LAVORO E POLITICA

Convegno CRS, marzo 2008

Scritto di Riccardo Terzi per convegno CRS Marzo 2008

Lavoro e politica: in questa connessione sta l’essenziale ragion d’essere della sinistra. O, per meglio dire, delle diverse possibili sinistre, di ispirazione socialista o di ispirazione cristiana, le quali si differenziano per le modalità in cui il tema del lavoro può essere declinato, ma ne condividono la centralità e su di essa fondano il proprio discorso.

Il rapporto tra lavoro e politica va inteso nelle due direzioni. Nel primo senso, la politica ha le sue radici nel lavoro, ovvero nella concretezza dei rapporti sociali che danno senso e spessore materiale all’esistenza individuale. La novità delle moderne costituzioni democratiche, a partire da quella italiana, sta nel pensare il cittadino non nella sua astrazione giuridica, ma come un soggetto che si realizza nel processo produttivo, e qui trova la sua identità determinata e concreta. Viene così superato il vecchio orizzonte del pensiero liberale, e la cittadinanza si definisce come cittadinanza sociale.

Ed è in questo passaggio che vengono necessariamente alla luce le condizioni oggettive di disuguaglianza e si impone quindi la necessità di superarle. Il lavoro è organizzato secondo rapporti asimmetrici di potere, di controllo, di conoscenza, ed esso quindi esprime una permanente tensione conflittuale, tra ciò che può essere, come realizzazione di sé, e ciò che nelle condizioni date si riduce spesso ad essere, come rapporto di totale subordinazione.

La politica che pensa se stessa a partire dal lavoro si configura perciò come una politica di promozione sociale, che prende sul serio il dettato costituzionale sulla rimozione degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dell’eguaglianza e all’attuazione dei diritti universali di cittadinanza.

Il secondo movimento è dal lavoro alla politica, nel senso che il lavoro, organizzato attraverso le sue rappresentanze, deve avere accesso alle decisioni della politica. Qui sono in gioco le forme e le procedure del processo democratico, se cioè la democrazia è socialmente neutra, o se essa si propone di investire anche il campo dell’economia e dei rapporti sociali, se la democrazia diviene così un processo di riappropriazione sociale che restituisce alla volontà collettiva le decisioni strategiche da cui dipende il nostro futuro. Se questo movimento di espansione della democrazia viene inceppato, le rappresentanze sociali vengono spinte verso una dimensione solo corporativa, che resta al di qua della politica. C’è sempre un nesso assai stretto tra conservatorismo politico e corporativizzazione sociale, ed è proprio questo nesso, questa complicità, che la sinistra deve far saltare.

Ho delineato fin qui un impianto teorico che è tutto interno al nostro ordinamento costituzionale. Ma è proprio questo impianto che oggi viene messo, da varie parti, in discussione. Nel generale rifiuto di tutto il patrimonio ideologico del Novecento, tutto finisce per essere travolto, anche quel delicato equilibrio che si era costruito nel processo costituente. C’è stato, nel passaggio di secolo, un salto di egemonia, con il prevalere, nella coscienza collettiva, di una posizione neo-liberale, non sempre necessariamente reazionaria, ma pur sempre concentrata solo sul tema dei diritti e delle libertà individuali, mentre finisce nell’ombra ogni analisi del contesto sociale.

La politica, che era nata nella modernità accompagnando e rappresentando il grande conflitto sociale tra lavoro e capitale, con diversi approcci, antagonisti o collaborativi, riformisti o radicali, ora tende infine a disancorarsi da questo suo retroterra storico, e parla d’altro, parla un diverso linguaggio.

