LA CRISI DELLA POLITICA

di Riccardo Terzi

Le ragioni della politica appaiono oggi problematiche e incerte. È possibile ancora uno spazio politico significativo, o siamo avviati verso una crisi non più reversibile, verso un’organizzazione delle cose che non ammette più la politica come libertà di scelta e la lascia sopravvivere ormai solo come apparenza, come gioco di ombre?

Il dubbio è legittimo, e sembra essere quotidianamente convalidato da una cronaca politica fatta solo di piccole risse per il potere e di vanità personali. Nella competizione sembrano essere in gioco solo le fortune contingenti del ceto politico, e non i destini della nostra comunità. In fondo – questo è il dubbio – che cosa cambia se vince l’una o l’altra parte, in che misura ne siamo coinvolti?

Questa posizione di disincanto e di freddezza emotiva verso la politica è oggi assai diffusa e tende ad allargarsi, come dimostrano tutti i dati sulla crisi della partecipazione politica e sull’astensionismo elettorale. È forse qui il fatto politico più rilevante degli ultimi anni, in questa rottura, in questo venir merio delle appartenenze, in questa rarefazione delle identità, dei progetti, delle passioni politiche.

Ciò non significa che siano venute meno le risorse dell’impegno civile, ma esse si indirizzano altrove, nei molteplici canali dell’associazionismo e del volontariato sociale, e la politica stenta sempre più a mettersi in un rapporto efficace di comunicazione con questo mondo. Se non si parte da questo stato di crisi, se non lo si affronta alle sue radici, restiamo invischiati in un gioco politico che non ha sostanza e non ha prospettive.

Il primo compito della politica è interrogarsi su se stessa e ridefinire le proprie ragioni. Non mi sembra che ci sia oggi una discussione seria su questo punto, e la mancanza di una tale discussione non fa che aggravare lo stato delle cose, alimentando tutti i fenomeni di distacco tra società e politica. La discussione pubblica, nei partiti e nei mass media, si concentra solo intorno alle possibili varianti della legge elettorale, ai diversi possibili dosaggi di maggioritario e di proporzionale, riducendo un problema politico a un problema meramente tecnico.

Dopo l’euforia referendaria e dopo gli esiti deludenti della riforma maggioritaria che ha prodotto un sovrappiù di frammentazione e di burocratizzazione politica, non si è ancora capito che il cuore del problema non sta nel meccanismo elettorale ma nell’indebolimento del rapporto di fiducia tra cittadini e partiti politici.

Le ondate referendarie non fanno altro che alimentare il rifiuto della politica, e per questo la crisi ne risulta ogni volta ulteriormente aggrovigliata. La crisi ha, innanzi tutto, ragioni oggettive che riguardano i mutamenti strutturali nel rapporto tra politica ed economia. Questo rapporto si è rovesciato, e il primato della politica si è capovolto nel primato dell’economia. L’economia, nell’epoca della globalizzazione, ha rotto tutti gli argini degli Stati nazionali e ha vanificato e neutralizzato gli strumenti classici della regolazione politica. Mentre questa agisce in uno spazio illimitato, la politica continua a essere un sistema spaziale ancorato al territorio. Lo Stato-nazione è ormai un contenitore troppo angusto, e per questo ha perso il controllo dei processi reali in quanto processi globali. Così la politica, costruita sull’identità di territorio e di sovranità, è spiazzata nel momento in cui l’economia si deterritorializza e si costituisce come una rete sovranazionale, come un sistema a dimensione mondiale.

Questo processo può condurre alla conclusione estrema della fine della politica. Secondo questa tesi, la politica non ha più una sua autonomia sostanziale, ma può avere solo una funzione sussidiaria, può solo occuparsi degli effetti sociali che sono indotti da decisioni extrapolitiche. Alla sovranità politica, ormai ridotta a occuparsi non più delle strategie ma degli effetti secondari, si sostituisce una rete di attori economici (imprese multinazionali, grandi agenzie, tecnostrutture) che non sono vincolati dai meccanismi della rappresentanza democratica, ma solo da quelli impersonali dell’efficienza del mercato.

