L’ORRORE DELL’ALTERNANZA

La questione Berlinguer

Scritto di Petruccioli, in cui riporta un suo ricordo della riunione del C.C. del 3/7/1979 in cui Terzi prese posizione contro Berlinguer.

La cortesia di Luigi Covatta lo ha indotto a chiedermi se poteva riprendere su Mondoperaio un mio articolo pubblicato da Europa il 7 giugno. Quell’articolo mi era stato sollecitato dal quotidiano diretto da Stefano Menichini nel trentennale della morte di Enrico Berlinguer. Sono stato incerto se impegnarmi in un compito così difficile e delicato; tanto che ho chiesto un po’ di tempo per decidere se accettare la richiesta. Mentre riflettevo, mi è tornato in mente che fra le varie cose che vado scrivendo da tempo, con l’intento di capire e valutare meglio le vicende di cui sono stato testimone e che mi hanno coinvolto, c’era la ricostruzione di un episodio preciso e – a mio avviso – importante che poteva fornirmi il materiale per l’articolo che mi era stato chiesto. Gli ho perciò risposto che per la sua rivista la pubblicazione di quello scritto poteva essere preferibile alla semplice riproduzione di un testo già noto; e lui ha convenuto. Ecco, dunque, la ricostruzione più dettagliata dell’episodio che ho ricordato nell’articolo pubblicato da Europa. Lo si potrebbe considerare un capitolo di un lavoro sulla storia del PCI con particolare riferimento al tema della “sinistra di governo”; un lavoro al quale da tempo mi dedico ma che non ho ancora chiaro a quale esito possa portare

La sera del 3 luglio 1979, un caldo lunedì, il salone del quinto piano di Botteghe Oscure è gremito; si riunisce il Comitato centrale del PCI. Quando – raramente – avviene che il CC inizi i suoi lavori di sera, è il segno che la “sessione” (questo il termine “canonico” che si usava) si presenta particolarmente importante e impegnativa. Il “rapporto” introduttivo deve essere in questi casi il più possibile esauriente, quindi inevitabilmente lungo; ed è anche bene che quanti poi interverranno abbiano tempo per rifletterci su. La notte, si sa, porta consiglio.

Questa, infatti, non è una riunione “normale”: non manca certo la materia per discutere. Esattamente un mese prima, il 3 giugno, concluso il triennio della solidarietà nazionale, un anno dopo il rapimento e l’assassinio di Moro, c’erano state le elezioni politiche anticipate. Rispetto al 1976, l’anno del grande balzo, il PCI aveva perso quattro punti percentuali (dal 34,37 al 30,38) e un milione e mezzo di voti (11.139.231 contro 12.615.670).

Già la lunghezza della relazione rende evidente il rilievo dell’appuntamento: 75 cartelle dattiloscritte, come preciserà l’Unità, che pubblica il giorno dopo il testo integrale, e come risulta dagli archivi. Altrettanto significativa è la durata del dibattito: tre intere giornate. Berlinguer replicherà giovedì «a tarda ora» (ancora l’Unità) e il testo del suo discorso sarà pubblicato sul giornale di sabato.

Il tempo trascorso dal voto non è stato breve: un mese è un intervallo non usuale, anche se appena una settimana dopo il voto del 3 giugno gli italiani erano stati di nuovo chiamati alle urne per eleggere i loro rappresentanti, questa volta non al Parlamento nazionale ma a quello europeo[1]. È perciò comprensibile che Berlinguer prenda le mosse proprio dal tempo trascorso prima di riunire il CC, con una osservazione che suona anche giustificazione: «Non aver convocato il CC immediatamente dopo l’esito delle varie elezioni ha comportato qualche inconveniente e lo si è visto. Ritengo tuttavia che prevalgano i vantaggi di aver lasciato trascorrere un congruo lasso di tempo perché l’esame nostro possa avvenire così con maggiore freddezza e riflessività».

Non aggiunge che quell’intervallo di tempo è servito anche a verificare l’orientamento e la tenuta unitaria del gruppo dirigente più ristretto, quello che si ritrova nella Direzione[2]. Della Direzione, dopo il voto, nel mese di giugno si svolgono due riunioni. I verbali danno conto di una discussione vivace ma dagli esiti rassicuranti; cosicché Berlinguer può raccogliere tutte le osservazioni e concludere con un appello all’unità “sui capisaldi della nostra strategia[3].

