PARTECIPAZIONE DEMOCRATICA: SVILUPPO E QUALITÀ URBANA

Convegno CGIL, Milano 21 gennaio 1995

Relazione di Riccardo Terzi

Con la nuova legge elettorale e con l’elezione diretta dei sindaci, i Comuni, soprattutto nelle medie e grandi città, hanno riacquistato un ruolo e una autorevolezza politica di prima grandezza. C’è un’investitura democratica forte, una limpidezza degli schieramenti politici, e una garanzia di stabilità e di governabilità, il che crea una situazione del tutto nuova rispetto all’esperienza precedente.

Il principio costituzionale di autonomia dell’ente locale ne esce sicuramente rafforzato, e si può aprire una nuova stagione nel processo di costruzione del sistema delle autonomie. A ben guardare, si tratta della più rilevante riforma istituzionale attuata negli ultimi anni, mentre non si è ancora trovato un assetto convincente per quanto riguarda la legge elettorale nazionale e mentre permane una crisi grave dell’istituto regionale. Nonostante tutto lo straparlare di “Seconda Repubblica”, che giunge talora a vere e proprie forme di delirio retorico, dobbiamo onestamente riconoscere di essere ancora assai lontani da una riorganizzazione coerente dello Stato e delle sue istituzioni, di essere anzi oggi nel mezzo di una situazione estremamente pericolosa di incertezza e di confusione, con l’esplodere di gravissimi conflitti tra i diversi poteri dello Stato.

In questo quadro allarmante, i Comuni rappresentano per i cittadini uno dei pochi punti di riferimento certi e legittimati, e il nuovo meccanismo dell’elezione diretta del Sindaco ha fino ad ora dato complessivamente una prova positiva. Va quindi respinta la richiesta del referendum che riguarda il sistema elettorale per i Comuni, e che avrebbe l’effetto di eliminare proprio l’elemento più significativo e innovativo, e cioè il ballottaggio al secondo turno tra i due candidati più rappresentativi.

Partiamo quindi da questo giudizio, dal riconoscimento del nuovo ruolo delle amministrazioni comunali: un sindaco legittimato direttamente dal consenso popolare, e una giunta svincolata dalle necessità della rappresentanza politica, non più sede di compensazione e di equilibrio tra i partiti, ma organo tecnico-politico che risponde direttamente al sindaco e che deve garantire l’attuazione del programma amministrativo. Per questa ragione, abbiamo voluto organizzare questo incontro con alcuni dei sindaci delle maggiori città, perché pensiamo che sta qui uno dei punti di forza del nostro ordinamento e pensiamo che i comuni, così rinnovati, debbano essere dei protagonisti, dei punti di riferimento forti, in questa complessa e tumultuosa fase di transizione istituzionale.

Dobbiamo però guardarci, nello stesso tempo, dai rischi di una eccessiva semplificazione e dalle facili suggestioni di segno presidenzialistico. È sicuramente importante che i cittadini possano concorrere direttamente alla scelta del sindaco, ma con ciò non si esaurisce la vita democratica, ma al contrario la vera misura della democraticità dell’azione politica e amministrativa avviene dopo la formazione del governo e dipende dalla possibilità per i cittadini e per le loro organizzazioni rappresentative di concorrere alle decisioni e di esercitare un efficace controllo sull’amministrazione.

Va chiaramente rifiutato il modello presidenzialista-plebiscitario, rappresentato oggi dal Cav. Berlusconi, il quale modello ci riporta alla concezione pre-moderna dell’“unto del Signore”, che incarna in sé misticamente la volontà popolare, lo “spirito del popolo”, dal che discende logicamente che ogni elemento di conflitto e di dialettica politica è in sé illegittimo, perché il Designato deve poter disporre di poteri assoluti, deve essere lasciato lavorare senza che nulla lo intralci o lo condizioni. Con ciò viene meno l’ispirazione fondamentale del nostro ordinamento costituzionale, che si basa sull’equilibrio e sulla divisione dei poteri, e si trapassa in una visione plebiscitaria del tutto estranea alla grande tradizione democratica europea.

Per fortuna, i nostri sindaci non hanno di queste megalomanie, e hanno una visione più realistica e corretta della loro funzione, ma è comunque bene tracciare con chiarezza i limiti e le condizioni entro le quali si svolge la funzione di governo, la quale non dispone di una assoluta autonomia di decisione, ma deve essere bilanciata da efficaci contrappesi e strumenti di controllo.

Per quanto riguarda i Comuni, un primo problema è il rapporto tra la giunta e il consiglio comunale, che non può essere ridotto ad un organo passivo di mera ratifica, ma deve mantenere funzioni essenziali di indirizzo. Il rafforzamento del ruolo del sindaco richiede contestualmente una rimotivazione politica forte dei compiti del consiglio, che deve essere liberato da una serie di adempimenti burocratici secondari e deve concentrarsi sulle grandi questioni di indirizzo politico e strategico. Non è – mi sembra – un problema ancora adeguatamente affrontato e risolto.

Analogamente, si pone il tema dei rapporti con le organizzazioni sociali, e in particolare la necessità di definire un nuovo sistema di relazioni sindacali. Se il quadro istituzionale è cambiato, anche il ruolo e l’ambito di iniziativa del sindacato deve essere conseguentemente ridefinito. In questa epoca di sommarie semplificazioni propagandistiche, questo necessario passaggio verso nuove regole viene interpretato come la fine del consociativismo. Ma qui occorrono davvero analisi un po’ più accurate. Il consociativismo, se vogliamo usare correttamente questo termine e non dilatarne a dismisura il significato, consiste nella confusione e sovrapposizione dei ruoli, nel venir meno dell’autonomia istituzionale dei diversi soggetti, per cui tutti si occupano di tutto, e ciascuno finisce per avere un diritto di veto, con conseguente allungamento abnorme dei tempi della decisione fino a determinare stati di paralisi. Per spezzare il meccanismo perverso del consociativismo, occorre ripristinare la pienezza dei poteri e la sovranità di ciascuna istituzione, nel suo proprio ambito. Ciò vale per tutti, anche per il sindacato, che non deve essere coinvolto in modo improprio in compiti di gestione amministrativa che non gli competono, e che deve disporre di una propria piena autonomia, progettuale e contrattuale.

Ma va chiarita e precisata la portata della critica al consociativismo, rifiutando la generalizzazione che ne viene fatta, in virtù della quale si respinge qualsiasi istanza di confronto, di mediazione, di concertazione. Ritorna così la tendenza alla “semplificazione autoritaria”, che riduce la politica all’esercizio del potere, eliminando ogni considerazione del consenso sociale e della partecipazione attiva dei cittadini. Per questo, il tema del sindacato è centrale, e il sistema di relazioni con le forze sociali è indicativo dell’orientamento politico e della volontà democratica delle diverse amministrazioni.

Su quali basi queste relazioni possono oggi essere ridefinite? Proviamo a fissare alcuni punti orientativi. Il sistema delle relazioni sindacali riguarda il rapporto tra soggetti dotati di una propria fondamentale autonomia, e la ricerca dell’intesa e del consenso non deve condurre ad un offuscamento delle rispettive distinte responsabilità. Né il sindacato può essere una cinghia di trasmissione, né può essere menomata la pienezza di responsabilità politica e decisionale degli organi di governo ai vari livelli. E con ciò il problema del consociativismo è risolto. Ma l’autonomia non è, non deve essere, indifferenza reciproca o rapporto solo conflittuale, perché è nell’interesse delle parti e soprattutto è nell’interesse della collettività ricercare possibili terreni di accordo. Un sistema di relazioni consiste appunto nell’intesa sulle procedure del confronto, nella definizione di un metodo che renda possibile un’interlocuzione costruttiva e un accordo tra le parti.

È il metodo della “concertazione”, che già ha avuto un’importante sanzione negli accordi sindacali del luglio del ‘93 con il governo Ciampi, e che può essere opportunamente applicato e concretizzato anche a livello dei governi locali. Ciò non riguarda solo il sindacato, ma l’insieme delle organizzazioni economiche e sociali. Si tratta allora di approntare apposite sedi (bilaterali, triangolari, o multi laterali, a seconda dei temi di cui si tratta) per verificare le condizioni, i contenuti e i limiti di una tale politica di concertazione. Questa pratica non lede l’autonomia dei soggetti ma li impegna in una ricerca e in confronto costruttivi, in cui ciascuno tiene conto non solo dei suoi interessi legittimi ma anche dell’interesse generale.

Ovviamente, perché questo confronto possa essere fecondo esso va attivato in via preventiva, quando il processo decisionale è ancora aperto, e richiede il massimo d’informazione e la messa in campo di un ventaglio di ipotesi alternative, in modo che le forze sociali non siano chiamate a ratificare decisioni già prese, ma possano effettivamente concorrere alle scelte programmatiche. Per dare ordine e chiarezza a questo sistema di rapporti, può essere utile fissare nel corso dell’anno un paio di sessioni, nella fase di predisposizione del bilancio e del programma, e in fase di verifica, garantendo il massimo di trasparenza, in modo che siano chiare le diverse proposte in campo, e che siano quindi comprensibili per i cittadini i punti di accordo e di disaccordo. Questo impegna il sindacato in uno sforzo propositivo e progettuale, in un lavoro che va oltre la normale azione contrattuale e di tutela dei lavoratori, e solo così abbiamo titoli per essere davvero degli interlocutori riconosciuti.

Occorrerà poi definire in modo più preciso l’ambito del confronto, ovvero quali sono le materie, quali gli atti amministrativi e programmatici da sottoporre a questa procedura. Possiamo, in via sommaria, distinguere le scelte strategiche, che in quanto coinvolgono l’intera collettività e il suo futuro richiedono perciò il massimo di partecipazione democratica, e d’altro lato i compiti di gestione amministrativa, per i quali va garantita la piena autonomia nell’esercizio della responsabilità di governo. Nei protocolli di definizione del sistema delle relazioni sindacali sarà possibile circoscrivere e puntualizzare il terreno e l’ambito del confronto, in modo da evitare che ci sia un sovraccarico, un’estensione abnorme del sistema della concertazione, che finirebbe per essere paralizzante e inapplicabile. E tali protocolli dovranno tener conto della complessità istituzionale dell’ente locale ed individuare quindi una pluralità di interlocutori: il Sindaco e la Giunta, il consiglio comunale, la dirigenza amministrativa.

Per quanto ci riguarda, dobbiamo aver chiari sia i nostri compiti sia i nostri limiti, i compiti e i doveri che ci vengono dall’essere una forza rappresentativa del mondo del lavoro, che non può restringere la sua azione al solo ambito del rapporto di lavoro, ma deve tutelare i lavoratori e i pensionati anche in quanto cittadini e in quanto portatori di bisogni sociali complessi, e i limiti propri di un’organizzazione che rappresenta interessi parziali, per quanto consistenti essi siano, e che non può sostituirsi all’autonoma responsabilità del potere politico.

Sulla base di questi principi generali si può definire un nuovo sistema di relazioni sindacali, libero da vecchie incrostazioni corporative o consociative, e proiettato ad un confronto limpido e trasparente sulle grandi scelte strategiche, sui grandi nodi che devono essere affrontati per il futuro delle nostre città. A questo siamo interessati, non a difendere piccoli privilegi, piccole rendite di posizione. Dobbiamo quindi, in coerenza con questa impostazione, selezionare in modo rigoroso le nostre forme di intervento, e liberarci di compiti impropri, di coinvolgimenti subalterni e compromissori nell’azione amministrativa, il che abbiamo cominciato a fare rimettendo in discussione la nostra partecipazione nei consigli di amministrazione, nelle commissioni di concorso, e in una pletora di enti e di commissioni dove il sindacato non ha motivate ragioni di presenza. Dobbiamo procedere in questa direzione con più decisione, per restituire al sindacato la sua funzione di rappresentanza generale, ferme restando, ovviamente, le specifiche funzioni contrattuali nel settore della pubblica amministrazione.

Dovrebbe esser chiaro che il problema delle relazioni, così impostato nel suo rapporto con le scelte strategiche generali, non è solo una questione di procedure, ma è una questione politica. La nostra non è una rivendicazione di parte, ma è la convinzione che i grandi temi della città moderna e della sua trasformazione possano essere affrontati solo attivando un nuovo circuito di partecipazione e di consenso. Il sindacato è in questo senso un interlocutore necessario, non esclusivo, certo, ma indispensabile per raggiungere obiettivi significativi di riorganizzazione civile e sociale, mentre sono destinate al fallimento le illusioni tecnocratiche, gli interventi dall’alto che non poggiano sul consenso della gente.

