LA PRATICA DEL “NON AGIRE”. DIECI ANNI DOPO

di Riccardo Terzi

Fine novembre 1987. Sul settimanale Rinascita, viene pubblicato un articolo sulla riforma della politica e dei partiti dal titolo assai curioso e dai contenuti di certo inusuali per la prestigiosa rivista fondata da Palmiro Togliatti. Il titolo è «La pratica del non agire», l’autore è Riccardo Terzi, in quegli anni segretario del PCI milanese, che risponde ad una intervista di Massimo D’Alema, allora responsabile dell’organizzazione del PCI, alla stessa rivista. A&A ha chiesto a Terzi, che oggi coordina il Dipartimento Riforme Istituzionali della CGIL nazionale, a dieci anni di distanza, di riprendere quei temi. Di ritornare su una discussione che, a nostro avviso, non è oggi meno rilevante di allora. Né meno attuale. Come sempre, ci aspettiamo che chi ci legge interagisca, partecipi. Su queste stesse pagine, e/o su A&A online. Per intanto, buona lettura a tutti.

 

Dieci anni fa sostenevo la necessità di «guidare l’evoluzione del PCI verso una sua nuova forma storica». Ciò non è avvenuto, perché i partiti hanno solo cambiato il loro involucro esteriore e non la loro sostanza. Sono mutati i nomi, le identità ideologiche, ma non è mutato il meccanismo che ne regola la vita ed il funzionamento. Oggi il problema va probabilmente spostato su un altro terreno: non una rifondazione del partito politico ma una ricerca più allargata che riguardi le forme della vita collettiva nel loro significato più ampio.

Mi sembra che sia ormai irripetibile quella situazione storica che ha visto nei grandi partiti di massa il veicolo fondamentale della partecipazione democratica. Il partito politico può svolgere oggi una funzione più limitata, come strumento di selezione della classe dirigente e come centro di elaborazione programmatica, mentre la partecipazione democratica deve trovare altri canali, altre forme, più aperte e flessibili, per esprimersi. Il problema non è più, essenzialmente, la riforma del partito, ma il rapporto del partito politico con la rete variegata dell’associazionismo democratico e delle rappresentanze sociali, nella quale si esprime in forme nuove una domanda politica che interroga i partiti e che rifiuta di essere incanalata dentro i partiti.

Per questo trovo ormai inutili e accademiche le discussioni in atto circa il profilo ideologico di questo o di quel partito, le infinite “variazioni sul tema” nelle quali si combinano in varie forme i concetti vuoti di sinistra, destra e centro, come se fossero verità e non convenzioni; per questo è del tutto astratta la disputa nominalistica, dentro il PDS, tra socialdemocratici e ulivisti. Si discute in sostanza di formule e non di processi reali.

Il problema che è oggi storicamente aperto è la ricostruzione nella società degli spazi di partecipazione, ed è un problema che non si risolve con i bizantinismi della politica. È una discussione da fare, e io non ho in proposito nessuna soluzione pronta, ma solo una proposta di ricerca. Per ora, è importante non tanto accordarsi sulla risposta, quanto sulla domanda: si tratta di ricostruire il primato della politica, di rimettere in ordine la società restituendo forza alla funzione di comando, o viceversa di ricostruire le condizioni sociali per superare finalmente l’esclusivismo oligarchico del sistema politico e la sua separatezza dalla società?

Per quel che mi riguarda, la risposta è chiara: il tema cruciale riguarda oggi non chi comanda ma come si organizza la vita democratica, non chi è il leader, a cui affidiamo le nostre sorti, ma come sia possibile organizzare la democrazia come autogoverno. È troppo azzardato chiedere che di ciò tengano conto i nostri attuali leader politici? Vale ancora oggi la verità di Lao-Tze: «se il popolo è difficile da governare, ne è causa l’attività dei suoi superiori».

Proporre a Massimo D’Alema la pratica taoista del “non agire” può apparire una provocazione intellettualistica, un gesto solo letterario che non ha nessuna concreta incidenza politica. E sicuramente così è stato giudicato, nell’ambito del gruppo dirigente del PCI, il mio articolo su Rinascita del 1987, accompagnato da una nota redazionale scritta nel più schietto stile burocratico, quello stile untuoso e falsamente tollerante con il quale si liquida la discussione prima ancora che essa possa iniziare.