A lui interessa che non sia messa in discussione la strategia della “unità democratica”; la ripropone, praticamente alla lettera, negli stessi termini che aveva usato sei anni prima, a seguito del golpe in Cile, negli articoli pubblicati su Rinascita. Vuole tenere assolutamente fermo questo punto, e per farlo prende le mosse da un argomento “di principio”, quasi un postulato: «Mettere in cima alle nostre preoccupazioni politiche solo il momento del voto e i risultati elettorali, facendo dipendere da questi le scelte di linea e addirittura di strategia, significa ragionare da socialdemocratici. A questo modo si trascurano tutti gli altri momenti della lotta politica, sociale e ideale che caratterizzano la storia, la vita e i successi di un partito comunista come il nostro».

La svalutazione del «momento del voto» è assolutamente sorprendente e del tutto singolare nella tradizione del PCI; ancor più sorprendente dire che ragiona da socialdemocratico chi attribuisce un «peso eccessivo al voto» proprio al termine di un triennio iniziato nel segno di una straordinaria affermazione elettorale, tante volte e giustamente sottolineata ed enfatizzata. «Non diventeremo socialdemocratici» è il primo sottotitolo con il quale l’Unità “spezza” il lungo piombo della relazione; del tutto corrispondente, peraltro, al testo che segue: «Le socialdemocrazie, di per sé e da sole, non sono in grado non diciamo di dar luogo a soluzioni che vadano verso il socialismo, ma neppure costituiscono un argine valido ai ritorni conservatori e reazionari. A poco hanno servito e servono dunque le varie Bad Godesberg. E tuttavia qui da noi c’è un professor Bobbio (e con lui altri, meno dotati in filosofia) che continua imperterrito a sollecitarci a divenire un partito socialdemocratico. E questo ancora dopo che le elezioni europee, se di una cosa ci hanno ancor più convinto, è proprio quella della importanza per l’Italia e per l’Europa dell’esistenza e della funzione peculiare di un partito comunista come il nostro».

È dunque questo il punto: la natura stessa del partito. Berlinguer intende fissarla con grande nettezza, fino a vedere uno slittamento verso approdi socialdemocratici nella sopravvalutazione del momento del voto e dei risultati che in esso si raggiungono. Il dibattito si dipana – come ho già detto – per tre giorni. Gli interventi sono 75 (lo stesso numero delle cartelle della relazione: quasi un “mantra”). Tutti – ovviamente – si mostrano consapevoli della portata dell’insuccesso; tutti si esercitano in una riflessione “critica e autocritica” con toni in genere sinceri e talvolta perfino spietati. Quanto alle cause, ciascuno le indica e le mette in evidenza secondo le proprie sensibilità e inclinazioni: si è andati troppo lenti; no, troppo veloci. Si è puntato troppo sul risanamento, poco sulla trasformazione; le esigenze dell’unità hanno fatto scomparire le ragioni della competizione e del contrasto; ci sono stati gli attacchi degli altri ma anche gli errori nostri, le difficoltà oggettive ma anche i ritardi soggettivi; ritardi nel promuovere movimenti e lotte, ma anche nel definire programmi. E così via.

Nessuno, però, mette in discussione i “capisaldi della linea esposta e riproposta con la massima determinazione nella relazione. Con una sola eccezione: Riccardo Terzi, all’epoca segretario della federazione di Milano. L’avvio del suo intervento è una scossa, il suo argomentare pacato risulta sferzante nel contenuto: «È necessario, io credo, suscitare nel partito il necessario allarme per i risultati elettorali, e questo non è stato fatto ancora nella misura necessaria; e affiora, in alcuni settori del partito, un atteggiamento di giustificazionismo difensivo che mi pare essere il pericolo maggiore»[4].

«Non è stato fatto ancora»: dunque neppure nella relazione era stato individuato e denunciato con la dovuta forza il “pericolo maggiore”. Ce n’è già a sufficienza per capire che non è soddisfatto del modo in cui ha presentato le cose Berlinguer. Terzi non vuole però limitarsi alle allusioni e ai discorsi indiretti, che risultano tuttavia chiarissimi alle orecchie esperte dei presenti in sala. Continua e cancella ogni possibile dubbio: «Non mi sembra pertanto né opportuno né educativo per il partito tacciare di mentalità socialdemocratica chi cerca di trarre dall’analisi del voto una riflessione che affronti anche esplicitamente le questioni di linea politica, che prenda in considerazione le ipotesi di correzione e di svolgimenti nuovi».