Guardiamo a come è cambiata in questi anni l’agenda politica. I temi che dividono e appassionano l’opinione pubblica sono i temi dell’etica individuale: famiglia, aborto, omosessualità, eutanasia. Se la Chiesa torna in campo, e combatte con durezza la sua battaglia per l’egemonia, ciò dipende anzitutto da questo spostamento dell’asse culturale. E la politica, per calcolo di opportunità e per convenienza elettorale, finisce inevitabilmente per assecondare l’invadenza della Chiesa e per riconoscerla come una superiore autorità nel campo dell’etica collettiva, che deve tenere unito il paese. Non nego, naturalmente, l’importanza anche di questi temi, ma mi importa segnalare il rovesciamento di prospettiva che si è prodotto, e che ha inciso anche sui comportamenti e sulle scelte delle forze di sinistra. Quando si dice che il nostro tempo è quello del tramonto delle ideologie, che è iniziata l’era post-ideologica, ciò significa soltanto che si considera ormai archiviata la rappresentazione novecentesca del conflitto sociale, con tutto ciò che essa aveva prodotto, di progettazione, di utopia rivoluzionaria, di slancio di solidarietà. La fine delle ideologie è il dominio dell’ideologia più dispotica, perché coincide con la realtà, è la realtà stessa che si afferma come valore assoluto. E in questo vuoto di progettazione e di pensiero non resta altro che occuparsi delle nostre private vicissitudini e dell’involucro morale che le deve regolare.

D’altra parte, è evidente che tutta l’analisi sociale deve essere oggi rinnovata e aggiornata, che siamo nel mezzo di una trasformazione che ha investito in profondità tutte le forme della nostra vita sociale. Vanno ridefinite le linee, le mappe del conflitto. Il tratto fondamentale di questa trasformazione mi pare stare nel fatto che il conflitto travalica i luoghi di lavoro e le forme classiche dell’antagonismo di classe, per investire l’intero sistema sociale, i suoi meccanismi di inclusione ed esclusione, i percorsi di vita delle persone, non solo nel lavoro, ma nell’accesso alle conoscenze, nei sistemi di welfare, dando luogo ad una divaricazione fortissima, e crescente, non solo nella distribuzione del reddito, ma nel destino delle persone. Per cui il tema diviene quello della precari età e della marginalità, di un meccanismo sociale che si è inceppato e che taglia fuori da ogni prospettiva la grande maggioranza del Paese. È un sistema di caste, di circoli chiusi, e anche il lavoro si organizza così, con un nucleo ristretto che presidia le funzioni strategiche, e una massa di manovra che deve adattarsi alle fluttuazioni del mercato.

Non basta allora dire: premiamo il merito, perché non si tratta solo di aprire la strada ai più capaci, ma di affrontare una più generale emergenza sociale. Diciamo almeno, come diceva il vecchio PSI: meriti e bisogni.

L’identità sociale è quindi affidata ad un processo allargato, in cui non entra solo il rapporto di lavoro in senso stretto, ma l’insieme delle relazioni, dalle quali dipende il livello di autonomia e il grado di controllo sulle proprie condizioni di vita. In questo senso, il divario sociale è oggi essenzialmente un divario di potere e di conoscenza, e il conflitto assume quindi un carattere più direttamente politico. La politica è chiamata in causa, proprio perché il tema è il modello sociale, è l’organizzazione complessiva della società, è la qualità delle sue relazioni, il grado di socialità della nostra convivenza.

Su tutto questo abbiamo bisogno di una ricognizione più puntuale, sia per quanto riguarda l’analisi dei processi in corso, sia per l’indicazione dei possibili obiettivi. Ma l’essenziale è tenere ben fermo il punto di partenza: il radicamento della politica del lavoro, in quanto luogo e crocevia di tutte le relazioni sociali.

Ora, tutto ciò come si rapporta con l’evoluzione del quadro politico e con i diversi progetti che stanno prendendo forma? Che tutto lo scenario politico si sia messo in movimento, e si apra, nella sinistra, una dialettica tra diverse prospettive e diverse strategie, è questo un importante e positivo elemento di vitalità perché sicuramente abbiamo bisogno di innovazione, per costruire qualcosa di nuovo, dopo una stagione politica deludente. Il problema è se la traiettoria di questi diversi processi conduce verso un esito di rottura, di incomunicabilità, alla definitiva dispersione della nostra storia comune, o se c’è un campo di ricerca che richiede confronto, attenzione reciproca, costruzione di convergenze, se si pensa cioè al rapporto politico dentro la sinistra come un rapporto di complementarietà, in cui ciascuno rimanda all’altro e ha bisogno dell’altro.