Le città hanno la necessità, drammatica e urgente, di una grande riorganizzazione: negli stili di vita, nel sistema degli orari, nell’organizzazione dei servizi collettivi, nella tutela dell’ambiente, nella valorizzazione del patrimonio culturale, nell’uso del territorio. E ciò non può essere fatto senza una partecipazione attiva, senza un consenso sociale sufficiente per cambiare i comportamenti sociali e individuali.

E inoltre, se stiamo tutti prendendo coscienza che non può bastare l’intervento pubblico nelle sue forme tradizionali, che va superata una concezione statalistica e dirigistica, occorre allora lo spazio per l’iniziativa sociale di diversi soggetti, per una rete diffusa di associazionismo democratico, e l’intervento pubblico è efficace se interagisce con questo tessuto autonomo della società civile, di cui il sindacato è una parte rilevante.

Un campo importante per il sindacato, sul quale è evidente la sua titolarità, è la riorganizzazione del sistema degli orari, il che pone problemi assai complessi di organizzazione della produzione e dei servizi e di organizzazione sociale, i quali non possono che essere affrontati in un confronto diretto con i lavoratori che sono coinvolti da tali processi. Ma più in generale, senza entrare qui nel merito specifico dei singoli problemi, ci sembra oggi necessaria per le città una nuova capacità di progettazione, di scelta consapevole circa l’uso e l’organizzazione del territorio, invertendo la tendenza che è stata prevalente negli anni passati e che ha condotto ad abbandonare ogni visione di insieme, ogni forma di pianificazione, di finalizzazione, ovvero di governo politico dello sviluppo, con i risultati devastanti che abbiamo sotto gli occhi. Il governo del territorio è il primo compito dell’ente locale, ed esso richiede una solida base scientifica, con il rilancio di una vera cultura urbanistica e una capacità di mediazione tra interessi diversi, con il coinvolgimento di tutti i soggetti sociali. E inoltre i Comuni hanno anche una rilevante funzione economica e di promozione dello sviluppo, sia perché all’ente locale fa direttamente capo un insieme rilevante di strutture amministrative, di aziende pubbliche e di enti, e quindi il Comune svolge in prima persona una funzione imprenditoriale, sia perché, nell’attuale fase di emergenza occupazionale occorre attivare tutti gli strumenti politici per allargare l’iniziativa economica, per creare nuova occupazione e per elevare il livello complessivo di professionalità della forza-lavoro.

È in questo quadro che collochiamo il problema delle relazioni sindacali, come un aspetto, non esclusivo ma importante, di uno stile di governo che sia aperto alla società civile e che, proprio per questa apertura, sia in grado di affrontare con efficacia e con il consenso necessario i grandi e complessi problemi dell’organizzazione della vita urbana, in tutti i suoi diversi aspetti.

Una volta individuate le scelte politiche e strategiche, si tratta di garantire un funzionamento coerente della macchina amministrativa. E questo rapporto tra politica e amministrazione è stato e resta un punto critico, esposto a varie forme di distorsione, sia nel caso in cui è la politica ad invadere l’amministrazione, sostituendo ai criteri di professionalità quelli dell’appartenenza partitica e della fedeltà personale, sia nel caso in cui l’istanza legittima di autonomia e di neutralità dell’amministrazione si trasforma in un’azione di resistenza che impedisce o snatura la realizzazione degli obiettivi politici. In questo passaggio critico l’azione del sindacato può essere importante per impedire lo stravolgimento del rapporto tra politica e amministrazione, nell’uno o nell’altro senso, e tanto più il sindacato potrà svolgere efficacemente questa funzione quanto più è coinvolto e partecipe nelle scelte di indirizzo politico generale.

Il problema dell’amministrazione, della sua efficacia e funzionalità, rappresenta una condizione di base, ed è interesse di tutti garantire questa condizione, e rimuovere tutti gli elementi di burocratizzazione e di inerzia che inceppano il funzionamento della macchina amministrativa e che rischiano di far fallire qualsiasi progetto innovativo.

