LA SCONFITTA “ULIVISTA” E IL RUOLO DELLA SINISTRA DS

di Riccardo Terzi

Per formulare un giudizio motivato, non effimero, sul recente Congresso dei DS, sarà necessario attendere di verificarne gli effetti politici concreti, di vedere cioè alla prova dei fatti che cosa esso ha saputo produrre nella dinamica reale della politica italiana. Nella sfera politica, che è il centro di intersecazione delle volontà e delle scelte di diversi soggetti, il processo reale va spesso in una direzione diversa da quella voluta o dichiarata.

Comunque, questa necessaria avvertenza metodologica non sminuisce il significato politico del Congresso di Torino. Molti osservatori hanno detto che si è compiuta la transizione, che si è chiusa cioè una lunga fase di incertezza e di interrogazione angosciata sulla possibile identità della sinistra, e che si è costruito un soggetto politico nuovo, non più un fenomeno transitorio e provvisorio, verso non si sa che cosa, ma un partito che ha preso coscienza del suo ruolo e delle sue prospettive.

È un giudizio sostanzialmente corretto, che coglie la dinamica reale del Congresso. È finita la “carovana”, è finita la ricerca affannosa dell’andare oltre, è finito il senso di provvisorietà e di precarietà, e c’è un partito che rivendica il suo ruolo nella vita politica italiana, senza complessi di inferiorità e senza atteggiamenti autodistruttivi.

Questo esito non era affatto scontato. La pressione, interna ed esterna, per un ulteriore strappo con tutta l’esperienza storica del movimento operaio di ispirazione socialista e per avviare il processo costituente di un partito “democratico”, dissolvendo e superando tutte le identità politiche storicamente consolidate, è stata assai forte, ed è da presumere che questa pressione non sia ancora esaurita.

C’è una convergenza di interessi, politici e sociali, che spinge verso un esito di dissoluzione della sinistra.

È stato chiesto lo scioglimento del partito, è stata contestata la legittimità politica dell’attuale funzione di guida del governo, si è teorizzato che solo nell’area delle forze moderate e di centro si può garantire l’equilibrio politico del Paese.

È un’offensiva, politica e ideologica, assai pesante.

Il Congresso ha deciso di non subirla, di fronteggiarla e di contrastarla apertamente, rivendicando la pienezza del nostro ruolo politico, oggi e nel domani.

La corrente interna “ulivista”, che era il tramite di questa offensiva, è stata sostanzialmente isolata.

Questa è una novità politica rilevante, non scontata quando l’iter congressuale ha preso avvio. Il documento politico della maggioranza era, su questo punto, ancora molto ambiguo e oscillante.

Il Congresso ha sciolto questa ambiguità, e si può ora dire che la transizione è compiuta.

 

Il punto di approdo è abbastanza chiaro: è la tradizione del socialismo europeo con la sua cultura riformista, con il suo ancoraggio nel mondo del lavoro, con i suoi valori di eguaglianza e di giustizia sociale. In questa direzione, il contributo della mozione alternativa della “nuova sinistra” è stato importante ed efficace, perché il cuore della battaglia politica riguardava esattamente la necessità di una sinistra “autonoma”, radicata nella cultura socialista e riformista, declinabile non solo sotto il profilo dei valori, ma anche dal punto di vista della rappresentanza sociale.

E ora, proprio in forza di questo risultato positivo, la sinistra può essere, nella dialettica democratica interna, non un’area di testimonianza minoritaria e ininfluente, ma uno dei fattori costitutivi della nuova identità del partito.

Il banco di prova più significativo, nel corso del Congresso, è stato rappresentato dalla questione dei referendum sociali. Qui si misurava in concreto, più che in tante dichiarazioni di principio, la collocazione del partito nel conflitto sociale, il suo rapporto con il mondo del lavoro, il suo approccio politico a tutto il tema dei diritti e della cittadinanza sociale.

È stata assunta una posizione assai netta e inequivoca, e anche questo non è un risultato scontato e indolore, perché erano presenti anche ipotesi diverse, proposte di liberalizzazione tendenti non allo scontro ma al dialogo con l’iniziativa radicale.