Non credo che, nella lunga storia del PCI, pur segnata da momenti aspri e drammatici di scontro politico, siano state molte le occasioni nelle quali gli argomenti esposti dal segretario nella relazione siano stati contestati e criticati in modo altrettanto esplicito e diretto. E non su un punto marginale, secondario: bensì sul cardine posto a fondamento di tutto il ragionamento. E poi, quel “né educativo per il partito”! Immagino quale dev’esser stato il disappunto di Berlinguer nel sentire quelle parole rivolte a lui, lì, davanti al Comitato centrale.

Terzi sviluppa il suo intervento con la clarté che gli è propria, in coerenza con l’enunciato iniziale: in modo assolutamente speculare rispetto alla coerenza della relazione. Solo che le rispettive coerenze si svolgono da due presupposti frontalmente contrapposti: «Si è via via determinato un logoramento crescente della politica di unità democratica […] La nostra riproposizione di un governo di unità nazionale non poteva che apparire debole, scarsamente credibile, dato che le condizioni politiche per poter realizzare questo obiettivo apparivano quanto mai remote e inattuali […] Come si può configurare, nelle condizioni attuali, la politica di solidarietà democratica? Io credo che dobbiamo distinguere con più nettezza l’ispirazione unitaria, la necessità di mantenere fra le grandi forze democratiche un quadro di solidarietà nella difesa del patrimonio comune, e la questione del governo e della sua composizione, sia a livello nazionale, sia nelle singole realtà locali. Non avere compiuto con sufficiente chiarezza questa distinzione ha ingenerato l’equivoco del regime[5] e ha portato alla conseguenza di offuscare il carattere del partito come forza alternativa (anche qui Berlinguer deve aver avuto un sobbalzo, n.d.r.). Credo che ciò sia anche il risultato di semplificazioni riduttive, di applicazioni della nostra linea che avevano come punto di riferimento essenziale, e talora esclusivo, il rapporto con la Democrazia Cristiana. Credo dunque sia necessaria una rettifica di linea […] L’ anello fondamentale su cui far leva è, a mio avviso, la costruzione di un nuovo tessuto unitario della sinistra; non nel senso di un ribaltamento brusco della nostra linea generale, ma come condizione essenziale perché la stessa politica di unità democratica possa riprendere slancio […] Io mi domando che senso abbia continuare a trattare con fastidio, con insofferenza e con diffidenza il tema dell’alternativa e dell’unità della sinistra […] L’obiettivo di una nuova aggregazione della sinistra, e più in generale delle forze laiche e democratiche, è, a me pare, la risposta pertinente ai risultati elettorali […] che riapra all’interno del Partito socialista un confronto fecondo che limiti i margini di manovra del gruppo dirigente craxiano […] Mi pare che il passaggio all’opposizione sia un passaggio obbligato e – insieme – un passaggio non risolutivo; che anzi possa verificarsi un arretramento, un abbandono nella pratica della visione di governo. L’opposizione non è una linea politica e, presa in se stessa non dà alcuna indicazione al partito […] Vi è il piano della prospettiva politica […] Come far maturare le condizioni di una alternativa politica».

Ce n’era abbastanza: una contestazione complessiva non solo della condotta seguita, ma di quella che si definiva la “linea” o addirittura la “strategia” esposta e difesa nella relazione. Svolta, per di più, da parte non di qualche avversario “storico” del segretario, portatore di istanze conservatrici e settarie, o di qualcun altro perennemente in bilico sul versante “di destra”: ma ad opera di uno dei dirigenti più giovani e apprezzati, alla testa di una organizzazione importante come quella di Milano, il quale a molti, e da molti segni, appariva addirittura come un “pupillo” di Berlinguer. Era stato lui a osare, a rivolgere al segretario nazionale critiche di astrattezza e chiusura politica: critiche che, di solito, era il segretario stesso a rivolgere ai quadri e al partito.

La risposta non poteva mancare e Berlinguer tornò ampiamente sul tema nella replica; lo fece in un modo così esplicito e netto che – a distanza di tanti anni – mi sembra ancora straordinariamente significativo, in quanto rivela in modo clamoroso l’irrisolto nucleo problematico che egli ha lasciato a quanti sono venuti dopo di lui. «In qualche intervento – scrive il resoconto de L’Unità, senza fare nomi, come da prassi: ma nella sala del V piano il nome di Terzi nelle conclusioni fu fatto e non una sola volta – è stato posto in realtà un problema non di parole ma di sostanza, di cambiamento di strategia; di sostituire, cioè, a una politica di solidarietà democratica, che faccia i conti in positivo anche con le forze popolari della DC, una politica di alternativa di sinistra”.»

Berlinguer oppone a questa richiesta una serie di dati di fatto: la forza della DC (il 38 per cento), la presenza nella DC di «aderenti ed elettori di carattere popolare e operaio», l’orientamento «più aperto di una parte dei suoi iscritti e quadri»; tutti elementi che richiedono una iniziativa verso quel partito. Aggiunge poi che «non ci sono discussioni tra di noi sulla necessità di una politica più attiva per l’unità delle forze di sinistra, in modo particolare tra PCI e PSI»; ma precisa che pur rimanendo un obiettivo del PCI la conquista della maggioranza dell’elettorato alle forze di sinistra, tenuto conto anche dell’orientamento prevalente nel Partito socialista «la prospettiva dell’alternativa a sinistra non è alle porte».

La conclusione è chiara; e gli argomenti portati da Berlinguer, i dati di fatto che elenca, sono tutt’altro che peregrini. La dimostrazione della inattualità e inattuabilità della “alternativa” sembra così conclusa; invece il bello, l’essenziale, deve ancora arrivare. «C’è anche un altro argomento da considerare», continua: «Se decidessimo di puntare su una tale soluzione (l’alternativa di sinistra) e facessimo una precisa proposta al PSI in tal senso, la conseguenza immediata e sicura sarebbe una serie di richieste incalzanti da parte dei socialisti nei nostri confronti per farci spostare, passo dietro passo, dalle nostre posizioni politiche e ideali e finire su un terreno – diciamolo pure – socialdemocratico. Ma se ci muovessimo davvero in questa direzione, il PCI perderebbe ogni sua autonomia ideale e politica, cancellerebbe quella sua peculiarità che ne fa un partito che vuole lottare e lotta per il socialismo, anche se secondo una sua propria concezione e seguendo una sua propria via. Tutto questo non significa disprezzare le socialdemocrazie: esse sono una realtà con la quale riteniamo indispensabile una politica di unità e d’intesa; e ripetiamo che noi vogliamo studiare meglio le loro esperienze, positive e negative. Ma le socialdemocrazie sono una cosa, noi un’altra; e così dobbiamo restare, sviluppando certo la nostra elaborazione, ma sempre nell’ambito di un orientamento non socialdemocratico, ma comunista; che è questo attorno al quale, non certo per caso, si è raccolto e si raccoglie così gran parte delle masse lavoratrici e operaie in Italia. Come si vede, nelle concrete condizioni italiane, una linea che punti all’alternativa di sinistra, a parte la sua improbabilità effettiva, non porterebbe il movimento operaio, le sue lotte, i suoi orientamenti su un terreno più avanzato.»

A mia memoria non esiste un altro testo nel quale Berlinguer esponga in modo altrettanto limpido, perentorio e definitivo le ragioni di fondo per cui egli respinge la strategia dell’alternativa di sinistra, e – implicitamente ma necessariamente – l’idea stessa di una alternativa che comporti alternanza e reversibilità nel governo del paese. Il PCI è sì “partito di governo”, ma solo aggregato con l’altro grande partito, che si considera ed è considerato a lui contrapposto, in un costante, potremmo dire perpetuo, “braccio di ferro”. Il motivo è dichiarato: solo così il PCI può difendere la propria identità e la propria missione, che sono l’essenziale. Così, dopo il più impegnativo e prolungato tentativo di portare il PCI nel governo del paese, Berlinguer conclude dichiarando la incompatibilità del suo partito, della sua natura, della sua autonomia con la possibilità stessa di accedere al governo attraverso una competizione aperta e alternativa. Questo dato, prima ancora delle difficoltà e delle ostilità nel rapporto con il PSI e con Craxi, è all’origine dell’impasse nel quale si trovò il leader del PCI negli ultimi anni della sua lotta.

Con il trascorrere del tempo furono rivolte a Berlinguer critiche – ad esempio quelle esposte nell’articolo di Giorgio Napolitano dell’agosto 1981 – svolte in nome di Togliatti e della sua strategia. Ma la visione che ispira il “compromesso storico” ricalca e ribadisce nella sostanza la storica linea togliattiana della unità nazionale e della “democrazia progressiva”. In quelle critiche non emergeva il punto decisivo; non potevano avere, perciò, effetto politico, se non alimentando il mugugno e la fronda. La pretesa di contrapporre Togliatti a Berlinguer, sia pure quello dell’ultima fase, non ha fondamento. La differenza fra i due è – semmai – nel fatto che Togliatti non ha avuto l’occasione di cimentarsi concretamente con l’obiettivo che perseguiva, obiettivo che al momento della sua scomparsa si collocava ancora in un ipotetico futuro. Berlinguer, invece, visse tre anni di faticosa e drammatica sperimentazione, al termine dei quali era obbligatorio un bilancio. Le possibili risposte erano solo due: confermare la priorità strategica del partito, della sua natura, della sua missione; o decidere di impiegarne le risorse, l’esperienza, la forza, per dotare l’Italia e la sua democrazia di quello che non aveva mai avuto, una sinistra di governo[6].

Una sinistra, cioè, capace di pensarsi e costruirsi come maggioritaria; di avere quindi un’idea del governare assai diversa da quella che se ne ha quando si pensa a una sinistra con una forza consistente, anche molto consistente e tuttavia minoritaria, che – in ambito democratico, ovviamente – può governare solo in combinazione con altre forze; una sinistra che non si propone di “fare maggioranza” con altri per tutelare in se stessa i tratti che la rendono minoritaria, ma che si pensa e agisce come sinistra tale da poter raccogliere la maggioranza. Due posizioni, due prospettive profondamente diverse una dall’altra.

Berlinguer espose la sua scelta senza reticenze e doppiezze, con assoluta onestà; confermò la linea degli articoli sul “compromesso storico” e insieme, il nucleo permanente del togliattismo, del tutto estraneo ad una idea di “sinistra di governo”. Questo il punto al quale arrivò, tanto chiaro quanto non conclusivo; e che non fosse conclusivo penso ne sia stato anche lui consapevole. Un partito che aveva raccolto oltre un terzo dei consensi elettorali – e che per tre anni si era proposto con tanta forza e determinazione di partecipare al governo della nazione – non poteva infatti considerare conclusiva, né a lungo sostenibile, una posizione che dichiarava l’inconciliabilità fra la sua propria natura e la nascita di una sinistra di governo. A rifletterci bene, il suo “no” può essere letto anche come un grande riconoscimento al PSI e alle socialdemocrazie in generale. Dire che il PCI può collaborare, avere convergenze con quelle forze; ma aggiungere che volendo salvaguardare la propria diversità e originalità non può assumere la logica di una alleanza con loro per governare, perché entro quella logica gli verrebbero dal partner socialista richieste che finirebbero per snaturarlo, significa ammettere implicitamente l’impossibilità di respingere quelle richieste con argomenti convincenti.

Gli ultimi anni di Berlinguer furono segnati dall’affanno intorno a questo problema, che il fallimento (se si preferisce, la conclusione) del “compromesso storico” imponeva alla riflessione e alle scelte del PCI. Egli lo lasciò irrisolto; è impossibile dire in quale direzione avrebbe cercato di uscire dall’impasse se non fosse morto: soprattutto di fronte al disfacimento del “comunismo reale” che di lì a poco sarebbe esploso. Certo è, invece, che il lungo e tortuoso cammino per immaginare, pensare, costruire una sinistra di governo per molti di noi comincia di lì; conclusa l’esperienza della “solidarietà nazionale” e di fronte a un non possumus tanto sincero e onesto quanto insostenibile.

Confermo: «È impossibile dire in quale direzione avrebbe cercato di uscire dall’impasse se non fosse morto». Dispongo però di un indizio che metto a disposizione dei lettori. Siamo alla fine di maggio del 1984 (si capirà da quel che segue perché posso dirlo con certezza). Incrociai Berlinguer in un transatlantico deserto; la Camera non lavorava, forse perché era un lunedì o un venerdì, o forse l’attività era sospesa per la fase finale della campagna elettorale europea. Non ricordo ci fossero altri oltre noi due in quello spreco di spazio. Procedeva, da solo, con gli abiti del consueto colore grigio e blu, la consueta curvatura (che non coinvolgeva, però, la testa, ben eretta), con l’abituale pacco di carte e giornali sotto il braccio sinistro, così voluminoso e pesante da richiedere, per sostenerlo, l’ausilio della mano destra. Ci salutammo e procedemmo ciascuno nella sua direzione; ma, fatti pochi passi, mi richiamò, come uno cui è tornata in mente una cosa: «Ah, senti, voglio parlarti un momento». Mi fermai, mi girai e andai verso di lui, chiedendomi di cosa potesse trattarsi.

La risposta mi venne subito. Su Rinascita datata 18 maggio (ecco perché riesco a indicare con precisione i giorni di quell’incontro) era uscito un mio articolo a commento del congresso di Verona del PSI: quello dei fischi, per intenderci. Avevo assistito a quel congresso, come a tutti quelli dell’era craxiana (tranne l’ultimo, a Bari), e come per tutti gli altri ne avevo scritto. Di solito si trattava di commenti, di riflessioni, più che di cronache; a maggior ragione questa volta, visto che mi ospitava non il quotidiano ma il settimanale. Anche per questo motivo non mi ero soffermato sulla fischiata che aveva accolto il segretario del PCI quando entrò nel grande catino della Fiera, né sul modo come Craxi ci era tornato sopra, per sottolineare che lui non aveva partecipato a quell’accoglienza solo perché non sapeva fischiare[7]. L’episodio aveva già avuto enorme risonanza e acceso aspre polemiche; mi sembrava non ci fosse bisogno di rimestare; e poi mi importava parlare di altro. Già al momento di consegnare l’articolo mi ero chiesto se la mia non sarebbe sembrata una colpevole trascuratezza, ma lasciai tutto com’era.

Mentre ci avviavamo verso uno dei divani del transatlantico, tutti perfettamente liberi, pensavo: «Mi dirà che considera un errore non aver dato rilievo al modo in cui è stato accolto dalla platea di Verona; non perché ne sia stato personalmente coinvolto, ma per il significato politico di quanto è accaduto. Gli risponderò che ha ragione, ma che io volevo attirare l’attenzione su altri aspetti di quel congresso che mi erano parsi molto significativi».

Ci sedemmo; lui disse: «Ho letto il tuo articolo su Rinascita». Eccolo, pensai; e aspettavo il seguito secondo la previsione che avevo fatto. Invece, con mia sorpresa, Berlinguer continuò in tutt’altro modo: «Mi sembra giusta la tua analisi. È così: il PSI rifiuta ormai la tradizionale sintassi della politica italiana, la considera esaurita, cerca di definirne e affermarne un’altra diversa». Usò la parola “sintassi”, la stessa che compariva nel mio articolo, dove si legge: «Qualcuno ha parlato, negli ultimi tempi, di mutamento genetico del PSI. La mia impressione è che, piuttosto, il PSI interpreti e cerchi di promuovere, oggi, una sorta di mutazione genetica della politica. Dalla fondazione della Repubblica in qua pur in presenza di divisioni profonde e di aspre lotte tutti o quasi i partiti, e senza dubbio i maggiori, hanno adoperato una comune sintassi politica […] Con il congresso di Verona si ha l’impressione che il PSI sia uscito o, almeno, voglia uscire da quella sintassi […] Bettino Craxi è l’interprete più limpido e – credo – anche più consapevole, di questa rottura, il cui significato e le cui implicazioni sono più ampie di quelle che possono riguardare un singolo partito».