Siamo negli anni della segreteria di Natta. Anni opachi nei quali si consuma il rito di un berlinguerismo ormai esangue. L’articolo cade nel vuoto, come era del tutto naturale che accadesse. Non ci fu nessuna discussione, nessuna risposta, nessuna polemica. Sotto questo profilo, è stata pienamente adottata la tattica del non agire. Come potrei allora lamentarmi?

Ma ora vorrei ritornare, a 10 anni di distanza, su alcuni nodi politici e teorici che in quell’articolo erano accennati e che si ripresentano oggi con una ancora più stringente attualità. Non mi interessa affatto una polemica retrospettiva, ormai priva di senso, ma mi interessa una riflessione sull’oggi, che in qualche modo si ricollega a quella mia precedente provocazione taoista. Senza illudermi, naturalmente, che oggi le condizioni per una aperta discussione politica siano più favorevoli, perché la politica è sempre più intrisa di spirito confuciano, e tende ad essere ritualità, riproduzione del già dato, rispecchiamento del potere. È questo il suo destino, o c’è spazio per una alternativa?

Il nocciolo della discussione sta qui, nel rapporto tra politica e potere. Non si tratta di questa o quella scelta politica contingente, ma del “senso” della politica, del suo rapporto con la dinamica sociale complessiva e con il bisogno, finora vanificato, di autorealizzazione dell’uomo sociale. Il richiamo al taoismo e al principio del non agire ha solo questo valore simbolico, come interrogazione sull’essere dell’uomo e della politica. La politica è solo e necessariamente riproduzione del dominio, o può aprirsi ad una diversa dimensione?

È chiaro che non si tratta qui di una lettura filologica dei testi classici cinesi, ma solo di un tentativo di problematizzazione della società moderna. In questa epoca di attivismo cieco e di esaltazione acritica del fare, la formula del “non agire” introduce un rovesciamento dei valori, uno sguardo sulla realtà radicalmente diverso. Il non agire è il primato dell’essere, ovvero dell’autonomia sostanziale della persona. Non è una messaggio di passività e di inerzia, ma un tentativo di fondare l’agire dell’uomo sui meccanismi diversi da quelli del dominio e della potenza.

In questo Lao-Tze anticipa il pensiero rivoluzionario moderno, la critica della politica e dello Stato in quanto forme di dominio. È un tema di utopisti o di mistici?

In realtà questo tema ritorna. Mentre tanta parte della sinistra ha completamente rimosso questa sue lontane radici, questa sua originaria motivazione ontologico-esistenziale, e si affanna in un processo di omologazione e di adattamento, la domanda originaria ritorna, perché la modernità si sta avvitando su se stessa e la sua salvezza dipende ormai da un diverso rapporto tra vita e lavoro, dipende cioè dall’apertura di uno spazio vitale che non sia dominato dalla logica competitiva. Solo il non-fare può salvare il fare dell’uomo, solo un diverso ritmo si vita, che ci consenta di essere nuovamente padroni del nostro tempo. In tutte le proposte che riguardano il tempo del lavoro e la sua riduzione, o rimodulazione, per rendere possibile un recupero delle energie vitali dell’uomo, c’è come una rivincita di Lao-Tze sul tempo moderno. C’è la fine di un ciclo segnato dal produttivismo progressista e l’esaurimento di questo ciclo ci ripropone domande radicali sul nostro possibile futuro.

Quali implicazioni politiche ne discendono? Se il discrimine è tra autonomia e asservimento, se cioè l’unica fondamentale motivazione che legittima la sinistra è la sua capacità di prospettare una linea di liberazione della persona, occorre allora sottoporre a critica le forme della politica in quanto forme di dominio. Va finalmente rifiutato il “primato della politica”, il quale appunto esprime l’idea di una inevitabile gerarchizzazione della società e nei rapporti umani. Questo principio torna oggi ad essere invocato, nella ricerca di una via di uscita dalla crisi. Ci si illude che basti ricostruire un “centro di comando” forte e autorevole. Tutta la discussione politica di oggi ruota intorno a questo problema, e segna così una impressionante regressione, come se ancora oggi il cuore della politica fosse, come ai tempi del Macchiavelli, la legittimazione del principe.