Non è un tema immediato, perché ciascuno farà, come meglio ritiene, la sua campagna elettorale. Ma è importante sapere quale scenario si intende costruire nel prossimo futuro, quale sistema politico, con quali regole, con quali rapporti, si intende realizzare nella prospettiva, dopo questa lunga e ancora inconclusa transizione. Di questo vorremmo discutere. Non per un riflesso nostalgico, ma perché una diaspora della sinistra avrebbe l’effetto di spingere tutta la situazione verso posizioni estreme e unilaterali: governabilità fine a se stessa, o rifiuto pregiudiziale di una qualsiasi logica di governo. Non avremmo, alla fine, due sinistre, ma nessuna sinistra degna di questo nome.

Ciò che è in atto è una riorganizzazione complessiva del campo della sinistra, di cui ancora non siamo in grado di misurare gli effetti e i risultati. La tattica elettorale di presentarsi ciascuno con il proprio volto, con l’originalità del proprio progetto, senza patti preventivi, è una scelta logica e per molti aspetti obbligata. Purché non ci sia un eccesso di enfasi, un’esaltazione acritica di una presunta autosufficienza. Perché allora potremmo dire, prendendo a prestito le parole di Hrabal: una solitudine troppo rumorosa. Non ci liberiamo del problema dei rapporti politici, delle alleanze, delle mediazioni. E ogni partito si definisce non solo per quello che dichiara di essere, ma per l’insieme delle relazioni che intende costituire.

Il lavoro da fare è straordinariamente impegnativo, proprio perché si tratta di ribaltare quel passaggio di egemonia che si è verificato negli ultimi decenni, e si tratta quindi di “ricostruire” la dimensione politica, dopo l’ondata dell’anti-politica, del mito di una società civile che si sostituisce alla democrazia dei partiti. Occorre pertanto lavorare sia sui contenuti che sulle forme. Sui contenuti, sull’agenda della politica, per ridare visibilità ai soggetti sociali e ai loro conflitti. Sulle forme, per dare senso e concretezza all’idea di una democrazia partecipata. La sinistra, se non fa questo, finirà per scomparire senza lasciare rimpianti. Ciascuno potrà affrontare questi temi secondo il proprio angolo visuale, con diversi approcci, tentando di aprire diverse strade, e il pluralismo delle idee e dei progetti, se ci sarà, sarà un bene per tutti. Ma questo è il campo da dissodare: come ricostruire la politica a partire dal lavoro, e come attivare un nuovo processo democratico. Saremo misurati dalle risposte che sapremo dare a questo campo problematico.

Il sindacato, in questo nuovo contesto, deve interrogarsi su se stesso, sulla sua pratica rivendicativa e contrattuale, per cercare di conquistare una forza più incisiva, per essere un elemento decisivo di stimolo, di sfida alla politica, nella assoluta chiarezza della sua autonomia come soggetto sociale che trae la sua legittimazione solo dal consenso democratico dei lavoratori e dei pensionati. Occorre assolutamente impedire una colonizzazione del sindacato da parte della politica, una caduta di autonomia, una cessione di sovranità verso referenti politici esterni, perché questo intaccherebbe il sindacalismo italiano, e la CGIL in particolare, nel punto decisivo della sua autorevolezza. Il sindacato, nel momento in cui le strade della politica si complicano e si differenziano, diviene il luogo centrale in cui la rappresentanza del lavoro trova la sua sintesi, la sua forza unitaria. E proprio per questo l’unità sindacale torna oggi ad essere un tema decisivo, che va nuovamente esplorato e rilanciato, perché in questo approdo ci può essere una risposta forte e autorevole a qualunque tentativo di condizionamento politico e di strumentalizzazione. L’unità, il massimo di unità possibile, per dare voce politica ai lavoratori, e per incalzare le forze politiche e le istituzioni, con un forte presidio democratico nel mondo del lavoro, nel territorio, stando ben piantati dentro i conflitti che attraversano la società italiana. Se il sindacato tiene e rilancia la sua autonoma iniziativa, anche la politica forse potrà rimettersi in cammino.



Numero progressivo: C9
Busta: 3
Estremi cronologici: 2008, marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CRS -