NIENTE SCORCIATOIE MA LA FATICA DI UN NUOVO PROGETTO POLITICO

di Riccardo Terzi

Il saggio di Fausto Bertinotti ha come oggetto il tema della rivolta, intesa come l’unica opportunità disponibile per un rovesciamento del ciclo autoritario dominante. C’è una nuova ondata di movimenti, di proteste, di contestazione del potere, che si abbatte sul mondo globalizzato, con forme diverse e con diversi protagonisti, ma con una comune ispirazione di fondo, e in tutti i casi sono le nuove generazioni la decisiva forza trainante di tutto il processo. Sono i giovani, privati di futuro, di prospettive, che reclamano una diversa organizzazione sociale. Si tratti del mondo arabo o dell’Europa, si presentano le stesse emergenze: delegittimazione della classe dirigente, crisi democratica, necessità di nuove risposte e di nuovi soggetti politici.

La prima obiezione che intendo sollevare è di ordine terminologico. Nella tradizione politica in cui mi sono formato, e alla quale mi ostino a restare legato, il concetto di “rivolta” viene usato con circospezione e con sospetto, sia perché la storia delle rivolte è anche drammaticamente una storia di fallimenti, sia soprattutto per l’ambiguità e genericità della parola, per il suo riferirsi ad una massa indifferenziata, senza dar conto delle sue interne relazioni sociali e delle sue diverse componenti culturali.

 

Costruire il cambiamento con metodo e razionalità

La rivolta è assai spesso una esplosione momentanea, che non riesce ad incidere sugli effettivi rapporti di potere. È il momento dell’entusiasmo, a cui sempre subentra il momento della razionalità, del calcolo delle forze, dell’organizzazione, della regolazione del conflitto. Ecco perché le rivolte possono rivelarsi come velleitarie e impotenti, se non hanno chiaro che cosa accade dopo, se non hanno un progetto politico, una strategia.

Il cambiamento rivoluzionario non può essere affidato a fiammate improvvise, ma deve essere costruito con metodo, con razionalità, con una consapevole articolazione dei momenti tattici e di quelli strategici. In questo modo di pensare, tipico della tradizione comunista, è nettissimo il rifiuto delle scorciatoie, delle fascinazioni illusorie, delle mitologie. Basti ricordare tutta la polemica con Sorel, con il suo culto romantico della violenza e con il mito dello sciopero generale come evento risolutore e salvifico. All’influenza di Sorel, alla sua teoria del “mito” come decisiva forza mobilitante, si riconnettono diversi filoni di pensiero e di azione, accomunati da una spinta vitalistica e dal rifiuto delle strutture organizzate.

In epoca più recente, possiamo riferirci alle teorie di Toni Negri, all’idea di un conflitto che non ha più il suo centro nel lavoro e nel processo produttivo, ma investe genericamente una “moltitudine” indifferenziata, così come, sull’altro versante, tutte le articolazioni politiche si fondono e si dissolvono nell’immagine esclusiva e totalizzante dell’Impero. In tutti questi casi, il conflitto non viene analizzato nelle sue concrete articolazioni, ma viene sublimato e ideologizzato dentro una intelaiatura non più di ordine storico, ma metastorica e metafisica. E allora, in queste rappresentazioni, la rivolta diviene l’assalto al Potere, la definitiva palingenesi in cui tutto può e deve essere rovesciato.

Tuttavia, non voglio restare inchiodato alle parole, le quali sono solo convenzioni, e sul loro significato si può sempre discutere, e tra diversi linguaggi si possono rintracciare delle convergenze nascoste. Ho però l’impressione che il dissenso terminologico sia indicativo di un dissenso politico più di sostanza. In ogni caso, non è indifferente e neutrale la scelta delle parole con cui vogliamo rappresentare la realtà, perché la parola è la materia in cui si condensa il pensiero, e le parole hanno una storia, una tradizione che le fa essere quello che sono.

 

Lo spiazzamento della sinistra

E vengo ora, dopo questa premessa un po’ accademica, al nocciolo politico del discorso, e dico subito che mi trovo in una sintonia totale con la drammatizzazione che contrassegna tutta l’analisi di Bertinotti.

Ciò che è accaduto in questo ultimo trentennio non è una delle tante oscillazioni del pendolo nella storia delle lotte sociali, ma rappresenta un vero e proprio salto di egemonia, su tutti i terreni, e la sinistra è stata relegata nell’angolo, rappresentata come l’erede di una storia fallimentare, come il luogo di un cieco spirito di conservazione che si oppone in modo insensato alle leggi ineluttabili del nuovo sviluppo capitalistico mondiale.

