IL LEADER È NUDO

Partitura per una nuova classe dirigente

Il volume presenta due interventi di Riccardo Terzi scritti a più mani con Ettore Combattente, Luca De Biase, Biagio De Giovanni, Vincenzo Moretti, Rosario Strazzullo, Giancarlo Bosetti, Gennaro Marasca, Tobias Piller. Il volume è stato reso disponibile online alla pagina https://leadernudo.wordpress.com

Riportiamo la presentazione di Vincenzo Moretti, Rosario Strazzullo e Ettore Combattente, seguita dai due testi a cui ha contribuito Riccardo Terzi.

PRELUDIO

Alla base di questo lavoro c’è un’idea e un impegno di più persone.

L’idea che il nostro Paese ha bisogno che si costruisca una classe dirigente. Siamo convinti, infatti, che da questa gran corsa alla ricerca del leader, della figura carismatica, dell’uomo risolutore, non possa che venire un ulteriore pericoloso impoverimento della politica e quindi della vita di ciascuno.

L’impegno di non considerare inevitabile una tale deriva, di non rassegnarvisi, di combatterla con la forza delle idee, della proposta, della partecipazione, della responsabilità.

Un’idea e un impegno non semplici.

Perché la tesi che dalla definizione del leader e dai rapporti tra leader dipendono in larga parte i destini della nazione trova autorevoli sostenitori in tutti gli schieramenti.

Perché nel nostro Paese ci sono volute le inchieste della magistratura per scoprire le “qualità” della nostra classe dirigente e le prime elezioni della “seconda repubblica” per premiare chi prometteva un milione di posti di lavoro e si definiva Unto dal Signore.

Perché l’una e l’altro sono assai faticosi. Abbiamo fatto nostro un motto di Gadamer, Pazienza e Lavoro, un po’ per esserne sempre, anche simbolicamente, consapevoli e un po’ per esorcizzare gli agguati della sfiducia e della rassegnazione.

Un’idea ed un impegno da cui sono venute, in tempi diversi, più cose. Discussioni, iniziative, qualche saggio, un po’ di articoli su quotidiani più e meno importanti ed anche, e forse è l’aspetto più significativo, una concezione un po’ diversa della direzione politica e sindacale.

Da questa idea e da questo impegno è nato il bisogno di ricostruire luoghi e contenuti della discussione politica, nel momento in cui i partiti, anche quelli di sinistra, sembrano sempre più assomigliare a puri e semplici comitati elettorali.

Da qui il seminario di Vico Equense dove abbiam o discusso con Giuseppe Cotturri, Biagio De Giovanni e Riccardo Terzi di transizione, di democrazia compiuta, di programmi ed alleanze per una sinistra di governo.

Da qui il documento, di scusso da quattro sindacalisti, un parlamentare europeo, un giornalista, che Giancarlo Bosetti, direttore di Reset, ha voluto cogliere come spunto per ulteriori ricerche e approfondimenti.

Da qui il convegno e i materiali che troverete in queste pagine.

Chi avrà la voglia e l’interesse per leggerli, si renderà subito conto di trovarsi di fronte a “cose” diverse. Ci sono i “generalisti” e quelli che hanno scelto un approccio tematico, chi ha optato per un contributo sintetico, da “popolo dei fax”, e chi invece si è prodotto in una riflessione più ampia.

Approcci e tagli diversi, dunque, da parte di politici, amministratori, sindacalisti, ma anche persone alle quali abitualmente non viene chiesto di partecipare in questa forma ad una discussione collettiva.

Angelo D’Orsi ha scritto recentemente che da Aristotele ad Hanna Arendt c’è un’idea della politica fatta di partecipazione, di cui non è sufficiente ricercare il fine o lo scopo, ma a cui occorre dare un senso.

Se si vuole rafforzare la democrazia, migliorare le sue qualità, occorre dunque che ciascuno porti il proprio mattone.

Per quel che ci riguarda, molto semplicemente, stiamo provando a farlo.

Vincenzo Moretti, Rosario Strazzullo, Ettore Combattente

 

UN FUTURO PER LA POLITICA

VALORI, PROGRAMMI, CLASSI DIRIGENTI idee, valutazioni e proposte discusse tra: Ettore Combattente, Luca De Biase, Biagi o De Giovanni, Vincenzo Moretti, Rosario Strazzullo, Riccardo Terzi

 

  1. Il centro sinistra e la questione italiana

1.1. L’attenzione del mondo politico italiano è da tempo concentrata sulle prossime elezioni. Si discute di regole per assicurare ai contendenti uguali opportunità, di garanzie per coloro che usciranno sconfitti dalle urne, di tempi più e meno utili entro i quali eleggere il nuovo Parlamento. Le scelte, di breve come di lungo periodo, sembrano in larga parte subordinate a tale obiettivo e la tendenza ad amplificare, e a tratti esasperare, la loro importanza, è ampiamente diffusa. A nostro avviso, il voto servirà invece essenzialmente a determinare condizioni più o meno favorevoli all’avvio del processo di ricostruzione dello Stato democratico. Riteniamo perciò necessario un dibattito meno condizionato dalla politica giorno per giorno, dall’angoscia dell’appuntamento decisivo, dalla sindrome dell’ultima spiaggia. Del resto, le stesse vicende della sinistra italiana, tanto ricche di appuntamenti prima decisivi e poi mancati, consigliano maggiore prudenza e lungimiranza.

 

1.2. La tesi di fondo di fondo che intendiamo sostenere è che il centro sinistra, se vuole credibilmente proporsi come forza capace di rinnovare l’Italia, deve dare voce al bisogno di valori presente nella società e, contemporaneamente, definire la propria identità, ricostruendo le culture e i soggetti politici che lo compongono, valorizzando i pluralismi e le differenze in esso presenti. Per questa via esso potrà non solo spendere al meglio le proprie ragioni nel corso della competizione elettorale ma anche conquistare nuovi spazi di iniziativa ben oltre il voto ed i suoi stessi esiti.

 

1.3. La crisi di sistema con la quale si è chiusa la prima fase della repubblica si manifesta sempre di più come crisi di unità e di identità della Nazione e dello Stato. Essa ha travolto culture, soggetti e luoghi della politica e la sua risoluzione passa per la realizzazione di una compiuta democrazia dell’alternanza, fondata su regole condivise, in cui le differenze si determinano non sui principi ma sulle scelte programmatiche e di governo. In Italia, contrariamente a quanto avviene negli altri Paesi democratici, è questa una frontiera ancora tutta da conquistare. I tempi e le caratteristiche con cui tale processo potrà realizzarsi dipendono fortemente dall’impegno, la consapevolezza e la capacità di innovazione che le diverse forze sapranno mettere in campo.