Si è fatta una scelta senza ambiguità, e questo ha un evidente significato politico.

Questi risultati positivi non ci devono però far dimenticare le molte incognite che ancora stanno davanti a noi, anche perché non c’è ancora una cultura politica sufficientemente solida, matura, chiara, nelle sue motivazioni di fondo.

E quindi ci possono ancora essere oscillazioni, incertezze, contraddizioni. Quale sarà, alla fine, l’esito di tutto il processo politico non è ancora chiaro.

Quando diciamo che la transizione è finita, registriamo un atto di volontà, un atteggiamento politico, il quale però ancora non poggia su una sistemazione compiuta, sul piano storico e teorico.

Insomma, c’è ancora una certa fragilità in questo esito. È normale che sia così, dopo un periodo di grande travaglio, e in presenza di una condizione di grave precarietà della vita democratica interna e delle forme della partecipazione politica.

Dopo il Congresso, è urgente mettere mano all’organizzazione del partito, perché qui c’è davvero un tessuto democratico da ricostruire e rivitalizzare.

Penso che si debba riconoscere tutto il valore del pluralismo interno, non solo nel senso, ormai ovvio, della pluralità delle opinioni e della libertà del dissenso, ma anche assicurando la possibilità di un ventaglio aperto di possibili sperimentazioni, riconoscendo cioè il pluralismo dei progetti e delle pratiche politiche.

Si è visto con il Congresso che il confronto politico aperto può suscitare nuove energie, che insomma la democrazia resta la fondamentale risorsa su cui far leva per far uscire il partito dalla crisi.

Ma tutto ciò richiederà un lavoro tenace e una forte determinazione politica, perché, lo sappiamo, le spinte oggettive che sono in atto nella nostra società non vanno nella direzione della democrazia partecipata, ma tendono piuttosto a rattrappire la vita politica in un gioco di vertice, oligarchico, nel quale contano solo i leader, e dietro i leader non c’è più un’esperienza collettiva.

La scelta sancita nel nuovo statuto, dell’elezione diretta del Segretario da parte di tutti gli iscritti, con una procedura di tipo plebiscitario, ci spinge nella direzione sbagliata, verso un modello di partito verticalizzato, che si affida al prestigio del leader e rinuncia ad organizzarsi come un corpo collettivo. In questa medesima direzione spingono le proposte di riforma del sistema politico, per una compiuta democrazia maggioritaria.

Se lasciamo passare il referendum sulla legge elettorale, senza una nostra iniziativa, il risultato sarà non un maggior potere dei cittadini, ma una democrazia di notabili, che mette fuori gioco il ruolo dei partiti.

Il risultato del Congresso, che ha rimesso in piedi il partito, può quindi essere rapidamente neutralizzato e assorbito da un processo che va nella direzione opposta.

Non aver capito questa possibile dinamica e aver ribadito, del tutto acriticamente, la scelta referendaria, inseguendo tutta la falsa mitologia della “seconda Repubblica”, è un errore grave e poco comprensibile, perché non si può nello stesso tempo costruire il partito e partecipare alla campagna di delegittimazione dei partiti.

Questo è davvero l’aspetto meno convincente e più insidioso, che rischia di capovolgere il risultato del Congresso, e ridare fiato alle spinte dissolutive. È una contraddizione di fondo, destinata prima o poi ad esplodere, e noi ci troviamo, per ora, del tutto impreparati a fronteggiare questa contraddizione.

C’è infine il problema dell’identità e della cultura politica.

Può essere vero che noi siamo oggi destinati ad un’identità incerta, perché siamo immersi in una realtà sempre più problematica e complessa, e può essere un bene non affidarsi più alla certezza delle ideologie. Non credo che dobbiamo andare alla ricerca di nuove ricette miracolose; credo, più semplicemente, che l’identità sia il risultato del nostro agire politico. C’è se questo agire ha un senso, se sa comunicare con gli interessi e con i sentimenti delle persone. Per un partito riformista, l’identità sta nel fare, nell’agire concreto. E anche il rapporto con la nostra storia passata deve essere visto laicamente, con uno sforzo di analisi critica.