Il passaggio è da una struttura democratica del potere, fondata sulla rappresentanza territoriale, a una struttura di tipo funzionale, nella quale agiscono e si confrontano poteri oligarchici, aristocrazie del denaro e del sapere, legittimati dalla loro forza intrinseca e non dal consenso.

Dietro l’ordinamento formale delle istituzioni, si sta creando una nuova trama di poteri reali che dà luogo, come dice Mauro Calise, a una «costituzione silenziosa». Il potere reale si sta riposizionando fuori dal circuito politico. In questo senso la modernità riproduce una configurazione di tipo feudale, sostituendo all’universalismo democratico il particolarismo degli interessi.

Fine della politica, dunque? A una conclusione così radicale non possiamo adattarci facilmente perché ciò significherebbe l’archiviazione dell’idea democratica e l’accettazione di un gioco competitivo in cui conta solo la forza e viene meno il diritto. Ma è importante avere consapevolezza di questo stato di sofferenza, e riuscire a vedere i processi reali, i fenomeni di erosione dello spazio democratico, di slittamento delle sedi decisionali fuori dalle nostre possibilità di controllo, i quali accadono proprio nel momento in cui tutte le rappresentazioni correnti della transizione italiana mettono l’accento sulla maggiore trasparenza, sul potere diretto dei cittadini contro le oligarchie di partito, sulla nuova democrazia che si sta organizzando nella prospettiva di una limpida competizione bipolare.

Tra la rappresentazione e la realtà si è perduta qualsiasi relazione, al punto da creare una vera e propria illusione ideologica. La seconda repubblica, come democrazia dei cittadini, non è altro che un mito politico. I cittadini come singoli, infatti, non creano uno spazio politico, ma sono solo i destinatari passivi di un mercato politico organizzato altrove. Sono spettatori e utenti, sottoposti alla pressione continua della comunicazione di massa e dei sondaggi di opinione. Non sono attori politici ma consumatori di immagini.

In Italia, quindi, dove si è determinato il crollo del sistema politico tradizionale e si sono alimentati i miti della democrazia plebiscitaria, la crisi democratica è più acuta, nonostante le apparenze e nonostante tutta la retorica ufficiale che viene dispiegata, a destra come a sinistra, per giustificare e nobilitare l’attuale transizione.

Prende forza il partito dell’anti-politica, che reclama meno Stato, meno regolazione, meno vincoli, nel nome di una società civile che vuole essere lasciata libera nel suo dinamismo spontaneo.

Questa tendenza ha una chiara matrice di destra, perché significa, nella sostanza, il rifiuto della dimensione etica e la spinta verso una competizione senza regole. Ma il processo è più complesso, e in esso si intrecciano diverse motivazioni, non tutte riconducibili alla grettezza degli interessi egoistici. La crisi della politica non è dovuta infatti solo all’emersione di una subcultura di destra, prima trattenuta e controllata dai grandi partiti di massa, ma a proprie intrinseche ragioni, perché un intero ciclo storico si è chiuso e le forme tradizionali della politica non sono più proponibili.

In che cosa consiste questa rottura storica? Lo spartiacque è dato dal fallimento del movimento comunista e del suo tentativo di edificazione di una nuova società. È con il comunismo che la politica assume un significato globale e coinvolge la persona nella totalità del suo essere, razionale ed emotivo, proprio in quanto esso prospetta un rinnovamento totale della società e del destino umano.

Tutta la politica moderna è segnata da questa grande sfida, che assume così un carattere totalizzante, perché sono in gioco il significato e l’esito finale della nostra storia. E ciò vale, naturalmente, anche per chi si oppone alla prospettiva comunista e mobilita quindi tutte le energie possibili per contrastarla.

La fine del comunismo è la fine dell’epoca nella quale la politica ha questo significato globale, e ripropone una distanza tra politica ed esistenza, tra sfera pubblica e sfera privata.