 

1.4. Non ci si può dunque limitare alla individuazione di un leader. Né appare convincente la rincorsa a modelli di formazione e di definizione delle scelte tradizionalmente caratteristici delle forze di centro destra. Esse propugnano l’idea del capitalismo come società naturale ed utilizzano la crisi dei partiti per sostenere e dare una base di massa alla propria cultura plebiscitaria. Alle forze di centrosinistra spetta dunque il compito di rimotivare la politica, di rinnovarne le forme, di evitare che la costante opera di devalorizzazione dei partiti sia di fatto finalizzata alla costruzione di comitati e macchine elettorali, o, peggio ancora, di una sorta di Forza Italia di area progressista. I nuovi ed inediti problemi di partecipazione presenti nella società italiana richiedono necessariamente risposte complesse, regole democratiche che non lascino margini a tentazioni di tipo plebiscitario, analisi e approfondimenti che sappiano andare al di là della polemica politica quotidiana.

 

  1. Gli elementi di contesto

2.1. Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, con le vittorie di Margaret Thatcher in Inghilterra e di Ronald Reagan negli Stati Uniti, la destra afferma la propria capacità di presentarsi come forza moderna e innovativa, in grado di dialogare e di rispondere alle aspettative di ceti diversi. In qualche modo essa comprende in anticipo la crisi del rapporto tra blocchi sociali e scelte politiche e a tale crisi risponde riaggiornando e rilanciando quelle idee e ricette liberiste sulle quali edificherà la sua lunga stagione di governo nei principali paesi occidentali. Il mercato, la ripresa economica, l’innovazione tecnologica, la riduzione delle tasse oltre che obiettivi puramente economici diventano così modelli culturali attorno ai quali conquistare e consolidare la leadership sociale e politica.

 

2.2. Gli anni 90 sono segnati invece dalla crisi del liberismo. Sono gli anni in cui negli Stati Uniti i democratici riconquistano la leadership dell’Unione e nella Germania riunificata viene avviato, con uno sforzo senza precedenti e non ancora concluso, il programma per l’integrazione e lo sviluppo dell’est. La stessa vittoria di Jacques Chirac in Francia è resa possibile dal recupero di concetti e valori della destra plebiscitaria e popolare e non certo dall’impostazione rigorista che aveva reso famosa la signora di ferro. In Italia, la vittoria di Silvio Berlusconi nelle elezioni del 27 marzo 1993 presenta invece significativi caratteri di controtendenza. Vendendo sogni prima ancora che benessere, slogan piuttosto che concrete soluzioni ai problemi aperti, egli riesce a presentarsi, utilizzando messaggi generici e semplificati, come l’elemento di novità sulla scena politica italiana.

 

2.3. Negli stessi anni la sinistra, nonostante la forte spinta al cambiamento avviata a ridosso della caduta del muro di Berlino, appare statica, poco incline o comunque troppo lenta a cogliere le novità che vanno maturando nella società. La sua capacità di attrazione, fondata sulla difesa degli interessi e dei pezzi di welfare funzionali alla loro tutela, si riduce sempre più mentre la sua iniziativa appare determinata da condizioni di necessità piuttosto che da orientamenti e scelte politiche autonomamente assunte. Contemporaneamente, le stesse opzioni culturali e di valore alla base della sua azione di rappresentanza vanno offuscandosi, determinando una sua sostanziale identificazione con le strutture più burocratiche ed assistenziali della società. La sovrapposizione tra spesa sociale e spesa assistenziale, lo sfascio del sistema sanitario, l’inefficienza della pubblica amministrazione, sono alcuni degli esempi possibili in questa direzione. Sta di fatto che né gli avvenimenti dell’89, con le spinte liberatorie da essi determinati, né lo scoppio di tangentopoli, con i suoi effetti devastanti sui partiti e le classi di governo, bastano alla sinistra italiana per scrollarsi di dosso la sua immagine statalista e conservatrice.

 

  1. I caratteri della crisi italiana

3.1. La crisi italiana è magmatica, profonda, dagli esiti incerti. Essa si caratterizza contemporaneamente per la grande debolezza dello Stato e della Nazione, per la crescente forza dei poteri oligarchici e delle corporazioni, per il rapporto distorto tra i partiti, la società e lo Stato, per il costante prevalere delle formule e delle parole sui fatti, per la carenza di luoghi e spazi democratici. Siamo in presenza di un tale insieme di fattori da rendere difficile la sua rappresentazione perfino a livello terminologico. Agli slogan semplificatori del centro destra, il centro sinistra deve rispondere innovando, scegliendo i contenuti, proponendo riforme sul piano sociale, politico, istituzionale.

Alla società del conformismo e della superficialità che si regge su quelli che Norberto Bobbio ha definito i servi contenti, va contrapposta una società che valorizzi la creatività e le differenze. Una società che ha bisogno della partecipazione autonoma e consapevole delle singole persone, delle associazioni e delle forze sociali, delle amministrazioni e dei governi locali e nazionali. Una società basata sul rispetto delle regole. Una società nella quale fare bene e fino in fondo il proprio dovere è la condizione per poter rivendicare i propri diritti. Una società che sappia favorire le relazioni tra le persone che la vivono e la popolano e tra esse ed i diversi soggetti sociali, politici ed istituzionali che la governano.

 

3.2. A modelli gerarchici e centralizzati è necessario contrapporre la cultura della flessibilità, della responsabilità, del decentramento. Occorre moltiplicare i centri ed i protagonisti della politica ed adoperarsi perché la realtà torni ad essere rappresentata dai contenuti e non dalle forme in cui essa viene espressa. Occorre che la sinistra ritorni ai Valori, si mostri capace di suscitare attese e fiducia nel futuro potenziando e qualificando allo stesso tempo la propria proposta programmatica. È su questa strada che essa potrà ricostruire una propria funzione nazionale, invertire il processo di progressiva marginalizzazione del nostro Paese dall’Europa, contribuire a dare soluzione alla Questione Italiana.

 

3.3. La fine della prima fase della Repubblica ha lasciato in eredità una democrazia dai molti tratti illiberali, nella quale i partiti, compresi quelli di sinistra, hanno occupato spazi impropri ed hanno stabilito rapporti distorti con lo Stato ed i suoi poteri. Con la crisi del liberismo e il superamento della contrapposizione tra mercato e stato sociale ritorna la necessità di recuperare quei valori propri del liberalismo che hanno contaminato la parte migliore della cultura liberale e democratica dagli anni 30 ad oggi. La pluralità dei poteri, la loro autonomia e separazione, le funzioni di reciproco controllo rappresentano, in questo quadro, il terreno di ricerca da contrapporre alle spinte ed alle scorciatoie di tipo plebiscitario.

 

  1. Una nuova classe dirigente per ricostruire la democrazia italiana

4.1. La costruzione delle istituzioni della seconda fase della Repubblica rappresenta il compito prioritario di tutte le forze che intendono candidarsi al governo del Paese. I temi istituzionali vanno tenuti distinti dalla lotta politica quotidiana; il rapporto tra destra e sinistra ha qui un punto di verifica decisivo. Piuttosto che ad eventi propri della politica spettacolo o a frettolose abiure della storia, riteniamo perciò che il processo di reciproco riconoscimento e legittimazione vada affidato alla coerenza ed all’impegno con il quale si contribuisce alla ricostruzione dello Stato democratico e alla formazione di una nuova classe dirigente.

