IL VERO FEDERALISMO È DI SINISTRA

Seminario Interregionale SPI CGIL, Verona 9-10 dicembre 2004

Pubblicazione dell’intervento di Riccardo Terzi in qualità di Segretario Generale SPI CGIL Lombardia

Federalismo e diritti: il loro rapporto reciproco viene spesso frainteso, ponendo i due termini tra loro in contrapposizione. Il federalismo differenzia, e quindi mette a rischio l’universalità dei diritti, la quale può essere garantita solo da un forte potere regolatore centrale.

In base a questa premessa, c’è una forte corrente politica di sinistra che guarda con diffidenza al federalismo come a un potenziale fattore di smantellamento dei valori costituzionali, e c’è una parallela corrente di destra che, per la stessa ragione, simpatizza con la causa federalista, proprio in quanto essa ribalta il principio di eguaglianza ed esalta la diversità.

Anzitutto va contestato questo schema interpretativo, di cui spesso finiamo anche noi per essere prigionieri, anche solo per un inconscio riflesso condizionato: prudenti e timidi nell’azione di riforma, in quanto il tema dei diritti continua ad essere associato al modello centralistico di organizzazione dello stato. La prima verifica deve essere compiuta sul terreno dei fatti. Il centralismo statale, che avrebbe dovuto funzionare come presidio dell’eguaglianza, non ha per nulla impedito l’insorgere delle sperequazioni territoriali, le ha anzi alimentate e aggravate. Nella difesa dell’ordinamento attuale, si finge una sostanziale unità nazionale che non c’è, se non come finzione giuridica.

È chiaro infatti che il diritto al lavoro, alla salute, ad un livello di vita dignitoso, all’istruzione, alla sicurezza, si trova ad essere declinato, in via di fatto, in termini molto diversi nelle diverse aree del paese. Vivere a Napoli o a Bolzano significa, già oggi, avere di fronte un ventaglio di opportunità e di diritti di diversissima ampiezza. Il centralismo ha solo l’effetto di cristallizzare le situazioni di fatto, perché assume decisioni uniformi, le quali poi inevitabilmente, una volta calate in una realtà sperequata, producono effetti sperequati.

Non ha quindi nessun fondamento l’equiparazione tra diritti e centralizzazione, né in Italia né altrove, e nel corso della storia accade sempre che la battaglia per l’affermazione dei diritti assuma anche la forma di una battaglia per l’autonomia, per l’autogoverno, contro un potere burocratico che non sa interpretare i bisogni reali di una comunità, di un territorio. Nel catalogo dei diritti non dobbiamo mai dimenticare i diritti politici: la partecipazione alle decisioni e il loro controllo, la responsabilità di chi decide di fronte a chi è il destinatario delle decisioni, il valore quindi di un meccanismo trasparente di rappresentanza democratica.

Il processo storico reale vede la causa dei diritti non affidata all’istituzione dello stato, ma piuttosto alla battaglia per la sua democratizzazione. Lo stato moderno è stato edificato sullo scambio tra diritti e sicurezza: i cittadini consegnano i loro diritti naturali ad una autorità sovrana che ha il potere di imporre obbedienza e di garantire l’ordine sociale. Nella filosofia politica di Thomas Hobbes sta la chiave per svelare l’enigma del potere statale. Tutti gli sviluppi successivi tendono ad introdurre dei contrappesi, per impedire il formarsi di un potere arbitrario e dispotico. Il federalismo, se lo si vede in questa prospettiva storica, si pone esattamente questo problema: limitare il potere, tenerlo sotto controllo, mettere un argine al meccanismo che tende a produrre una società fondata soltanto sull’obbedienza. Il federalismo, in questo senso, è un movimento di autodifesa della società di fronte al tendenziale straripamento del potere statale. Questa è stata la sua motivazione storica. Lo si vede tuttora con sufficiente chiarezza in quell’originale modello politico rappresentato dalla Confederazione elvetica, con una società civile forte e un potere statale circoscritto, condizionato, che non può prevalere sull’autogoverno locale. E l’esempio più significativo di organizzazione federalista dello stato, quello tedesco, nasce come evidente risposta difensiva dopo gli orrori della dittatura nazista per impedire che possano ricrearsi le condizioni di un potere assoluto. Per evitare le degenerazioni del potere, è necessario che esso venga suddiviso, distribuito sul territorio, che ci sia una pluralità di luoghi e di istituzioni nei quali transita la decisione politica. È questa la corrente di pensiero nella quale si inseriscono le teorie federaliste: limitazione e distribuzione del potere, autogoverno sociale, rafforzamento delle istituzioni periferiche rispetto alle istituzioni centrali.

C’è in questa impostazione anche un elemento utopico e velleitario, e certamente c’è oggi da domandarsi se i problemi del governo politico nell’attuale società globalizzata possano ancora essere affrontati con una chiave interpretativa di questo tipo, se cioè possa ancora funzionare l’idea un po’ ingenua di una democrazia che nasce solo dal basso, come articolazione di un reticolo di forme di autogoverno locale.

