, contrastando la tendenza a trasformare i partiti in agenzie elettorali al servizio del leader di turno, abbiamo già fatto un passo importante.



Numero progressivo: H4
Busta: 8
Estremi cronologici: 2000, 14 gennaio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -