MA LA POLITICA NON DEVE ARRETRARE

di Riccardo Terzi

Con i due saggi di Giancarlo Bosetti e di Barrington Moore, è stata posta la questione del “limite” della politica.

Se la politica è troppo pervasiva – questa è la tesi -, se essa investe l’intero spazio dell’azione pubblica, allora la democrazia si inceppa perché la posta in gioco della competizione politica diviene eccessivamente alta, e di conseguenza si crea una conflittualità sregolata, distruttiva.

La conclusione provocatoria è che «in democrazia le questioni politiche devono essere un po’ banali».

Io dubito che le cose stiano esattamente in questi termini, e mi sembra utile prendere in considerazione altri possibili punti di osservazione.

Bisognerebbe in primo luogo distinguere tra politicità e partiticità, tra la sfera della politica come luogo del confronto pubblico e della scelta consapevole tra diverse possibili opzioni, e la sfera dell’organizzazione dei partiti.

Tra queste due sfere non c’è una corrispondenza diretta, e può anzi accadere che la politica decade proprio perché gli strumenti partitici ne hanno ostruito lo sviluppo.

Così è stato in Italia nella fase della degenerazione partitocratica, la quale ha significato una dilatazione del dominio burocratico, del controllo delle oligarchie di partito sulla società, e nello stesso tempo una sclerosi della politica, un offuscamento del suo significato come luogo di una libera scelta intorno ai fini dello sviluppo sociale.

Ne è derivata una violenta conflittualità sul terreno ristretto dell’occupazione del potere, del controllo delle leve di comando. In questo caso, si può forse dire che la politica si e alimentata di eccessive ambizioni? Al contrario, il conflitto era tutto interno ad un determinato sistema di potere, alle sue regole, ai suoi equilibri consolidati, e proprio per questa sua ristrettezza di orizzonte esso veniva giocato con la massima spregiudicatezza, sconfinando nell’uso sistematico dell’illegalità. Questo è stato il senso storico del craxismo, che ha segnato con la sua impronta tutto il decennio politico degli anni ottanta. Il craxismo non è stato una concezione alta della politica, al contrario esso ha rappresentato l’estremo realismo che si appiattisce sull’esistente e che considera quindi la politica come l’esercizio di una tecnica da applicare dentro un equilibrio di forze che è dato e dentro i vincoli non modificabili di una determinata struttura sociale.

La partitocrazia in Italia è nata così, non sul terreno di grandi progetti di trasformazione, ma su quello assai più angusto e banale di una competizione finalizzata esclusivamente all’esercizio del potere. La partitocrazia è nata nel momento in cui la politica è morta.

Se i partiti politici non sono portatori di progetti tra loro alternativi, se la loro azione non è “finalizzata”, adeguata cioè al raggiungimento di determinati fini, allora la politica inevitabilmente degenera perché essa diviene solo l’affare privato delle burocrazie. La democrazia ha bisogno di differenze visibili, di alternative, di competizione tra diversi programmi. La divaricazione tra i partiti deve però stare dentro una certa soglia, e la democrazia dell’alternanza è possibile in quanto c’è un insieme di valori condivisi, c’è una base costituzionale comune che non viene messa in discussione. In questo contesto, l’opposizione ha una sua legittimazione politica nell’ambito del sistema, proprio in quanto non è portatrice di una proposta di sovversione del sistema.

Ma oggi, nelle condizioni concrete delle nostre società, dopo il tramonto delle grandi ideologie e dei grandi messaggi profetici, dopo che sono venute meno le basi politiche e ideologiche per le forze anti sistema, il rischio più serio è quello di un eccesso di omologazione e di indifferenziazione. Le società dell’occidente rischiano di imboccare, come ha scritto Habermas su Reset, la strada di un futuro senza politica, il che significa senza alternative, senza libertà di scelta, senza possibilità di padroneggiare il proprio destino. «Si delinea la prospettiva di un mondo post politico, che tende sempre più ad affrancare i cittadini dal legame della solidarietà statale lasciandoli nel viluppo indipanabile di reti e sistemi che fluttuano liberamente: Abbandonati in tal modo a se stessi, i singoli individui devono trovare la propria strada nei meandri dei processi a regolazione spontanea di una società globale destabilizzata» (Reset, marzo ‘96).

Se guardiamo alla sostanza profonda degli attuali rapporti tra politica e società, tra politica ed economia, è del tutto evidente che è la politica ad avere perso terreno, in quanto non dispone più di efficaci strumenti di governo e di regolazione e i processi di mondializzazione dell’economia sfuggono del tutto alle sue possibilità di controllo. Porre oggi il problema di un «arretramento» della politica significa sbagliare bersaglio, perché un tale arretramento è già in atto, e ciò significa non un processo di liberazione, di autonomia della società civile, ma la costrizione dentro vincoli oggettivi sui quali non possiamo esercitare nessuna influenza.

Occorre quindi ricostruire lo spazio della politica, ridefinire cioè le forme e gli strumenti della sovranità democratica. Questo è il tema centrale di questa fase di transizione. L’idea di una “seconda Repubblica” da costruire rappresenta appunto, nella sua sostanza positiva, l’esigenza di una democrazia che funzioni e che restituisca ai cittadini il diritto di scelta. Nuove istituzioni, sistema politico bipolare, democrazia dell’alternanza: si tratta di passaggi, ancora tutt’altro che realizzati, che tendono a restituire significato alla sfera politica, a ristabilire le condizioni di una effettiva sovranità. Dobbiamo guardarci, in questo difficile passaggio, da molti venditori di fumo e da molte mistificazioni demagogiche che sono oggi in circolazione. Ma il tema è questo: la politica come esercizio di sovranità. La novità può consistere non solo in una riforma, sicuramente necessaria, del sistema dei partiti, ma nel riconoscimento una politicità diffusa, che investe i diversi soggetti sociali, le diverse forme di organizzazione collettiva, rifiutando così di riprodurre un meccanismo di delega totale ai partiti. E soprattutto, nel ridisegno dell’architettura istituzionale, occorre garantire un sistema efficace di contrappesi, per impedire la concentrazione di tutto il potere decisionale in un solo punto. Penso che la garanzia fondamentale vada ricercata in un pluralismo istituzionale, in una “poliarchia”, in un sistema di divisione e di articolazione della responsabilità politica. In questo quadro hanno sicuramente una funzione importante anche i poteri neutrali, le autorità super partes, il cui ambito di azione è sottratto alla competizione politica. Bosetti insiste molto su questo punto, fino a configurare un modello generale di funzionamento della società nel quale si attua un «trasferimento di poteri dal campo di azione della politica al campo di azione della responsabilità sociale, professionale, individuale, scientifica, tecnica ed etica».

È questa generalizzazione che non mi convince, perché torniamo così all’ipotesi, di un «futuro senza politica» nel quale si afferma nei diversi campi una sorta di oggettività e di neutralità tecnica delle scelte. Non mi sembra una prospettiva auspicabile perché essa significherebbe un dominio di poteri incontrollati, irresponsabili, e la riduzione della democrazia politica ad una cerimonia priva di effetto.

Occorre dunque vedere bene in quali campi e dentro quali limiti, necessariamente ristretti, può funzionare la logica di un potere «terzo››, neutrale. Se questi limiti si allargano oltre misura, allora è tutta la nostra prospettiva politica che muta di senso: la neutralità tecnica delle scelte significa sul piano politico il dominio del centro, il centro come luogo dell’oggettività che si contrappone ai soggettivismi di parte, mentre un sistema bipolare, una democrazia dell’alternanza, presuppone la politicità delle scelte, e quindi l’apertura di reali alternative.

Il problema del “limite” della politica può allora essere ricondotto a questi significati:

a) non ci può essere un potere illimitato, ma è necessario un bilanciamento dei poteri;

b) vanno delimitate le funzioni dei partiti politici, che sono un elemento importante ma non esclusivo della vita democratica;

c) la politica deve tornare con i piedi per terra e non pretendere di essere depositaria di verità assolute e metastoriche, il che comporta una deideologizzazione del conflitto politico, il cui campo d’azione è il campo del relativo, del contingente, e deve ammettere una permanente possibilità di verifica pratica e di correzione.

Il limite della politica costituisce quindi una sua interna esigenza di riforma e di razionalità. Ma è illusorio pensare che oltre la politica, o contro la politica, si apra il territorio della libertà.


Numero progressivo: H68
Busta: 8
Estremi cronologici: 1996, aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Reset”, aprile 1996, pp. 20-22