 

4.2. L’Italia ha oggi più che mai bisogno di una classe dirigente che sappia indicare, innovando, le ragioni di una nuova unità della Nazione; che riconosca la non esaustività delle problematiche sociali; che sappia coniugare il bisogno di autonomia e quello di solidarietà; che abbia consapevolezza della rilevanza che, nell’era della competizione globale, rivestono le economie di sistema, i fattori ambientali, gli ambiti territoriali; che sappia perciò guardare con un approccio federalista al tema dello Stato. Interpretare i mutamenti avvenuti nell’economia e nella società e corrispondervi ridefinendo e rafforzando i compiti dei poteri locali e territoriali ci sembra il modo migliore per evitare che la discussione sul federalismo si esaurisca tra parole roboanti e frasi ad effetto molto spesso vuote.

 

4.3. La costruzione di una nuova classe dirigente è un processo certamente più laborioso della ricerca di un leader. Essa ha bisogno, per formarsi, che la cultura e l’esercizio della partecipazione, della responsabilità e del controllo prevalgano sulla delega; che i legittimi interessi che ciascuno rappresenta siano comunque subordinati all’interesse generale; che le regole sostituiscano la discrezionalità e l’arbitrio. Non è certo un caso se dall’educazione dell’ordine mezzano al quale si dedicava il Genovesi, alla ricerca dei cento uomini di ferro teorizzata da Dorso, alla costruzione della società di mezzo di cui si discute ai giorni nostri, i passi avanti realizzati non sono stati né quelli auspicabili, né quelli necessari. Eppure, a nostro avviso, proprio da qui potrà venire un contributo importante al compiuto sviluppo della democrazia italiana.

 

4.4. Per questo non ci convince una concezione della politica tutta incentrata sul rapporto fra leader e riteniamo debba essere combattuta la tendenza ad affrontare temi decisivi con un tatticismo troppo spesso esasperante. Si tratti di regole o di federalismo, di lavoro o di Mezzogiorno, di giustizia o di aborto, niente sembra sfuggire a tale destino. Invertire tale tendenza è possibile se si definisce un nuovo protagonismo ed un più deciso apporto dei poteri e della società diffusa, dagli amministratori locali agli imprenditori, dalle associazioni ai sindacati, ai cittadini. L’esperienza pure importante che si sta realizzando attorno a Romano Prodi, va dunque potenziata, ampliata, non lasciata isolata. Così come è necessaria una discussione più approfondita e meno conformista sui valori e i contenuti programmatici che sono alla base dell’alleanza politica di centro sinistra. A cominciare dal valore del lavoro.

 

  1. Il Nuovo Corso italiano: il valore del lavoro

5.1. La possibilità di un Nuovo Corso italiano, la costruzione di una risposta nazionale alla crisi del Paese, hanno nell’affermazione del valore del lavoro, il proprio centro, il proprio motore, la propria anima. E se è vero, come noi riteniamo, che i numerosi elementi di rottura che caratterizzano la crisi italiana hanno una ragione fondamentale nell’incapacità e nella non volontà di cogliere appieno la relazione esistente tra mancato sviluppo del Sud e mancata modernizzazione del Paese, è evidente che il Mezzogiorno torna prepotentemente a rappresentare una frontiera decisiva per il futuro dell’Italia. Il vero e proprio processo di identificazione tra Questione Lavoro e Questione Meridionale è ormai un dato di fatto. E nel contesto europeo il dualismo italiano, con un mercato meridionale sempre meno indispensabile alla struttura produttiva di un Nord d’Italia sempre più integrato in Europa, è un fattore destinato a moltiplicare le spinte di tipo secessionista. È tempo dunque che una nuova politica per il Sud, che sappia coniugare interessi e solidarietà, che avvii finalmente una fase di sviluppo autopropulsivo, diventi una concreta priorità per l’intero Paese.

 

5.2. Assumere il lavoro come valore vuol dire realizzare un grande programma di qualificazione e di valorizzazione delle capacità culturali e produttive delle persone, in primo luogo quelle meridionali; potenziare gli strumenti legislativi e contrattuali previsti a sostegno dell’occupazione; decentrare e qualificare, ridefinendone compiti e funzioni, il Ministero del lavoro, le Agenzie per l’impiego, gli Uffici di collocamento; adottare programmi formativi all’interno delle aziende e schemi di orari flessibili e ridotti; combattere il lavoro nero ed illegale e sostenere il lavoro autonomo regolare e la piccola impresa. In questo quadro, diventa sempre più decisiva la capacità di integrazione e di coordinamento con l’Unione Europea. Con la fine dell’intervento straordinario, infatti, i fondi europei rappresentano le sole risorse aggiuntive effettivamente disponibili e la loro corretta attivazione è essenziale per dare credibilità e sostanza ad una strategia che punti decisamente alla Creazione ed alla Diffusione d’Impresa.

 

5.3. Il Sud ha bisogno di sviluppo diffuso. Lo sviluppo diffuso, per non restare soltanto uno slogan, ha bisogno che si rafforzino i Poteri Locali, che si investa in legalità, formazione, infrastrutture avanzate, che si promuovano e si valorizzino anche nel sud le esperienze dei distretti industriali.

Per questa strada passa la stessa possibilità di affermare una cultura imprenditoriale meno schiacciata sulla ricerca forsennata del profitto. Creare nuova ricchezza, partecipare al processo di rafforzamento della struttura democratica della società, incentivare l’autonomia, la responsabilità, le relazioni, sono alcuni caratteri possibili di una nuova funzione sociale dell’imprenditore.

 

  1. Il Nuovo Corso italiano: il valore della socialità

6.1. In una società avanzata, al valore del lavoro deve corrispondere il valore della socialità. Le persone non vanno solo protette e risarcite dalle conseguenze di una competizione sempre più spinta, ma vanno sostenuti in tutto l’arco della loro vita con politiche di promozione e di valorizzazione delle loro capacità fisiche ed intellettuali. La promozione della persona, della sua libertà, della sua autonomia, rappresenta il fondamento di ogni moderna concezione dello Stato Sociale. In questo quadro, l’azione sociale dello Stato deve riguardare innanzitutto le nuove generazioni. I giovani rappresentano infatti la principale risorsa per il futuro in una società che sarà sempre più fondata sulla flessibilità, la velocità, l’innovazione, il cambiamento.

 

6.2. Le politiche scolastiche e formative rivestono dunque una straordinaria importanza così come, in tale ambito, l’estensione e la tutela dell’obbligo scolastico e la lotta al lavoro nero e minorile. Le stesse politiche di sostegno alle famiglie numerose e monoreddito vanno sviluppate condizionandole al rispetto dell’obbligo scolastico. All’idea di un’istruzione sempre più dequalificata va contrapposto un programma finalizzato all’innalzamento del numero di diplomati ed al restringimento della forbice tra iscritti all’università e laureati. L’istruzione e la formazione dovranno rappresentare l’interfaccia delle politiche per l’occupazione, soprattutto quella giovanile.

Si afferma in questo modo una concezione del lavoro come esperienza insostituibile di autorealizzazione e socializzazione, come contributo allo sviluppo dell’economia e della società.

 

6.3. Una società può definirsi veramente avanzata se è in grado di valorizzare il potenziale di innovazione di ciascuna classe di età, comprese quelle più anziane. Il recupero di valori come la memoria e l’esperienza, la realizzazione di sistemi flessibili tra formazione e lavoro e tra lavoro e pensione, la domanda di reintegrazione possono e debbono rappresentare, a cinque anni dal 2000, un’occasione e una risorsa. I servizi alle persone sono infatti decisivi per impedire che lo sviluppo tecnologico determini fenomeni di disintegrazione sociale, di emarginazione e di vera e propria perdita di identità per fasce sempre più consistenti di cittadini. Da qui la necessità di istituire un mercato sociale volto alla soddisfazione della domanda di reintegrazione, di assistenza e di cura del cittadino utente. Crescita dell’occupazione, incrementi della produttività sociale e ruolo di un welfare riformato rappresentano, in questo quadro, gli aspetti diversi e complementari delle politiche di un’Italia che sarà tanto più moderna quanto più saprà riconoscere il bisogno di investire in socialità.

 

  1. Pazienza e Lavoro

7.1. Un grande filosofo contemporaneo ritorna spesso sulla necessità di affrontare la vita e le difficoltà piccole e grandi, individuali e collettive che essa ci fa incontrare, con Pazienza e Lavoro. Ci sembra francamente che nel nostro Paese ci sia, dell’una e dell’altro, estremo bisogno. Più che cose nuove, si vedono in giro tante cose vecchie con un nome (qualche volta) nuovo. E poi superficialità e conformismo in dosi massicce e non di rado fastidio per le opinioni diverse. Forse per questo ci piacerebbe che alle prossime elezioni il centro sinistra si facesse interprete del bisogno di diffondere la democrazia. Forse, potrebbe essere qualcosa di più di uno slogan. Potrebbe essere l’alternativa vera a chi sostiene che, se servono un milione di posti di lavoro, debba scendere in campo Berlusconi; o che la tutela della legalità è un affare che riguarda Di Pietro (ieri) o Caselli (oggi); o anche che per risolvere i problemi di Napoli e di Roma basta affidarsi a Bassolino e Rutelli. Non è un alternativa semplice, neppure per il centrosinistra. Eppure il segreto potrebbe essere proprio qui. Nella capacità di prospettare un futuro nel quale ci sia spazio per l’impegno e le ragioni di ciascuno.

 

 

RITORNO A UN FUTURO

Conversazione di una sera a Napoli tra: Giancarlo Bosetti, Biagio De Giovanni, Gennaro Marasca, Vincenzo Moretti, Tobias Piller, Riccardo Terzi

 

VINCENZO MORETTI

Fossimo già alla generazione dei computer intelligenti il mio ad un certo punto mi avrebbe detto: caro Moretti, o ti decidi o smetti. E ne avrebbe avuto sicuramente motivo.

Continuavo a scrivere tre righe, a cancellarle, a riscriverle.

Per quanto, come è noto, il “dare inizio” comporti sempre non poche difficoltà, è probabile che la mia angoscia fosse la nemesi dell’analogo sentimento provocato dalla richiesta di mettere per iscritto opinioni, valutazioni, contributi, in relazione ai temi trattati nel documento.

Vorrei espiare la mia parte di colpa ringraziando coloro che per questa via hanno voluto arricchire uno schema di ragionamento “a più voci” con argomenti e considerazioni che certamente ci saranno utili, e dare l’ennesima dimostrazione di quanto è facile perseverare nell’errore invitando coloro che non l’hanno ancora fatto a seguire l’esempio dei primi.

Qual’ è il senso della nostra iniziativa? Intendiamo contribuire ad alimentare una discussione politica senza le angosce di un prossimo e risolutivo appuntamento elettorale. Com’è ovvio, non ne sottovalutiamo l’importanza ma riteniamo, come abbiamo scritto, che esso servirà essenzialmente a determinare condizioni più o meno favorevoli per l’opera di ricostruzione dello Stato democratico.

Intendiamo contribuire al processo di ricostruzione di luoghi, forme, contenuti della Politica. Una politica che viva di cose da fare e non solo di alleanze; una politica fatta di rapporti consapevoli tra persone, associazioni, sindacati, partiti, istituzioni. Una politica che possa rappresentare, come ha teorizzato Hanna Arendt, la sfera dell’esistenza autentica di ciascuno di noi.

Intendiamo in questo senso ribellarci all’idea dell’inevitabile fine della politica, del passaggio ineluttabile dalla democrazia alla videocrazia.

Intendiamo in definitiva sostenere la necessità della politica come importanza della conoscenza, scelta consapevole, partecipazione alla cosa pubblica.

Viviamo tempi nei quali queste cose, probabilmente persino banali, non hanno, per così dire, facile ascolto. Sembra esserci sempre un appuntamento decisivo dietro l’angolo, il conformismo trova solidi alibi nella ragion di stato, l’obbedienza continua ad essere da più parti considerata la più auspicabile delle Virtù.

Io vorrei invece provare a spendere qualche parola e, spero, qualche ragione, a favore della Profondità, e delle Differenze.

C’è in giro una voglia di semplificazione che a mio avviso non prelude a nulla di buono. Essa può favorire soltanto quelle forze che guardano al passaggio dalla prima alla seconda fase della Repubblica come ad una gigantesca opera di restyling del vecchio sistema.

Lo stesso concetto di velocità, velocità dei cambiamenti, delle comunicazioni, applicato alla politica sembra essere operante soltanto in una dimensione orizzontale. Si è veloci in quanto si toccano tante cose, non importa se in maniera superficiale e caotica; si è veloci perché si parla di tutto, quale che sia il grado di competenza.

La velocità assai di rado va dall’alto in basso, alla ricerca di storie, culture, radici; o in senso contrario, in maniera tale da determinare comportamenti e scelte proprio per questo consapevoli.

Ed invece la profondità e la consapevolezza appaiono indispensabili per pensare, progettare, proporre un’ipotesi di rinnovamento di culture, regole, programmi, che si prefigga credibilmente di coinvolgere e rendere partecipi gli uomini e le donne, le Persone di questo Paese.

Credo che ricordiamo tutti il vecchio motto del Gattopardo, “cambiare tutto per non cambiare niente”.

Probabilmente, la ricerca del nuovo ad ogni costo, quello che Giovanni Sartori ha chiamato “novitismo”, impedisce oggi un’operazione analoga; ma dietro la gran fretta di Seconda Repubblica corre oggi il rischio di affermarsi la democrazia dei sondaggi, la “Sondocrazia”, come è stata definita, nella quale al cittadino si sostituisce il consumatore, o la Società dei servi contenti, se si preferisce usare una definizione di Norberto Bobbio.