Ma questa ormai è una strada chiusa, senza sbocchi. Nella moderna società complessa, la politica non può più essere il movimento verticale di trasmissione del comando, ma diviene l’incrocio di diversi soggetti, di diversi interessi, di diverse sfere di vita; la relazione, sempre aperta e mutevole, tra questo pluralismo di forze. La società è oggi questa rete di relazioni, e può essere governata efficientemente solo in una logica di integrazione orizzontale tra i diversi punti di questa rete, sviluppando tutti gli elementi di autonomia, di autogoverno, di responsabilità. La crisi attuale sta nella rottura del rapporto tra politica e società, perché al pluralismo dinamico della società si sovrappongono istituzioni politiche irrigidite o burocratizzate. E oggi siamo pericolosamente vicini ad un punto di rottura.

La politica ha sempre due facce: l’esercizio del potere e la rappresentanza. Il sistema funziona solo se questi due aspetti sono in equilibrio, se il potere è legittimato dalla rappresentanza, e se la rappresentanza entrerà nel circuito delle decisioni politiche. La crisi attuale non è la conseguenza di un deficit di autorità, di una debolezza della funzione di governo, come recita l’ideologia politica ufficiale, quasi universalmente riconosciuta, ma è piuttosto l’effetto di un processo sociale che non produce più gli strumenti della propria regolazione, che non è più strutturato dalla rete delle rappresentanze, e quindi si disarticola nell’infinita conflittualità degli interessi individuali.

Una società senza rappresentanza si sfalda, non ha più nessun tessuto connettivo, e in questa condizione il potere finisce per essere inevitabilmente un elemento arbitrario e dispotico, che si sovrappone ad una società frantumata nell’individualismo degli interessi. È su questa base che si affermano le soluzioni plebiscitarie: da un lato un potere oligarchico e irresponsabile, dall’altro un universo di cittadini atomizzati e impotenti. Occorre dunque rimettere al centro il tema della politica come rappresentanza, come processo sociale che organizza gli interessi, che dà una forma strutturata al pluralismo della società e al suo movimento crescente di differenziazione e di articolazione. Se la politica non si misura con questi processi e si costituisce come sfera separata, l’anarchia degli interessi diviene allora incontrollata e l’equilibrio istituzionale finisce per spezzarsi.

Nella tradizione della sinistra c’è l’idea che il particolarismo degli interessi debba essere bilanciato da un potere politico forte. Questa tesi ha aperto la strada alle peggiori forme di dispotismo. In realtà, la politica è forte solo se è legittimata democraticamente, se entra in comunicazione con la società e ne promuove le forme di autorappresentazione e di autogoverno. Ecco che allora torna il tema del partito politico, e più in generale il tema delle forme e degli strumenti della partecipazione politica. È un problema del tutto irrisolto, e anzi drammaticamente aggravato, perché ciò che è avvenuto in questi anni è un violento processo di restringimento degli spazi democratici, verso una strutturazione leaderistica della politica, senza contrappesi, senza vita democratica collettiva. Stiamo diventando tutti spettatori di un gioco che non riusciamo più a controllare.

 

P.S. Leggo su L’Unità del 3 Luglio questa interessante dichiarazione di Massimo D’Alema, in polemica con Achille Occhetto: «Non è vero che è meglio perdere combattendo. Ritengo largamente migliore vincere senza combattere. E consiglio di leggere Sun-Tzu L’arte della guerra. Un grande generale si augura di vincere senza combattere, intanto perché vince e poi perché non c’è spargimento di sangue. Mentre la sinistra italiana è specializzata nel combattere senza vincere». Perfetto. Fa piacere sapere che D’Alema padroneggia la letteratura taoista. Si può sperare in un futuro con meno gladiatori, con meno esaltazione militaresca, e con più civile saggezza. La prima condizione per realizzare un “paese normale” è che i dirigenti politici siano persone ragionevoli, e non ridicole incarnazioni dell’eroe guerriero, persone tolleranti, e non profeti di fanatismi e di guerre ideologiche.



Numero progressivo: H66
Busta: 8
Estremi cronologici: 1997, settembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Note: Con bozza, di cui è una estensione. Confronta anche scritto del 1987 La pratica del “non agire”
Pubblicazione: “Austro e Aquilone”, 1997, pp. 13-15. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 169-174