Da qui occorre partire: dalla lucida percezione dello spiazzamento della sinistra, sul piano teorico prima ancora che su quello della pratica politica, dal suo essere pericolosamente esposta ad un destino di irrilevanza. Non si tratta di insuccessi parziali, di arretramenti, di ritirate tattiche, ma del tentativo politico ed ideologico, finora vincente, di mettere fuori gioco ogni tentativo e ogni progetto di trasformazione sociale.

Innovazione è la parola d’ordine del momento. Ma è mutato il significato della parola, e l’innovazione è ora solo l’accelerazione estrema dei processi in atto, la scelta di portare alle ultime conseguenze, senza mediazioni, il modello economico dominante. Chi non si adegua a questo nuovo corso è solo un rottame, una scoria, così come sono solo rottami le vecchie ideologie novecentesche, la loro pretesa di regolare politicamente l’economia, di metterla al servizio di un progetto di società. Il nuovo secolo nasce all’insegna del dominio ormai incontrastato dell’economico sul politico e sul sociale.

C’è stato, in questo senso, un colossale spostamento di tutti i poteri decisionali, i quali si collocano ormai sostanzialmente fuori dal processo democratico: imprese multinazionali, agenzie tecnocratiche, capitale finanziario. I politici sono i reggicoda di questo nuovo sistema: fanno uno sfoggio narcisistico del loro potere, del loro carisma personale, e fingono di avere nelle loro mani un effettivo potere di decisione che nella realtà si è trasferito altrove. La politica è oggi un intreccio di arroganza e di impotenza, e le due cose si alimentano reciprocamente. Non è solo la sinistra a essere spiazzata, ma è la democrazia che entra in uno stato acuto di sofferenza.

Per questo, è del tutto fuorviante ridurre il problema dell’Italia al destino politico di Berlusconi, come se fosse sufficiente una qualsiasi congiura di palazzo per toglierlo di mezzo. E dopo? Il problema di cui non si parla è se il dopo sarà la continuazione della medesima subalternità della politica, o se viceversa si avrà la forza di imporre una svolta nei rapporti tra politica ed economia. Molti lavorano per un cambiamento indolore, per poter continuare sulla medesima strada, senza avere l’imbarazzo della presenza ingombrante di un personaggio ormai impresentabile, infognato in mille vicende di corruzione e di degrado morale. Tutta la discussione su eventuali e ipotetici governi di emergenza o di unità nazionale è solo il modo per eludere il problema, e per fingere di cambiare senza mettere davvero in discussione gli equilibri consolidati. È la vecchia logica del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare nulla, cambiare le forme per salvare la sostanza. E la sostanza è il dominio delle oligarchie economiche, è l’idea di uno sviluppo che si fonda sulle diseguaglianze sociali.

 

L’operazione trasformista e il deserto delle idee

Ora, di fronte a questa violenta offensiva ideologica, che mette in discussione tutta la nostra tradizione democratica, una parte della sinistra ha scelto di stare al gioco, di accettare questo nuovo terreno, e ha tentato, con un audace salto acrobatico, di presentarsi come l’avanguardia della modernizzazione capitalistica, come la forza più coerentemente liberista, con l’illusione tragica di mettersi al riparo e di poter galleggiare impunemente sulle onde tempestose di questo attuale rovesciamento di idee e di poteri.

L’idea, semplice e grottesca, è di mettersi alla testa del nuovo ciclo politico, di guidarlo, accettandone in toto la logica e le conseguenti compatibilità. Il più coerente interprete di questa linea è stato Tony Blair, il quale, purtroppo, ha allevato anche molti discepoli, meno lucidi e meno consapevoli di lui, e quindi ancora più pericolosi e insensati. E il risultato di questa grande operazione trasformista è un vero e proprio deserto delle idee e dei progetti, perché si tratta solo di cavalcare l’onda e di adattarsi alle leggi oggettive e indiscutibili del mercato. Come dice giustamente Bertinotti, «la messa fuori campo del pensiero critico si rivela una catastrofe».

Ora, di tutta questa drammaticità della situazione non c’è traccia nel dibattito politico corrente. Ci si occupa d’altro, di questioni tattiche e contingenti, di alleanze elettorali, della competizione per la leadership, delle riforme istituzionali, sempre annunciate, sempre rinviate e mai concretamente definite. Insomma, si ragiona come se fossimo in una situazione normale, quando invece tutto è messo radicalmente in discussione. Non c’è nei gruppi dirigenti della sinistra la coscienza del “vuoto” in cui siamo precipitati.