Bisogno di Profondità, dunque, e bisogno di Differenze.

Viviamo in un Paese nel quale siamo tutti democratici, a partire da coloro che come massimo luogo della democrazia hanno il tinello di Arcore o il salotto di via dell’Anima; siamo tutti liberisti, quelli che lo confondono con il liberalismo e quelli che invece si limitano ad equipararlo alla tutela dei propri interessi particolari; siamo tutti solidali, come dimostra la legge sugli extracomunitari in discussione in parlamento.

Se è vero che la qualità di una democrazia è data dalle differenze che in essa si confrontano c’è dunque da essere seriamente preoccupati.

E l’atteggiamento eccessivamente difensivo, sul terreno dei valori, dei programmi, della tutela degli interessi, che mostra il centro sinistra non aiuta a mio avviso sufficientemente a superare il deficit di differenza, e di democrazia, che vive oggi la società italiana.

Il centro sinistra vince se è in grado credibilmente di valorizzar e creatività e differenze, se al valore della gerarchia saprà opporre quello della responsabilità, alla concezione centralistica la diffusione ed il decentramento dei poteri, al leaderismo esasperato la formazione di una nuova classe dirigente.

Il centro sinistra vince se fa politica andando oltre la riproduzione di sé stesso, se è capace di interpretare quanto avviene nell’economia e nella società e di definire le regole e le scelte più utili al loro sviluppo.

La perdita di identità e di ruolo che colpisce fasce sempre più ampie di persone e di società può essere combattuta se si definiscono protagonismi e si diffondono poteri ed autonomie.

La nuova classe dirigente non può che nascere da qui, dalla verifica sul campo di idee, aspirazioni, comportamenti; dalla costruzione di un sistema nel quale la possibilità di vedere soddisfatta la propria utilitas sia strettamente collegata al rispetto delle leggi e delle regole democraticamente definite; da una partecipazione attiva dei cittadini alla vita, alla gestione e al controllo della res pubblica.

Vorrei insistere su questo punto. La contrapposizione tra valori ed idee da un lato e interessi dall’altro non credo che ci porti molto lontano.

Nei nostri “spunti” tentiamo per l’appunto di evidenziare il legame forte a nostro avviso esistente tra valori e dunque idee, programmi e dunque cose da fare, interessi da rappresentare e da mediare, classi dirigenti e dunque confronto di idee e valori, programmi e interessi, e loro governo.

Erich Fromm, in Etica e Psicanalisi, ha sostenuto che il problema non è che la gente si occupa troppo del suo interesse, che siamo troppi egoisti: il fatto è che non amiamo noi stessi.

Forse può rilevarsi di una qualche utilità guardare a ciò che è stato questo Paese negli ultimi quindici anni con l’occhio di chi ritiene che la maggior parte degli italiani ha tentato di perseguire il proprio interesse senza amare sé stessi, le proprie città, la Nazione, lo Stato.

Vorrei fare due esempi concreti di questo legame che c’è tra valori, programmi, interessi, e di come esso, quando è reso esplicito, spinge alla partecipazione, produce confronto e, spesso, consenso, tutela interessi.

Il primo riguarda la riforma delle pensioni.

In principio è stata la difesa di un valore, il valore della solidarietà, del rapporto solidale tra le generazioni.

Poi è stata la definizione di proposte coerenti con quei valori ed insieme il coinvolgimento di milioni di persone, lavoratori, pensionati, giovani, per sostenere quei valori e quelle proposte.

Poi è stato un accordo sindacale e migliaia di assemblee per chiedere l’approvazione di quell’accordo.

Poi sono rimasti tanti problemi aperti, sofferenze vere ed altre indotte da scarsa informazione.

Ma in democrazia non esiste la soluzione finale, quella è roba dei regimi totalitari. La democrazia è tale perché è fatta di scelte assunte a maggioranza e sempre reversibili.

Sta di fatto che abbiamo una riforma ispirata a principi di solidarietà, che sono stati tutelati gli interessi dei pensionati, dei lavoratori, delle future generazioni.

Il secondo riguarda i giovani.

Franco Tatò, amministratore delegato della Mondadori, ha sostenuto recentemente che con l’avvento della società digitale i due principali fattori di successo saranno rappresentati dall’intelligenza e dall’educazione. E Nicholas Negroponte, responsabile del Medialab presso l’M.I.T. di Boston, ha affermato che essa, la società dell’informazione, sarà prima di tutto la società dei giovani.

Da quanto tempo la Politica nel nostro Paese non si occupa seriamente di educazione, scuola, formazione? Eppure questi giovani, dei quali ci siamo accorti per l’ultima volta quando abbiamo scoperto che alle elezioni del marzo 94, tra il nulla e le false promesse di Berlusconi avevano scelto queste ultime, vanno in giro per le strade delle nostre città dopo aver preparato una piattaforma rivendicativa e dopo averla discussa in migliaia di assemblee.

Certo, possiamo anche continuare a pensare che sono sacri e fatui fuochi giovanili, o perfino che ogni anno è la stessa storia.

E se invece provassimo, sindacato, insegnanti, genitori, a pensare, come direbbe la Arendt, mettendoci al loro posto, a dare loro sedi e luoghi di confronto, a sostenere per davvero almeno ciò che riteniamo sostenibile delle loro richieste? Se provassimo, come alcuni di loro hanno scritto, a cogliere gli elementi di disagio e di malessere, a capire i bisogni reali che caratterizzano la loro vita quotidiana? Forse c’è qualcosa di nuovo in giro per le scuole e ancora una volta riguarda valori, programmi, interessi. Forse fare Politica è aiutare la crescita di tutto questo.

La strada che abbiamo davanti, se non è un sentiero, è comunque molto lontana dall’ampiezza necessaria a farci procedere con tranquillità.

Del resto, già ai suoi padri nobili era noto che la democrazia è difficile.

Anche per questo richiede dosi massicce di pazienza e lavoro.

 

RICCARDO TERZI

Ringrazio Moretti che mi ha voluto coinvolgere in questo lavoro. Mi sembra che esso testimoni la presenza in questa città di fermenti positivi, la volontà di analizzare le cose e i fatti della politica con un po’ più di profondità, il cercare di andare oltre un modo di fare politica tutta propagandistica, fatta più che altro di slogan e di retorica.

Probabilmente, nella società italiana questi fermenti positivi sono diffusi in misura più ampia di quanto solitamente non appaia. Ci sono persone, associazioni, movimenti che cercano di fare e che però non emergono a sufficienza.

Prevale infatti la politica spettacolo, fatta soltanto da poche persone, e non riesce ad assumere la necessaria consistenza quella diversa concezione capace di restituire alle persone, ai soggetti, luoghi, sedi, strumenti di confronto democratico.

Non appaiono ancora evidenti i modi attraverso i quali la politica può ridiventare partecipazione effettiva e riacquistare caratteri di massa.

A mio avviso, l’Italia si trova oggi in una situazione a rischio in primo luogo per questi fenomeni di svuotamento e di degrado della politica.

Non sono tanto le minacce secessioniste di Bossi il pericolo per il nostro Paese; è la politica nel suo insieme che sta subendo dei processi negativi, di restringimento oligarchico dal versante dei protagonisti e di svuotamento dal punto di vista dei contenuti.

Credo che occorra reagire a tale stato di cose e provare a individuare delle soluzioni e delle risposte.

Nella traccia di documento da cui siamo partiti mettiamo al centro un punto: la necessità di costruire, ai vari livelli, una classe dirigente. Contrapponiamo questa necessità al leaderismo sfrenato, alle spinte alla personalizzazione della politica, all’illusione che tutto si risolva, come sembra credere Mario Segni, nel momento stesso in cui il premier sarà votato direttamente dal popolo.

Io non ci credo affatto. Ritengo anzi queste soluzioni del tutto false e illusorie. Esse corrono il rischio di favorire una deriva di tipo autoritaria, poiché favoriscono la concentrazione del potere in un unico punto.

La politica non può essere ridotta ad una ricerca affannosa dell’uomo salvifico. Una tale politica, infatti, non solo non ci porta da nessuna parte, ma ha molte probabilità di produrre degli esiti negativi.

D’altra parte, un leader si giudica dalla capacità di fare classe dirigente. Personalmente continuo a ritenere un buon metodo quello di valutare le persone guardando agli uomini di cui si circondano.

Si può fare un esempio facile, forse scontato: Giulio Andreotti.

È una persona sicuramente intelligente, che ha un suo fascino, e che può perfino indurre un moto di simpatia. Se però pensiamo a chi sono stati, a chi sono, gli andreottiani, allora sappiamo che di Andreotti non ci si può fidare. Qual è stato infatti il sistema che si è costruito intorno? Il sistema dei Lima, degli Sbardella, dei Pomicino.

È molto importante perciò guardare non solo al leader, ma al sistema di potere, al tipo di classe dirigente che si forma attorno a lui. Da questo punto di vista, quando penso che tra gli esperti scelti da Romano Prodi ci sono uomini come Luigi Spaventa e Valerio Onida, mi sento più tranquillo, perché vedo che lì c’è lo sforzo di scegliere delle persone serie.

Il problema della classe dirigente va visto in una dimensione molto ampia.

C’è ad esempio un problema di classe dirigente a livello locale.

A questo proposito possiamo dire che c’è stata, c’è, una crescita di ruolo dei comuni, in particolare per effetto della nuova legge elettorale. Ma se i sindaci stanno diventando delle figure importanti nel panorama politico nazionale, permane una grave carenza di classe dirigente locale, una diffusa debolezza dei poteri locali, a cominciare da gran parte delle Regioni.

La scelta, che io credo necessaria, del federalismo, può allora contribuire a determinare una inversione di tendenza. È una scelta che va in direzione della responsabilità, dell’autonomia, della diffusione di classi dirigenti locali che non siano dei portaborse di qualche leader nazionale, così come è stato fino ad un recente passato.

C’è poi un problema di classe dirigente r elativa all’amministrazione dello Stato. Anche qui c’è un problema di riforma, di responsabilizzazione di una nuova dirigenza statale che sia adeguata ai nuovi obiettivi.

C’è un problema di nuova classe dirigente nell’impresa, nell’imprenditoria, che può essere definito anche come bisogno di superare la sclerosi di un sistema capitalistico fatto soltanto di poche famiglie.

Quello della classe dirigente è dunque un problema a più dimensioni che non si risolve certo con qualche meccanismo elettorale o con l’illusione presidenzialista.

Una società complessa non si dirige da un unico punto; richiede una poliarchia, che è una pluralità di strumenti e di sedi decisionali.

Come fare? Come si costruisce un a classe dirigente? Va detto innanzitutto che è un processo lungo. A scegliere un premier ci vuole relativamente poco, per costruire una classe dirigente ci vogliono anni.

Come diceva Moretti, cerchiamo di non guardare solo al traguardo delle prossime elezioni, proviamo a darci una prospettiva strategica di più ampio respiro.

Una classe dirigente non nasce dal nulla, si costruisce se c’è una v ita democratica ricca, se sono forti i soggetti della politica, se funzionano i luoghi della democrazia. Per questo dobbiamo lavorare molto attorno al tema dei soggetti, dei luoghi e delle forme della democrazia.

Sono entrati in crisi i vecchi soggetti, i vecchi partiti, ma se non troviamo altri strumenti, altre forme, rischiamo di avere il deserto.

Qualcuno si è illuso che, messi da parte i partiti, ci sarebbe stata una sorta di automatica fioritura della società civile. Io credo che così non è. La società civile va organizzata, sostenuta, se non vuole essa stessa cadere preda delle miserie, le ristrettezze, le angustie di posizioni puramente egoistiche.

C’è bisogno di ripensare le forme della politica in modo diverso dal passato. Ai partiti macchina, troppo chiusi e burocratici, occorre sostituire forme aperte, reti e strumenti di partecipazione tesi a comunicare con la società, a organizzarla, capaci di rompere le strutture oligarchiche che rischiano di essere ancora una volta prevalenti. Il pericolo, altrimenti, è che la liberazione dai partiti si traduca nell’affermazione di una oligarchia ancora più ristretta nell’economia, nell’informazione, nella politica.

Credo che non si possa fare a meno di questo processo lungo se si vogliono ricostruire i soggetti della politica come soggetti forti, radicati, capaci di comunicare con la società.

Il sistema politico avrà i suoi tempi di maturazione e forse sarebbe bene evitar e atteggiamenti ossessivi.

Una ossessione diffusa, a mio avviso, è quella del bipolarismo a tutti i costi. Ovviamente anche io auspico che si vada in una direzione tendenzialmente bipolare, che venga superata l’attuale frammentazione, però non ne sarei così ossessionato, altrimenti si rischia veramente di impoverire ogni cosa.

La domanda che si fa oggi più comunemente è: “questo con chi sta”? Un esempio? Di Pietro.

Sta a destra, a sinistra, f orma un nuovo raggruppamento di centro? È il quiz nazionale. Poi ci sono quelli che pensano che è meglio che non stia da nessuna parte perché i posti sono già esauriti, non c’è più spazio per nessuno.

Io invece sarei interessato a capire quali sono le sue idee, i suoi programmi ed in ogni caso ritengo utile che una persona del prestigio di Di Pietro dia il suo contributo alla vita politica senza sentire il bisogno di chiedergli a priori se sta con me o contro di me, senza avere il problema di sapere quanti voti porta e a chi li porta.

Non lasciamoci imprigionare dentro schemi troppo rigidi. Abbiamo bisogno ancora di molti contributi diversi, anche se come è ovvio c’è l’esigenza di trovare aggregazioni, alleanze, schieramenti.

Prima di arrivare agli schieramenti ragioniamo sulle cose della politica, per che cosa e a che cosa serve, su quali obiettivi ci diamo e come intendiamo raggiungerli.