La globalizzazione ci costringe a riesaminare tutto il problema della democrazia e dell’organizzazione politica, e il discorso si sposta necessariamente verso le grandi dimensioni continentali e sovrannazionali. Di questo stiamo appunto oggi parlando, dell’Europa allargata, delle sue istituzioni, delle sue regole. Anche il discorso sul federalismo va quindi aggiornato e rielaborato, ma senza perdere di vista il valore di fondo della sua ispirazione, la quale si riassume nel concetto che è bene tenere il potere sotto controllo e impedirne la concentrazione. Ed ecco una prima conclusione politica: il progetto di riforma costituzionale elaborato dal centro-destra in Italia non ha nulla a che fare con il federalismo, e al contrario è l’espressione di una tendenza opposta, in quanto l’architrave di quel progetto è la costituzione di un forte potere monocratico al centro del sistema, nella figura di un premier che, forte di un’investitura plebiscitaria, diviene l’esclusivo dominus della vita istituzionale, non controllato dal Parlamento, perché non è il Parlamento che può sfiduciare il premier, ma il premier che può a sua discrezione sciogliere le Camere, qualora cerchino di interferire nelle sue decisioni.

Che questa fortissima ricentralizzazione del sistema politico possa essere presentata come una riforma federalista fa parte dei misteri della politica italiana, e si spiega con l’incultura e con il cinismo di una classe dirigente raccogliticcia, pronta a qualsiasi acrobazia pur di affermare il suo potere. Nel fenomeno politico della Lega poteva esserci, in origine, un federalismo un po’ rozzo e plebeo, ma autentico. Ora possiamo semplicemente dire, sulla base dei fatti, che la Lega al governo ha significato un rafforzamento del centralismo statale, che di quell’impulso originario non è rimasta nessuna traccia significativa.

Il sistema delle autonomie locali ha oggi meno poteri e soprattutto meno risorse. La stessa autonomia statutaria delle regioni, che poteva essere una nuova grande opportunità, viene sottoposta alla censura preventiva del governo, che decide ciò che è accettabile e ciò che non lo è, impugnando le norme più innovative in materia di diritti civili, di accoglienza per gli immigrati, di partecipazione popolare. In sostanza, siamo in quel quadro teorico a cui ci siamo inizialmente riferiti, secondo il quale il federalismo è la negazione dei diritti. Alla destra interessa solo questo: indebolire la struttura dei diritti. Se le regioni vanno in questa direzione, bene. Altrimenti interviene l’autorità del governo. Non c’è affatto l’idea di un pluralismo dei progetti politici, ma c’è il pensiero unico del dogma neoliberista. Centralizzazione reale del potere e smantellamento della rete sociale e democratica sul territorio: la politica si riassume tutta nel meccanismo dell’investitura plebiscitaria, e per il resto agisce il mercato. In questa morsa, tra centralizzazione e privatizzazione, tutto il tema dei diritti non ha più cittadinanza.

Se è così, come a me pare, sarebbe davvero incomprensibile che noi lasciassimo cadere la battaglia per la riforma dello stato, quasi accettando la premessa del tutto falsa che la destra abbia messo in atto un processo di federalizzazione. In questo senso, c’è tutta una linea argomentativa spesso usata a sinistra che sembra indirizzata verso un falso bersaglio. Si denuncia il rischio di un eccesso di federalismo, di una rottura dell’unità nazionale, si pensa così di rispondere alla destra riattivando le risorse piuttosto logore della retorica nazionale, prendendo così sul serio un progetto di federalismo che è solo il frutto di una fantasia surreale.

Per quanto riguarda i diritti, essi hanno bisogno, per affermarsi, di un potere che sia esercitato in un rapporto di vicinanza con la realtà sociale concreta, con i bisogni reali nel territorio, con la dinamica effettiva di una determinata struttura sociale. Avvicinare il potere alla domanda sociale: è questo il filo conduttore di una possibile riforma dello stato. Questo significa una cosa: che i diritti prendono forma solo dentro un processo di autogoverno. Ciò comincia ad essere chiaro anche nel dibattito politico all’interno delle nostre regioni meridionali. Il Sud chiede anzitutto autonomia, e vede nell’autonomia la chiave per il suo possibile sviluppo.