C’è solo, nel migliore dei casi, la sinistra del buon senso e dei buoni sentimenti: un po’ di sano realismo e un po’ di enfasi sui valori etici da recuperare, e la ricerca affannosa di un possibile quadro unitario che tenga insieme tutte le forze di progresso. Tutto è subordinato alla cacciata dell’attuale governo. Per il resto si vedrà. Tutto ciò è del tutto insufficiente, perché troppe cose restano nell’ombra e tutto il progetto politico resta indefinito, aperto alle più svariate interpretazioni. La sinistra vive nell’indistinto, e anzi lo coltiva e lo teorizza, perché l’indistinto consente di eludere le scelte, di smussare gli angoli, nel nome di una unità che è solo di facciata.

Quando emerge nella sua durezza lo scontro sociale, tutta questa costruzione inevitabilmente traballa. Dobbiamo stare con Marchionne o con la resistenza degli operai? Dobbiamo fare nostro il programma della Banca Centrale Europea, o dobbiamo alla radice contestarlo? Le due posizioni convivono, e non c’è nessun miracolo diplomatico che possa ricondurre a sintesi posizioni così contrastanti. Il terreno su cui si dovrebbe definire il senso del progetto politico resta quello dei rapporti sociali, del destino del lavoro, della sua dignità e della sua autonomia. Anche qui concordo con Bertinotti: «L’essenziale della sfida qui si concentra».

È il lavoro il discrimine fondamentale su cui si misurano i diversi progetti politici, di destra o di sinistra. Se questa centralità viene abbandonata, se si lascia che il lavoro venga risucchiato, inglobato nella logica del sistema, reso subalterno e marginale, allora vuol dire semplicemente che la sinistra ha perso la sua anima. Non insisto oltre, perché ci troviamo fin qui su un terreno comune e condiviso, il che rappresenta un’importante base di partenza per tutte le discussioni successive.

 

Non c’è un dittatore ma un sistema economico complesso

La risposta di Bertinotti a questa analisi comune è affidata, come abbiamo visto, alle risorse della rivolta. A me sembra che le cose siano infinitamente più complicate, e che questa idea di un movimento dal basso che rovescia i luoghi e le forme della politica sia una rappresentazione troppo semplificata e troppo ottimistica. Non potrà funzionare nelle nostre società fortemente strutturate un processo analogo a quello che si è verificato nei Paesi arabi. Non c’è un dittatore da abbattere, ma un sistema economico complesso, nel quale il potere non è immediatamente visibile, non è concentrato in un punto, ma è diffuso, articolato, e si regge sugli interessi di un vasto blocco sociale.

Dovremmo ricordarci di tutta l’analisi di Gramsci sulla guerra di movimento e sulla guerra di posizione, la prima possibile nelle società meno strutturate, la seconda come unica possibile scelta strategica laddove c’è una struttura più complessa della società e del potere. In un caso, tutto si risolve con la presa del potere, nell’altro caso è tutto il complesso delle istituzioni sociali e politiche che va ripensato e ricostruito su una diversa base. È il grande e irrisolto tema della trasformazione socialista nelle società evolute dell’Occidente, dove non c’è e non può funzionare una via rettilinea e semplificata.

Bertinotti insiste sull’immagine del “recinto”: il recinto è il luogo del potere, è il sacrario dell’ortodossia liberista, è tutto quell’insieme di istituzioni che si propongono solo di assecondare ciecamente le presunte leggi oggettive del mercato, e in questo recinto finisce per impantanarsi anche l’azione dei partiti della sinistra e delle grandi organizzazioni sociali. Alla fine tutto viene appiattito, e tutti finiscono per parlare lo stesso linguaggio, con qualche diversità di accento, ma dentro una logica dominante la quale sovrasta tutti gli interessi particolari. Ciò che è vitale è solo ciò che sta fuori dal recinto e ne contesta la logica. «È il recinto il fondamento della nuova politica. Dentro o fuori. Se stai dentro è l’omologazione, se stai fuori è la protesta».

C’è dunque una chiara linea di demarcazione, tra il dentro e il fuori, tra il potere e tutto ciò che si oppone al potere. Questo modo di rappresentare la realtà ha molti ascendenti letterari, dal “Castello” di Kafka al “Palazzo” di Pasolini. Si tratta di simboli del potere, che lo rappresentano come ciò che è distante, inaccessibile, indecifrabile. Ma il potere sfugge alla nostra comprensione proprio perché esso non ha luogo, ma attraversa tutta la nostra vita, la penetra, la condiziona in infiniti modi. Il potere non riusciamo ad afferrarlo non per la sua lontananza, ma per la sua eccessiva vicinanza, perché lo incrociamo in ogni momento della nostra vita.