Il sindacato deve fare la sua parte, e in effetti un’azione riformatrice è stata avviata con la riforma del rapporto di lavoro e con l’adozione di nuovi criteri contrattuali che favoriscono la professionalità e l’efficienza dei pubblici servizi. Occorre anche nella pubblica amministrazione dare vita a rapporti contrattuali trasparenti e a meccanismi di decentramento e di flessibilità, i quali consentano di sperimentare nelle diverse situazioni le soluzioni più adeguate per una migliore organizzazione dei servizi e per una piena valorizzazione delle risorse professionali. Sotto questo profilo, nel recente contratto degli enti locali ci sono novità significative e si aprono nuovi spazi di contrattazione.

I Comuni possono dare un impulso importante in questa direzione, spezzando le vecchie logiche centralizzatrici e offrendo ai lavoratori e al sindacato un terreno di confronto innovativo, esplorando le possibilità di riforma della macchina amministrativa e di innovazione della strumentazione contrattuale. A questo confronto siamo disponibili e interessati, e pensiamo che, pur nella normale articolazione e dialettica che sono insite nel confronto sindacale sia possibile superare la logica della conflittualità e realizzare convergenze e obiettivi comuni. Anche in questo caso servono a poco gli interventi dall’alto, le direttive, gli atti di autorità, se non si instaura un confronto con i lavoratori interessati, se non si attiva un processo di partecipazione capace di valorizzare la responsabilità dei lavoratori.

La nostra tesi di fondo – quindi – è che il nuovo ruolo dell’ente locale e la nuova autorevolezza dei governi locali dovuta alla nuova legge elettorale si debbano integrare con la ricerca di forme efficaci di partecipazione. Proprio questa più forte autorevolezza e legittimazione consentono e richiedono lo sviluppo di una rete democratica, di un insieme di rapporti, di relazioni, di canali di partecipazione, in modo che il comune sia davvero la prima e fondamentale cellula dello stato democratico, l’essenziale punto di riferimento per i cittadini.

Questo discorso non riguarda solo il sindacato, ma riguarda l’insieme della società civile e l’insieme delle sue organizzazioni. C’è tuttora, nelle grandi città, una carenza di vita democratica: ci sono periferie senza voce, strati sociali passivi, e cittadini senza diritti come è il caso degli immigrati dal terzo mondo o dall’est dell’Europa. Occorre dunque un nuovo sviluppo democratico, che renda effettivi i diritti di cittadinanza e allarghi gli spazi di autogoverno, e occorre riprendere in esame tutto il tema della partecipazione, per individuare nuove forme, nuovi possibili percorsi. È intorno a questo nodo che si può esercitare l’autonomia statutaria dei comuni, con soluzioni differenziate in rapporto alla diversità delle situazioni, delle dimensioni e dei contesti economico-sociali. Si dovrà anche riflettere sull’esperienza delle circoscrizioni, che in generale sono rimaste in uno stadio di sviluppo ancora assai debole, ed esaminare la possibilità di un più significativo decentramento delle funzioni amministrative, così come si dovrà regolamentare l’istituto del referendum sulle questioni di interesse cittadino.

Per le grandi città resta aperto il problema della costituzione del governo metropolitano. Si è determinato un ritardo assai serio, e ora si cerca, con un nuovo provvedimento legislativo, di ridefinire nuovi tempi certi e meccanismi vincolanti per giungere al varo delle aree metropolitane entro la fine del 1996. A questo punto però la discussione si intreccia necessariamente con un problema di ordine più generale che riguarda l’assetto complessivo del nostro ordinamento e le sue ipotesi di riforma.

È posto infatti all’ordine de] giorno il tema del federalismo, e quindi di un nuovo assetto dei poteri, di una nuova distribuzione di risorse e di competenze tra lo stato centrale e le Regioni. Noi guardiamo a questa prospettiva con grande interesse, perché il federalismo può essere la chiave per una riforma democratica dello Stato, per uno sviluppo dell’autogoverno, per un processo positivo che ricostruisca nelle diverse realtà territoriali autonomia e responsabilità, nuove classi dirigenti e nuova capacità di governo dei diversi sistemi territoriali. D’altra parte, una tendenza in questo senso, che si tratti di stati federali o di forme sviluppate di regionalismo, è presente in tutta Europa, essendo ormai matura la necessità di riformare le vecchie strutture statuali centralizzate e di riconoscere uno spazio di autonomia e di autogoverno per le Regioni.

In Italia il progetto federalista deve fare i conti con alcuni dati peculiari della nostra situazione economico-sociale e della nostra storia politica. In primo luogo, l’Italia è il paese che ha al suo interno i più marcati squilibri territoriali, tra il Nord ed il Sud, e quindi occorre avere delle garanzie forti intorno ai meccanismi di perequazione e di solidarietà. Un federalismo indifferente a questa esigenza, che sia espressione dell’egoismo delle regioni forti, è per noi del tutto inaccettabile. Anche per il Sud la sfida del federalismo, in quanto scommessa sull’autonomia e sulle capacità di autogoverno, può essere un’occasione di riscatto, di rottura dei meccanismi perversi di dipendenza propri di un’economia assistita. Ma è chiaro che questa scommessa è possibile, ed è possibile il consenso intorno ad essa, se viene garantita una distribuzione equa delle risorse, che tiene conto degli attuali squilibri e che si propone di rimuoverli.

Il secondo dato caratteristico della situazione italiana sta in una tradizione politica forte delle autonomie comunali e, inversamente, in una debole identità regionale. Il federalismo ha quindi bisogno dell’apporto dei comuni e delle autonomie locali e deve essere pensato non come nuovo accentramento di potere nelle regioni, ma come una linea di sviluppo di tutto il sistema delle autonomie e come il massimo di decentramento possibile, dallo stato alle Regioni, e dalle Regioni agli enti locali. I comuni quindi, i grandi comuni in primo luogo, possono essere degli attori importanti e decisivi in questa azione di riforma, assumendo la prospettiva di una riforma federalista dello stato e immettendo in questa prospettiva tutta la ricchezza della loro esperienza democratica. E allora, se il nuovo contesto di riferimento sarà quello delle regioni, e se spetterà alle regioni, come è logico che sia in una impostazione federalista, un compito ordinamentale rispetto al sistema delle autonomie locali, dovranno essere trovate, nel rapporto e nel confronto tra regioni ed enti locali, le soluzioni più adeguate per quanto riguarda la suddivisione delle competenze, per quanto riguarda il modello istituzionale e organizzativo dell’area metropolitana, per quanto riguarda il ruolo delle province, in una ricerca aperta anche a soluzioni differenziate, aderenti alla concretezza dei diversi contesti regionali.

È aperta quindi una fase costituente, che dovrà rimodellare il nostro ordinamento e ridefinire gli ambiti di autonomia e i poteri dei diversi livelli di governo. Sarà un processo non semplice e di non breve durata, e non si risolvono problemi di questa complessità con i proclami retorici o con improvvisate e non meditate proposte di riscrittura della Costituzione. La Costituzione, che resta valida nel suo impianto generale e nella sua ispirazione di fondo, avrà bisogno di modifiche, di innovazioni anche rilevanti, mentre non c’è sicuramente bisogno di buttare a mare questo nostro patrimonio giuridico e democratico per avventurarci verso non si sa che cosa. Lasciamo da parte quindi i proclami retorici sulla “seconda Repubblica”, che sono spesso intrisi di una volontà restauratrice e autoritaria, e lavoriamo per risolvere i problemi che sono aperti, per realizzare un programma di riforme che sia chiaro nei suoi fini e nei suoi effetti, per una nuova stagione democratica, per una democrazia più compiuta, dentro un quadro costituzionale che sia, come è oggi, un quadro di garanzie, di autonomie, di divisione equilibrata dei poteri. Nella loro autonoma responsabilità, sia il sindacato, che è rappresentativo di interessi sociali diffusi, sia i comuni, che sono l’organo primario di autogoverno delle comunità locali, possono certamente convergere su questa impostazione, perché entrambi sono forti se è forte il quadro delle garanzie democratiche.



Numero progressivo: C22
Busta: 3
Estremi cronologici: 1995, 21 gennaio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CRS -