Nelle nuove forme dello spirito pubblico, nell’atteggiamento di maggior distacco e freddezza, non c’è solo la rivincita dell’antipolitica, ma c’è la consapevolezza, più o meno chiara, di un mutamento storico generale, con il quale cambiano il ruolo della politica e il suo posto nella vicenda umana.

Ora, la sconfitta del comunismo, che segna davvero un passaggio d’epoca e cambia radicalmente tutto l’orizzonte storico, non ha dato luogo a un’elaborazione teorica adeguata. Non è stata elaborata, non è stata pensata come evento che ci costringe a una ridefinizione complessiva delle categorie della politica. Sono prevalse posizioni di rimozione, o per fingere una nostra estraneità alla storia del comunismo, rigettandone la scomoda eredità, senza nessun bilancio critico, o per fingere, viceversa, che si possa ripartire sulle medesime basi, con improbabili rifondazioni, chiudendo gli occhi di fronte all’evidenza di un esito storico di tale portata.

La teoria delle cosiddette «due sinistre» è l’accettazione di questo strabismo, di questa situazione in cui nessuno guarda in faccia la realtà e si accontenta di espedienti retorici. Accade così che, in questo vuoto di elaborazione del pensiero politico, ci troviamo in una condizione di incertezza, sapendo solo ciò che non siamo, ma privi di una nuova identità.

La sinistra, per uno strano paradosso storico, conquista il governo del paese non nel momento della sua massima forza espansiva, ma nel momento del suo smarrimento. Il problema, quindi, non è quello del “ritorno” alla politica, come se si potessero artificialmente riprodurre le condizioni storiche di un passato tramontato. Le posizioni nostalgiche, volte a rianimare l’eredità del passato, non hanno nessuna efficacia e anzi impediscono di vedere, con la necessaria lucidità, le reali condizioni del presente. Il problema è, dunque, la ridefinizione delle categorie e delle forme della politica, nel nuovo contesto storico, per scongiurare un possibile esito regressivo, prepolitico, predemocratico, corporativo, per evitare quindi che con il crollo del comunismo siano travolte anche le fondamenta della democrazia politica.

Stiamo attenti a non cadere nella facile illusione che identifica la sconfitta del comunismo con la vittoria della democrazia, perché nella realtà il percorso storico è assai più tortuoso, e sulle macerie del socialismo reale possono germinare nuove forme dispotiche del potere.

È un equilibrio storico che si è rotto, e ciò apre nuovi problemi, a Est come a Ovest, problemi istituzionali, sociali, economici, in un mondo che cambia a grande velocità. Nessuno ha già la ricetta pronta. Siamo tutti in un cammino nuovo, che va esplorato e indagato nella sua concretezza storica, al di là delle facili rappresentazioni ideologiche.

Tentando, su queste premesse, una prima riclassificazione delle categorie della politica, prenderò in esame tre concetti chiave: la comunità, la rappresentanza, l’idea di giustizia. Si tratta infatti di tre condizioni di base, in assenza delle quali non esiste nessuno spazio politico organizzato. Queste condizioni, che sono oggi tutte rimesse in discussione, non sono più un presupposto acquisito, ma un problema da risolvere. La politica presuppone la comunità, ovvero la polis: lo spazio di una comune appartenenza entro il quale si costruiscono i meccanismi istituzionali di legittimazione del potere. Ma è rintracciabile la polis nell’epoca della globalizzazione? Noi non viviamo più in uno spazio delimitato, ma in un crocevia di relazioni, in cui si combinano le reti corte dei localismi e le reti lunghe dell’integrazione mondiale. Viviamo contestualmente dentro diverse dimensioni, dentro diversi spazi relazionali.

Allo spazio compatto della comunità politica tradizionale si sostituisce lo spazio policentrico e mobile di un sistema di relazioni che non ha più un suo unico centro di gravità. E allora, dove sta la politica e a quale livello si colloca? La risposta corrente è quella che tende ad avvicinare le istituzioni ai cittadini, secondo il cosiddetto principio di sussidiarietà. È un passo necessario, ma niente affatto sufficiente.