L’unità dell’ordinamento costituzionale, che va certamente salvaguardata, non significa unità dei centri di decisione, ma unità dei principi, dei valori, degli obbiettivi di promozione sociale, i quali forniscono alla rete democratica dell’autogoverno locale il fondamento politico e giuridico della sua iniziativa. Il federalismo è unitario e solidale perché si regge su una comune base costituzionale. C’è una sola cittadinanza, non ci sono cittadinanze regionali. Ma c’è un esercizio autonomo della responsabilità politica per realizzare la cittadinanza costituzionale nei diversi contesti, attraverso soluzioni istituzionali, organizzative, gestionali, che possono presentare un ventaglio assai vario e differenziato. I diritti sono unitari, le politiche sono autonome e sono impiantate nella diversità delle realtà regionali. Questa è stata la linea ispiratrice che ha guidato, nella passata legislatura, la riforma del titolo V della costituzione. Si può criticare la macchinosità del meccanismo istituzionale che ne è scaturito, con tutta la complessità della legislazione concorrente, e si possono certamente introdurre correttivi e chiarimenti, ma la linea di marcia è del tutto condivisibile. Essa si riassume nell’idea che c’è un corpus centrale di diritti essenziali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale: diritti essenziali, e non prestazioni minime, residuali, di carattere assistenziale. Allo stato centrale compete, quindi, una legislazione di principio che fissi tali diritti fondamentali, e compete un’azione di vigilanza e di perequazione nella distribuzione delle risorse, per rendere effettivi questi vincoli costituzionali, lasciando per il resto piena autonomia ai poteri decentrati nella scelta degli strumenti e degli interventi attuativi. Quella riforma ha dunque rappresentato un’utilissima barriera difensiva che ha impedito alla destra di stravolgere completamente il nostro ordinamento costituzionale.

Senza quella decisione, azzardata ma giusta, ci troveremmo sicuramente di fronte ad una minaccia eversiva più forte e più pericolosa. C’è un punto decisivo che condiziona tutto il quadro istituzionale: quello delle risorse. È chiaro che si debbano offrire sotto questo profilo tutte le garanzie alle regioni più deboli, in modo che la loro autonomia non sia pregiudicata in partenza dal divario delle possibilità finanziarie. Si distribuisce il potere solo se si distribuiscono, in una misura corrispondente, le risorse. E anche sotto questo profilo il federalismo della destra è chiaramente un bluff, perché il governo scarica sulla finanza locale i costi del risanamento del bilancio statale.

Ma ora è tutta la nostra iniziativa riformatrice che deve riprendere slancio. La causa del federalismo è tornata interamente nelle nostre mani, perché la destra su questo terreno ha completamente fallito e travisato l’obiettivo. Se diamo l’impressione di esserci impauriti per la difficoltà dell’impresa e di tornare nella vecchia accogliente casa della retorica a buon mercato sull’unità nazionale, ci potremmo trovare ad affrontare una prossima bruciante sconfitta. In questa lunga e difficile transizione politica, vince chi ha il coraggio di imboccare una chiara strada innovativa, senza fermarsi di fronte al primo ostacolo.

Il nostro ordinamento statale, con tutte le sue antiche pesantezze burocratiche, non è più difendibile e va ricostruito su nuove basi. E in questa ricostruzione le idee-guida del federalismo ci indicano un’interessante linea di marcia: suddivisione del potere, controllo democratico, autogoverno, partecipazione, vicinanza delle istituzioni alla domanda sociale. In questa azione di riforma, il sindacato può avere un ruolo di primo piano. Perché non solo può prendere posizione sui temi istituzionali, ma può fare, può essere un attore determinante nei processi dell’autogoverno locale. Il federalismo non possiamo attendere che ci sia calato dall’alto, da una decisione illuminata quanto improbabile dei vertici politici, ma dobbiamo cominciare a praticarlo nella realtà delle relazioni sociali, cercando di prendere in mano, nei diversi territori, le decisioni che ci competono, in un confronto con tutti gli altri soggetti sociali e istituzionali. Il sindacato dovrebbe sempre avere questo profilo distintivo, quello di essere una forza che fa, che agisce, che pratica quello che dice, che implementa nella realtà materiale i suoi obiettivi e i suoi programmi. La riforma istituzionale non è un messaggio nella bottiglia che affidiamo a qualche ignoto destinatario, ma è un lavoro nel quale anche noi siamo direttamente implicati, esplorando nel territorio tutte le possibili forme di congiunzione tra autogoverno e diritti, tra nuova statualità e affermazione della cittadinanza sociale. In conclusione, la strada dei diritti è la strada dell’azione riformatrice per cambiare in profondità la struttura dello stato. Dobbiamo, su questo punto, ragionare in termini nuovi e liberarci di una vecchia forma mentis conservatrice. D’altra parte, da dove è venuto, in tutti questi anni, l’attacco ai diritti? Dal governo centrale. E nello scontro con il governo troviamo spesso un’alleanza forte con tutto il sistema delle autonomie locali. Modificare i rapporti, in termini di potere e di risorse, tra centro e periferia, significa spuntare le armi della destra e costruire una più forte e allargata rete sociale a presidio dei diritti di cittadinanza. Se il sindacato e la sinistra politica imboccano con decisione questa strada riformatrice, tutto il quadro politico può essere messo in movimento e può prendere forma un’alternativa vincente alla destra attuale: un’alternativa sociale, istituzionale, democratica.



Numero progressivo: C29
Busta: 3
Estremi cronologici: 2004, 9-10 dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Note: Questo documento avrebbe dovuto essere sistemato nella busta relativa al periodo dello SPI, ma per non separare il blocco tematico sul federalismo si è scelto in via eccezionale di inserirlo nella busta CRS
Pubblicazione: “Argomenti umani”, 2004, pp. 63-68