È su questo terreno, lo diceva Moretti, che ancora non emergono i n modo sufficientemente chiaro le discriminanti programmatiche di fondo tra centro destra e centro sinistra. Ed è qui che c’è da lavorare per ridefinire in modo chiaro quali sono i nostri obiettivi.

In questi anni sono successe molte cose che, per così dire, hanno spiazzato la politica, ed in particolare la sinistra. Processi di mondializzazione dell’economia, luoghi delle decisioni sfuggiti al nostro controllo, l’economia che sembra vivere oramai con delle proprie regole oggettive e che riesce a comandare la politica. Proprio così. La politica oggi sembra essere relegata ad una funzione di ancella delle leggi economiche.

Tutto questo ha creato nelle nostre società, e in Italia in particolare, fenomeni preoccupanti di disgregazione sociale.

Mentre nel passato lo sviluppo economico capitalistico creava ricchezza, creava progresso civile nel suo complesso, oggi non è più così. Capitalismo e società entrano in collisione, si determinano fenomeni crescenti di esclusione sociale, di perdita della cittadinanza, non soltanto al sud.

O ci misuriamo con queste cose oppure la sinistra non avrà una propria fisionomia comprensibile e una sua forza di attrazione. Occorre per questo definire le differenze, le discriminanti programmatiche, misurarsi con i processi reali che sono avvenuti, i cambiamenti economici, i cambiamenti sociali che stanno davanti a noi e tentare di dare delle risposte.

Questo mi pare il compito della sinistra, la sinistra in senso lato, dei partiti, delle forze sociali, del sindacato.

Sono convinto che in questo processo anche il sindacato debba avere una sua funzione. Esso non si salva ritagliandosi una propria nicchia di tipo corporativo, magari immaginando di potersi occupare soltanto degli interessi immediati di coloro che organizza e che rappresenta.

Sarebbe questa, a mio avviso, una strada sbagliata. Il sindacato, nella propria autonomia, può essere protagonista se si misura con i temi di fondo della transizione italiana, se riesce ad offrire ai lavoratori un orizzonte non solo di carattere economico immediato, se è capace di affrontare i nodi della cittadinanza, dei Sono questi gli interrogativi da cui siamo partiti ed è questo il senso di una ricerca in larga parte ancora da fare.

 

GIANCARLO BOSETTI

Non c’è dubbio che tra la nostra rivista e il documento che ad un certo punto mi è capitato davanti, a firma di Moretti, Terzi, De Giovanni ed altri, si è sviluppata una sintonia tale da farmi pensare che l’iniziativa andasse accolta, non lasciata cadere come è nella sorte di tanti documenti, e dovesse essere alla base di un lavoro.

Personalmente ho trovato in quel documento due spunti ai quali ci possiamo appigliare per iniziare un lavoro di ricerca che forse ci avvicina ad una possibile soluzione di un problema enormemente complicato che è il problema della sinistra ed insieme della destra: è il problema della politica italiana, e forse non solo di quella.

Il primo è rappresentato dall’idea del lavoro, concetto certo non nuovo, ma lì proposto come richiamo forte della politica del fare.

Qualcosa di diverso, insomma, dalla riproposizione del lavoro all’interno di una politica laburista, socialdemocratica, per quanto nobile, di vecchio stile.

Il secondo è l’idea della classe dirigente e l’esigenza, più volte sottolineata, di coltivarla, costruirla.

Mi ha colpito la consapevolezza della mancanza di una classe dirigente, il senso forte del deficit di una élite, tanto forte da contenere in sé l’esigenza positiva di avercela.

Va detto che il concetto di classe dirigente e il concetto di élite, che sono analoghi, anche se non sono la stessa cosa, indicano qualcosa di abbastanza problematico in una visione tradizionale dell’uguaglianza, in una determinata visione del progresso storico. Se in tale ambito insistiamo sul ruolo della classe dirigente, allora abbiamo chiaro il fatto che ad una parte della società tocca un compito diverso, più importante di quello che tocca a tutti gli altri, e dunque per certi versi speciale. Da questo punto di vista è un’idea, un concetto che può essere accusata di elitismo, dato che individua una responsabilità speciale che tocca ad una parte della società rispetto a quella che tocca a tutti i cittadini.

Questa idea ha una sua storia. Ci sono interpretazioni più o meno estreme del ruolo di questa parte della società, qualche volta definita come la borghesia, qualche volta definita come l’avanguardia intellettuale. Allo stesso tempo essa è collocata in un mare molto mosso, dove bisogna navigare con prudenza, per non arenarsi sugli scogli di una visione aristocratica.

Sta di fatto che io ho provato una immediata simpatia con quel documento, con quella riflessione, che veniva da Napoli ed era collegata esplicitamente al ragionamento fatto sul fallimento della rivoluzione napoletana, a Cuoco e al sentimento forte del deficit di una classe dirigente.

Dopo l’89, dopo il crollo del socialismo dell’Est e la profonda crisi dello stesso socialismo democratico europeo, il socialismo occidentale, è, io ne sono convinto, intorno a quelle idee, il lavoro, la classe dirigente, che è possibile trovare, che dobbiamo trovare la soluzione al problema: che cosa ci resta, “Que-reste-et-il”.

Il prossimo numero di Reset pubblica un bel saggio di un americano, Norman Birnbaum, che s’intitola Que reste et il? del socialismo; che cosa resta del socialismo europeo, di una cosa così importante nella storia di questi ultimi due secoli. E anche questa riflessione credo che vada ad approdare attorno al nodo della classe dirigente, della sua qualità, della sua responsabilità.

Infatti Birnbaum si chiede che cosa sono i socialisti europei adesso, sperimentato il fallimento della idealità socialista, realizzato quello che si è realizzato in termini di diritti sociali e di stato sociale nell’ambito di quella ideologia, e che cosa sostituire a quel contratto sociale che è stato, che si è compiuto, nell’ambito di una visione socialista, socialdemocratica.

Che cosa sostituirà questo contratto? Che cosa diventa tutta questo enorme patrimonio che ha condizionato e formato le società occidentali? Diventa un folto gruppo di persone che da socialista diventano praticamente liberali? Tutto quello che era sinistra diventa liberale con un po’ più di coscienza sociale? «È questo il punto di approdo?» si chiede Birnbaum.

I democristiani, dove rimangono in sella, forti e vegeti, come in Germania, hanno Dio, hanno una visione cristiana alla quale ispirare un progetto sociale.

I socialisti invece si ritrovano tra le mani solo cose di cu i dubitare. E hanno quindi il compito di ridefinire il comune sentire civile, la loro idea di società, del dove poggiarla, in che termini riedificarla, del come reimpostarla.

L’idea della classe dirigente, della sua responsabilità, e l’idea del lavoro sono, secondo me, i due cardini attorno ai quali possiamo fare un po’ di strada.

La classe dirigente e il lavoro.

Partendo da qui si tratta di concepire il progresso in maniera molto corposa, legata ai contenuti del fare politico sociale, ai contenuti e ai temi che fanno la qualità di una vita collettiva democratica.