La rincorsa localistica non crea una nuova comunità politica, se non in forme mistificate e ideologiche, come è avvenuto con l’esperienza politica della Lega: essa ha dato voce alla nostalgia della comunità perduta e ha reinventato la comunità nella forma del mito. Il caso della Lega è interessante, proprio in quanto è il tentativo d’innescare nuovi meccanismi d’identità e di appartenenza, o di rispondere così alla crisi della politica. Non è una risposta accettabile, ma va dato atto a Bossi di aver capito, più di tanti intellettuali raffinati, qual è la sostanza del problema politico oggi e di avere nuovamente pensato la politica come iniziativa, come atto creativo, come mobilitazione che unisce in un medesimo processo gli interessi e le passioni.

Ma il localismo comunitario porta in un vicolo cieco, perché non fa i conti con l’economia reale, e quindi indebolisce le risorse della politica, chiudendola in uno spazio sempre più angusto. Se è giusto il principio di sussidiarietà in quanto decentramento di poteri e innovazione amministrativa, esso ha il suo significato dentro un processo più ampio di riorganizzazione degli assetti istituzionali nel quadro della nuova dimensione europea. Non il localismo, quindi, ma un sistema di autonomie che si colloca nella prospettiva allargata della costruzione dell’Europa politica.

La crisi della comunità può essere quindi affrontata, innanzi tutto, indirizzando l’agire politico verso la costruzione della cittadinanza europea, verso un nuovo e più ampio spazio politico, meglio adeguato a confrontarsi con i processi di integrazione internazionale e capace di riposizionare le istituzioni della sovranità politica. Le chances della politica, dunque, sono oggi affidate alla costruzione dell’Europa.

Se questo è l’orizzonte strategico, il laboratorio politico-istituzionale, il possibile punto di arrivo di un processo ancora largamente da costruire, restano aperti i problemi della crisi della comunità, della sua coesione sociale e della sua identità collettiva in quanto la modernità dissolve la comunità tradizionale.

Ciò è chiaro già dal Manifesto del 1848 di Carlo Marx, che coglie, con impressionante lungimiranza, la forza di dissoluzione dell’economia di mercato, che travolge via via tutti i vincoli di ordine sociale o morale, riducendo la società alla struttura elementare degli interessi e del calcolo economico. L’errore di Marx non è nella sua parte analitica, ma in quella profetica, perché da questo processo non sorge necessariamente un soggetto sociale alternativo, destinato a realizzare una nuova civiltà. Noi ci troviamo in un processo di crescente corporativizzazione, di segmentazione degli interessi, e anche i conflitti sociali non si sollevano oltre questo orizzonte, non sono l’annuncio di un nuovo ordine. Come arginare, allora, la frantumazione individualistica della comunità? È questo, in fondo, il problema della politica moderna.

In un interessante libro di Roberto Esposito, la communitas è vista nella sua opposizione dialettica con l’immunitas, con il processo di immunizzazione, ovvero di protezione della sfera privata dalle interferenze esterne. Alla comunità, come spazio aperto di relazioni, si sostituisce la metafisica della privacy, come difesa dal contagio dell’altro.

La relazione con l’altro è una minaccia, e occorre quindi un sistema difensivo che protegga lo spazio circoscritto della libertà individuale. In questo movimento storico, tipico della modernità e oggi particolarmente sviluppato, non c’è autentico riscatto dell’individuo, perché l’individuo è la ricchezza delle sue relazioni e la sua immunizzazione coincide con il suo svuotamento. L’individualismo si capovolge nel suo contrario, nella perdita di sostanza della vita individuale, proprio perché si distrugge la rete delle relazioni e ciascuno si rinchiude nel vuoto di una vita egocentrica. Da questo punto di vista, credo che oggi sia radicalmente mutato il significato delle tradizionali battaglie per la libertà civile. Nel passato si trattava di affermare la libertà individuale contro un sistema opprimente di regole, contro l’invadenza di uno Stato integralista e clericale. Ora il rischio è di segno opposto: non è il dominio della comunità, ma la perdita del rapporto tra individuo e comunità.

Il radicalismo individualista da forza progressiva diviene un fattore pericoloso di disgregazione sociale, perché pensa l’individuo in un vuoto di valori e di vincoli sociali. È forse un caso che Pannella sia oggi un alleato della destra?

In quest’ottica, è oggi importante il dialogo della sinistra con la cultura cattolica, in quanto ripensamento del tema della comunità: un dialogo non contingente, non tattico. Lo spazio della politica coincide con questa ricerca, verso una qualità più ricca delle relazioni sociali, e in questa ricerca le vecchie guerre di religione sono ormai fuori luogo. Nella comunità è essenziale il libero gioco del pluralismo interno, sociale e culturale, il che comporta l’organizzazione delle rappresentanze. Senza questa articolazione, la comunità o si dissolve, o si costituisce come dominio autoritario.

Ora, alla crescente complessità sociale non ha corrisposto un sistema adeguato di rappresentanze e si è aperto un vasto territorio senza rappresentanza. È questo territorio l’elemento di instabilità e di fragilità del sistema politico, perché mancano gli elementi di mediazione tra interessi particolari e interesse generale.

Sul piano sociale, il passaggio all’economia post-fordista ha spiazzato le vecchie rappresentanze sociali e ha creato una nuova galassia di figure sociali e professionali che ancora non ha trovato le sue forme di organizzazione collettiva. E analogamente, sul piano politico, con la crisi delle tradizionali identità ideologiche, cresce un’area di incertezza e di oscillazione, che si esprime nei fenomeni della mobilità elettorale e dell’astensionismo.

Ma può funzionare una società senza rappresentanza? Può funzionare solo attraverso un dominio di tipo oligarchico, ed è quanto sta accadendo con il restringimento del ceto politico e con il passaggio dalla legittimazione democratica all’autoreferenzialità di strutture tecnocratiche.

Rappresentanza e Potere sono i due poli su cui si organizza la vita politica. Una rappresentanza troppo invasiva può impedire l’esercizio efficace della decisione politica, bloccando l’azione di governo in un’infinita azione di intermediazione. Viceversa, la crisi della rappresentanza spinge verso un potere irresponsabile, non basato sul consenso e non legittimato dal confronto con il corpo sociale. Nella transizione italiana, rischiamo di transitare dall’una all’altra di queste opposte situazioni di squilibrio.

Il modello plebiscitario, che annulla le rappresentanze intermedie, è l’espressione di questa tendenza, di questo passaggio verso un’organizzazione oligarchica del potere. Il potere diretto dei cittadini, non mediato dai partiti e dalle rappresentanze sociali, è solo il velo ideologico che serve a occultare la crisi della democrazia e la sua trasformazione in un potere irresponsabile. Costruire le nuove rappresentanze, è questa un’esigenza politica urgente: dare voce e visibilità ai soggetti sociali, alle identità territoriali, al pluralismo delle culture.

Il sistema politico è oggi eccessivamente frammentato, ma anche scarsamente rappresentativo, poco ancorato nella realtà sociale, chiuso in se stesso, incapace di esprimere opzioni e progetti alternativi di immediata comprensione. Un’eccessiva forzatura nella direzione del bipolarismo può avere l’effetto di rendere le identità politiche ancora più appannate e inconsistenti, di avere alla fine solo due gusci vuoti, due macchine elettorali senza contenuto e senza cultura politica.

Nel passaggio dal governo Prodi al governo D’Alema c’è stato, sotto questo profilo, un mutamento importante e potenzialmente positivo, perché l’attuale maggioranza di governo si presenta più realisticamente come un punto di incontro tra forze diverse, correggendo cosi l’utopia ulivista della dissoluzione delle vecchie identità in un nuovo soggetto unificante. È necessaria una coalizione che garantisca stabilità dell’azione di governo, rendendo visibile il suo pluralismo, il suo essere un’alleanza tra diversi soggetti politici. Ciò che importa è il dialogo tra diversi, non la finzione che siano scomparse le diversità.

Se comunità e rappresentanza sono le forme della politica, l’idea di giustizia è il suo contenuto. Verso quale modello di società giusta è indirizzata l’azione politica? Anche qui si è determinata negli ultimi anni una rottura storica profonda, perché è venuta meno l’idea della costruzione di una società “altra”, fondata su basi radicalmente alternative. L’idea era quella di sostituire alla regolazione del mercato, fonte di inevitabili ingiustizie, la regolazione politica, la pianificazione consapevole.

È evidente che siamo di fronte a un fallimento storico, che dimostra come il primato della politica generi insopportabili dispotismi, e nello stesso tempo finisca per essere incapace di dinamismo, di innovazione, di sviluppo, dando luogo a una situazione di stagnazione burocratica. Non esiste la società giusta come costruzione artificiale di un nuovo mondo, e allora occorre cercare i percorsi possibili di giustizia dentro la società data, dentro i suoi meccanismi reali.

Non è un cambiamento di poco conto e richiede una rivisitazione critica di tutta la cultura politica della sinistra. Si apre così un terreno di dialogo con altre culture, cristiane o liberali, che hanno cercato di rispondere, in varie forme, alla domanda di giustizia. Potremmo dire che è la vittoria del riformismo, o meglio dei riformismi. Ciò è sicuramente vero, anche se il termine riformismo è a sua volta troppo generico e vuoto per indicare un cammino concreto. Che significa riformismo? All’origine esso significava solo una scelta dei mezzi, democratici e gradualisti anziché rivoluzionari, mentre era comune la meta. Ora sui mezzi non c’è più discussione, mentre la meta si è dissolta.

In un altro senso, il riformismo significa innovazione, cambiamento, progresso, contro la forza di inerzia conservatrice. E si sono combattute, in questa direzione, battaglie importanti. Ma anche questo significato mi sembra oggi obsoleto, per il semplice fatto che non ci troviamo più a scontrarci con la forza di inerzia conservatrice, ma al contrario con la potenza dispiegata dell’innovazione tecnologica e della mondializzazione del mercato. Innovazione contro conservazione non vuole dire più nulla.

Io proporrei di leggere il riformismo nel senso di “rimettere in forma’, di ricostruire la società come una forma organizzata, come un insieme condiviso di valori e di regole. Allora il riformismo si oppone alla disgregazione individualistica e alla dissoluzione della comunità, e fa tutt’uno con la politica, non quale “primato” ma come regolazione sociale che consenta di attivare meccanismi di inclusione e di accoglienza, in alternativa alla logica brutale di una competitività assoluta, che mette in gioco anche la dignità della persona.

L’oggetto del riformismo è quindi l’idea di giustizia, pensata nelle nuove condizioni del mondo, senza illusioni escatologiche, ma anche senza cedimenti, senza il cinismo di una politica che è solo adattamento passivo ai rapporti di forza. E la giustizia, nell’epoca della globalizzazione, non può che essere pensata nella sua dimensione mondiale. Lo scandalo del nostro presente è la distanza abissale tra il Nord e il Sud del mondo, e noi tutti siamo quotidianamente sfidati da questa contraddizione. La risposta della destra è l’immunizzazione: costruire una rete difensiva, e lasciare che il mondo dei disperati sprofondi nel nulla. È possibile un’altra risposta?

Il tema della giustizia ha oggi questa portata, e la ricerca dei giusti equilibri nell’ambito delle singole realtà nazionali va proiettata in una dimensione mondiale. E qui abbiamo tutti un grandissimo e colpevole ritardo. La politica, dunque, ha un senso, e può riacquistare forza di attrazione solo se cercherà di rispondere a questi problemi, se parlerà alla nostra intelligenza e alle nostre emozioni. Credo che ciò sia possibile, nonostante la forza di tutto ciò che ci spinge verso l’opacità degli interessi egoistici. Non dimentichiamo che in politica vince chi risponde ai problemi e interpreta i bisogni del suo tempo.



Numero progressivo: H62
Busta: 8
Estremi cronologici: 1999, marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Il Ponte”, marzo 1999, pp.20-28