Si tratta di capire, non di attribuire pagelle postume, o inventare un nuovo pantheon, una nuova genealogia mitologica dalla quale far discendere ciò che oggi siamo.

Non capisco a cosa possa servire l’affannosa ricerca di nuovi santi protettori. La storia non è un supermercato nel quale far valere arbitrariamente le nostre personali preferenze, e non credo utile piegare la storia e i suoi protagonisti alle nostre esigenze politiche contingenti.

Nel momento in cui abbiamo compiuto la transizione occorre solo un atteggiamento di distacco e di oggettività scientifica. Oggi siamo in un’altra fase, siamo di fronte ad interrogativi diversi, ad alternative politiche che non sono più riconducibili al passato. Solo se c’è questo distacco siamo davvero maturati come una forza politica nuova e moderna. Per questo l’elaborazione della nostra cultura politica attuale richiede un processo nuovo di ricerca, di analisi, nel quadro delle condizioni attuali dell’Italia e del mondo.

Non possiamo accontentarci di troppo facili formule politiche o di slogan propagandistici.

È un lavoro ancora da fare, e tutta la nostra strumentazione concettuale va analizzata in modo più rigoroso.

Faccio solo due esempi. Continuiamo a rappresentare il conflitto politico con le categorie dell’innovazione e della conservazione, come se fosse ancora chiaro e comprensibile il loro significato. La destra attuale non è più la difesa di un ordine sociale irrigidito, ma è l’innovazione senza regole, è la competizione lasciata libera nella sua dinamica distruttiva.

E allora, quale innovazione, con quale segno sociale? Se non si chiarisce questo, lasciamo credere che sia di sinistra la signora Bonino e di destra la CGIL di Cofferati.

Il problema è oggi la qualità dello sviluppo e la possibilità di una sua regolazione politica.

Altrimenti, come i futuristi del primo novecento, ci limitiamo ad esaltare la modernità tecnologica, e non ci accorgiamo che dietro la potenza tecnica c’è l’insidia di un possibile destino autoritario.

Dirsi innovatori oggi non significa nulla, non segna nessuna discriminante politica concreta. L’innovazione è solo il terreno obbligato sul quale la politica gioca le sue alternative, di destra o di sinistra in rapporto al modello sociale, all’idea di cittadinanza, alla struttura di classe e alle forme in cui si esercita il potere politico.

Una analoga avvertenza vale per il concetto di riformismo, che rischia spesso di essere solo una nuova ideologia, una categoria astratta, buona per tutti gli usi.

Il riformismo esiste solo in quanto si dà un programma operativo: che cosa cambiare, con quali strumenti, con quali attori sociali. Se non c’è un programma politico, non c’è riformismo, ma c’è solo la chiacchiera vuota.

Il problema del riformismo oggi è la definizione di obiettivi e di strumenti, a livello nazionale come a livello mondiale.

Una linea, che di fronte alla velocità e all’intensità delle trasformazioni in atto si limiti ad accompagnare i processi, una linea di adattamento passivo e di galleggiamento, è il contrario del riformismo.

E allora occorre non solo un partito, ma un programma incisivo che sia capace di agire nella realtà dell’attuale mondo globalizzato.

Il Congresso di Torino non ha ancora risposto, in modo adeguato, a tutti questi problemi. Ha scongiurato un esito dissolutivo, ma l’opera di costruzione è ancora in larga parte da fare. E qui occorre un salto di cultura politica e di elaborazione.

Oggi c’è uno scarto tra i valori e la pratica reale. I valori rischiano così di essere solo un orpello retorico, e i cittadini, che giudicano le cose della politica più realisticamente, valutando i risultati concreti, assumono una posizione di distacco e di diffidenza.

Il riformismo è quella politica che unisce in un processo reale i valori e l’azione pratica: non la retorica ma i fatti, non il realismo passivo ma il cambiamento. Una volta che ci siamo messi alle spalle i travagli di una lunga transizione possiamo oggi dedicarci alla costruzione di una politica riformista.



Numero progressivo: H5
Busta: 8
Estremi cronologici: 2000, febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Le ragioni del socialismo”, febbraio 2000, pp. 14-16