 

Ricostruire un linguaggio e una coscienza comune

Non c’è dunque nella realtà una netta linea divisoria tra il dentro e il fuori, ma ci troviamo tutti ad essere nello stesso tempo l’una e l’altra cosa, in una posizione mediana ed ambigua, insieme complici e vittime del potere. In questo, appunto, consiste la sua forza, nel fatto che ciascuno si trova legato da mille fili all’ordine costituito, che insomma è sempre più arduo dividere la società in due campi nettamente contrapposti. Per questo non mi convince la tesi del recinto, perché separa e contrappone ciò che nella realtà si trova intrecciato.

Inoltre, sul piano della strategia politica, il rifiuto del recinto finisce per capovolgersi nella sua accettazione, perché non si vede nessuna possibilità di agire dall’interno delle istituzioni e si sceglie una linea di totale estraneità, di azione solo dall’esterno, per cui quella barriera che si vorrebbe rovesciare viene nella ‘realtà ribadita e confermata. Il risultato è un movimento che per sua natura resta sempre minoritario e marginale, non per un destino, ma perché così si è costituito e si è autorappresentato, perché la sua vitalità resta sempre fluida, indefinita, e non si traduce in azione politica organizzata.

Naturalmente, l’esistenza di forti movimenti di contestazione del potere, del modello di sviluppo, rappresenta una risorsa essenziale per avviare un nuovo corso della sinistra, per tentare quel paziente lavoro di ricostruzione che si rende necessario e urgente dopo la devastazione che abbiamo subito negli scorsi decenni. Il momento della protesta, o della rivolta, è uno dei tasselli del nuovo edificio da costruire. Ma da solo è del tutto insufficiente. E se rimane nel suo stadio elementare, spontaneo, può facilmente smarrirsi o intorbidarsi. Può divenire, non un momento della ricostruzione, ma del rifiuto della politica, della sua destrutturazione, del suo fallimento.

Ciò non significa affatto, nelle mie intenzioni, riproporre la vecchia formula del “primato della politica”, che ha già prodotto nella nostra storia troppe forme degenerate di autoritarismo burocratico, ma significa che tra l’autonomia dei movimenti e dei soggetti sociali e la politica organizzata nei partiti si deve costruire una relazione. Si deve anzi scegliere con nettezza, in opposizione al modello decisionista imperante, un sistema democratico fondato su una rete robusta di autonomie, sociali e territoriali. Anche Bertinotti ne parla, a proposito del sindacato.

Il sistema politico attuale tende ad occupare tutti gli spazi del sociale, a ricondurre la dinamica sociale, il suo pluralismo, la sua vitalità, entro gli schemi angusti e deprimenti del bipolarismo, per cui tutto viene asservito al gioco politico, e questo tentativo è chiarissimo nel caso del sindacato, con la spinta ad una divisione strutturale e definitiva tra un sindacato di regime ed un sindacato di opposizione. Il principio dell’autonomia è quindi un concetto chiave, un punto di forza su cui lavorare.

Se il problema, per la sinistra, è quello di una vera e propria ricostruzione, se non si tratta di piccoli aggiustamenti, ma di una strategia che è tutta da costruire, dobbiamo saperci muovere in tutte le direzioni, in tutti gli spazi della società, in tutto il tessuto istituzionale. La strategia è la capacità di accumulare forza, di spostare i rapporti di potere, di creare le basi e le condizioni per una funzione egemone nella vita democratica del Paese.

È un’azione che si svolge su diversi terreni: quello culturale e ideologico, quello sociale, quello istituzionale, avendo chiara la linea di marcia, avendo chiaro il progetto, il modello di società, il modo in cui stiamo nel mondo, nell’economia globale, nei conflitti sociali che sono aperti. Non ci può essere, in questo lavoro di così ampia portata, un dentro e un fuori. Se l’obiettivo è, in prospettiva, una nuova funzione egemonica della sinistra, dobbiamo muoverei in modo da occupare il centro della scena, non rincorrendo il moderatismo centrista, ma con un progetto politico capace di parlare a tutto il Paese. È un’illusione? Forse, ma delle illusioni, come ci insegna Leopardi, si nutre la nostra vita. D’altra parte, non vedo altre strade più facili, più veloci, non vedo scorciatoie, non vedo rivolgimenti all’orizzonte. Vedo l’immensa fatica che è necessaria per rimettere insieme un progetto politico, per ricostruire un linguaggio, una coscienza comune, un’identità collettiva.


Numero progressivo: H21
Busta: 8
Estremi cronologici: 2011, dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Alternativa per il socialismo”, dicembre 2011, pp. 163-169