Si soffermò, sul punto, aggiungendo ai miei nuovi argomenti che lo confermavano e ribadivano. Poi andò oltre: e lì la mia sorpresa e il mio interesse crebbero, si tesero: «Il fatto è che è vero, le cose stanno proprio così: quella sintassi per tanti motivi, non funziona più. È un dato oggettivo con cui bisogna fare i conti; dovremo farli anche noi. Sarà un lavoro difficile ma ormai è chiaro che dobbiamo affrontarlo senza perdere tempo; il problema è reale, e noi dobbiamo cercarne e trovarne le soluzioni. Certo, diverse da quelle di Craxi». E rischiarò queste ultime parole con uno di quei suoi sorrisi fugaci e ammiccanti.

Il colloquio – dieci minuti o anche meno – era finito. Ci alzammo e ci avviammo ognuno per la sua strada. Rimuginavo su quanto avevo appena sentito; erano parole importanti, per certi aspetti sorprendenti. Anche se, a ridimensionare la sorpresa, mi tornò in mente l’effetto che mi aveva fatto, quasi tre anni prima (luglio 1981), la lettura della famosa intervista sulla “questione morale”. Quando la lessi la mia reazione fu netta, e non riguardava il tema per cui quel testo è passato alla storia. Se le cose stanno così, come le analizza Berlinguer – mi dissi – allora non si tratta solo di progettare novità politiche; si deve pensare ad una diversa Repubblica. Andava risanata e bonificata quella che Pietro Scoppola, anni dopo, avrebbe definito La Repubblica dei partiti. Un indizio, solo un indizio, che non consente certo di ipotizzare in quale direzione Berlinguer avrebbe cercato le risposte. Le domande che aveva in testa, però, erano quelle: che mi trasmise in un transatlantico deserto nel nostro ultimo incontro. Quindici giorni dopo, a Padova, schiantò.

[1] Una coincidenza di elezioni legislative ed europee nello stesso anno, ma con un intervallo di tempo maggiore – da marzo a giugno – la si ritrova solo un’altra volta nella storia elettorale della Repubblica: nel 1994, quindici anni dopo.

[2] La Direzione con Berlinguer è ancora un organismo ristretto; sia pure non così ristretto come con Togliatti, quando superava di poco le 20 unità. La Direzione uscita dal XV Congresso, nell’aprile del 1979, comprendeva 33 persone.

[3] Traggo l’informazione (e anche il giudizio) da Francesco Barbagallo il quale ricostruisce con precisione e ricchezza di dettagli le due riunioni della Direzione (F. BARBAGALLO, Enrico Berlinguer Ed Carocci pagg. 350-353

[4] Le citazioni dall’intervento di Terzi sono tratte da una raccolta dei suoi scritti dal 1982 al 2010 dal titolo La pazienza e l’ironia (Ediesse 2011). Il testo di questo intervento è stato tratto dalle bobine di registrazione e rivisto prima della pubblicazione dall’autore, come lui stesso mi ha dichiarato. A rigore il testo – del 1979 – non rientra nel periodo indicato sulla copertina. È pubblicato, infatti, in Appendice (pp 295-301). A dimostrazione, penso, della importanza che l’autore stesso, pur a distanza di tanti anni – attribuisce a quel suo intervento.

[5] Nella relazione Berlinguer aveva indicato nella “insistita e pretestuosa campagna sul rischio che le maggioranze di solidarietà democratica sfociassero in una sorta di regime una delle cause delle difficoltà politiche e del cattivo risultato elettorale del PCI. A questo si riferisce qui Terzi.

[6] In termini più “politici” e meno “storico-ideologici” è lo stesso dilemma che si pose nel ‘56 di fronte alla invasione e alla repressione in Ungheria. Anche allora decise la volontà di salvaguardare e riaffermare la natura, la missione, il primato del partito

[7] Quell’evento è raccontato da Francesco Piccolo (Il desiderio di essere come tutti, Einaudi 2013) non solo con maestria narrativa ma anche con assoluta precisione documentaria e grande forza icastica.



Numero progressivo: H16bis
Busta: 8
Estremi cronologici: 2014, luglio-agosto
Autore: Claudio Petruccioli
Descrizione fisica: Pdf rivista e stampa da file PC
Tipo: Relativi a Terzi
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Note: Bozza
Pubblicazione: “Mondoperaio” n. 7/8 2014. Rappresenta una versione estesa dell’articolo di Petruccioli Enrico Berlinguer, o l’identità o il governo pubblicato su “Europa online”