La classe dirigente è il risultato di una coltivazione, non nasce spontaneamente, non viene nei campi come l’erba selvatica. È il prodotto di una coltivazione deliberata, intenzionale, è il prodotto di scuole, di istituzioni, di un’azione concertata, fortemente perseguita.

Non c’è nulla in termini di civiltà che si dia allo stato selvaggio. È vero esattamente il contrario; ed allora questa crescita nel progresso come la possiamo definire se non civilizzazione? Cominciamo allora a raccontare noi stessi, l’Italia, l’Europa, a misurare la qualità del le politiche e delle classi dirigenti in termini di civilizzazione; usciamo per un momento dallo schematismo dello scontro destra e sinistra, dello scontro tra legalità e illegalità o dei bracci di ferro sulla giustizia.

Cerchiamo di vedere come compito fondamentale dell’agire collettivo, della vita pubblica, della discussione pubblica il miglioramento della qualità civile di una società, fatta non solo di miglioramento materiale, tecnico ma anche di miglioramento della civiltà, dei mores, del modo di vivere insieme.

Proviamo dunque a pensare, a fare, in termini di civilizzazione.

È in questo processo che ha una parte fondamentale la classe di rigente. La civilizzazione si può definire in modo molto semplice come allontanamento dalla violenza, come liberazione dalla violenza; si può definire come stato di diritto, come piena realizzazione dello stato di diritto, come compito principale della politica.

Se vogliamo quindi spartire i compiti tra destra e sinistra, all’interno di un’idea della vita politica alla quale attribuiamo il compito di realizzare pienamente lo Stato di diritto e l’allontanamento della violenza, possiamo distribuire le parti con diversi dosaggi tra destra e sinistra, ma rimane un punto cruciale: cosa significa che la classe dirigente, che l’élite, che coloro che possiedono le virtù dei migliori hanno una funzione speciale? Cosa significa che l’avanzamento e il miglioramento dei morese dei livelli materiali della società non è dato burocraticamente da un progresso generale che va avanti da solo con il passare del tempo, ma dalla responsabilità che alcuni devono assumersi più di altri? Una tale riflessione proverei ad ancorarla ad una visione dello stato di diritto. E la cosa mi appare particolarmente significativa qui in Italia dove la pienezza dello stato di diritto mi pare assai problematica.

Voglio essere ancora più chiaro. A chi mi domanda se in Italia c’è pienezza dello stato di diritto, rispondo che no, non c’è pienezza di stato di diritto, tanto è vero che la legalità della vita pubblica italiana la fa da padrone nelle discussioni e nelle cronache quotidiane.

La risposta è ancora più negativa se consideriamo con quanto spessore debba essere intesa e concepita l’idea di stato di diritto. Quell’idea di Stato di diritto che non corrisponde all’idea della soppressione della criminalità e della realizzazione della sicurezza della vita pubblica con mezzi di polizia, ma è assai più forte e più profonda.

Lo stato di diritto, la pienezza della legalità n on sono il risultato di un efficiente corpo di polizia e neppure di un efficiente intervento della magistratura; sono il risultato della condivisione dei valori della legalità, della democrazia, della non violenza, da parte di una stragrande maggioranza della popolazione che vive in una società. Se il numero delle persone fuori della legalità, che non condividono questi valori comuni supera una certa percentuale, supera certi valori, lo stato di diritto non è più pienamente realizzato.

Vedo in questo ambito di discussione e d i problemi qualcosa che individua i fini dell’azione politica assai più che non tante discussioni violente nelle quali la vita politica italiana viene coinvolta e dalle quale non riesce ad uscire nel corso di questi mesi: il braccio di ferro sulla giustizia non sta facendo fare un passo avanti a questo Paese ed anzi, per certi aspetti, è un’anomalia della vita politica italiana poiché interessi e sospetti sul terreno della legalità inquinano il contrasto politico corrente. Lo scontro sulla giustizia ha per posta processi in corso in un modo che inquina pesantemente la vita politica del nostro Paese e da questo inquinamento dovremmo provare a liberare la politica italiana.

Forse riusciamo a comprenderlo meglio se ne vediamo i punti di connessione con una tendenza generale che è stata definita la via alla giuridificazione della vita politica in Europa, intendendo in questo modo lo scontro tra il potere della magistratura e il potere politico.

Un modo di uscire da uno scontro di questo genere c’è: riuscire ad avere un confronto politico non inquinato da interessi e sospetti nei confronti della giustizia.

Attualmente le parti politiche in Italia hanno un rapporto dir etto e hanno interessi diretti; i potenti, i leader della vita politica italiana, hanno dei conti in sospeso con la giustizia, hanno un conto aperto con la giustizia, soprattutto per quanto riguarda una di queste due parti. Occorre liberare la vita politica italiana, liberare lo scontro politico e purificarlo da questi elementi impropri se vogliamo venire alla politiche delle cose.

Il contributo della sinistra alla “purificazione” è stato sufficientemente elevato? Io direi di no. Direi che la sinistra non si può sgravare la coscienza semplicemente dicendo che gli altri hanno colpe più gravi e che deve riuscire a sua volta a fare i conti con un limite che se non è ugualmente illegale è però grave anche esso: l’occupazione della società da parte del sistema dei partiti, l’eccessiva espansione della politica. È vero che la sinistra già da diversi anni predica l’arretramento della politica, afferma il principio liberale del limite della politica, però lo fa più attraverso formule che intaccando e modificando una forma mentale e comportamenti concreti profondamente radicati.

Sia la destra che la sinistra italiana non riescono a vedere un dato di fatto: con le regole in vigore in questo momento, con la costituzione che abbiamo, con il sistema elettorale che abbiamo, e con la prassi che abbiamo, chi vince le elezioni, con il maggioritario, vince troppo. Non si è fatta cioè ancora abbastanza strada l’idea dell’arretramento vero della politica, della neutralizzazione di sfere crescenti della vita sociale rispetto ai poteri politici e ai poteri elettivi e troppe cose sono ancora soggetti ai cambiamenti indotti dai risultati delle elezioni.

Il fatto che il polo della libertà sia stato guidato dal capo d i un azienda proprietaria di televisioni paradossalmente ha impedito di vedere che l’anomalia che si è determinata dopo il marzo del 94 non era soltanto quella di un proprietario di televisioni che acquisiva gli strumenti del potere politico e quindi accumulava troppi poteri, ma che quei troppi poteri erano collegati alla tradizione precedente, ad una prassi lungamente stratificata nei decenni precedenti che aveva attribuito al potere politico compiti che in altri paesi e in democrazie più efficienti della nostra sono sottratti ai poteri elettivi.

Chi vince, vince troppo, non solo se e perché vince Berlusconi, perché, sic stantibus rebus, chiunque vincesse avrebbe troppo potere, dal momento che il cammino della indipendenza dei poteri nella sfera della comunicazione, dell’economia, delle banche, della televisione è troppo lento, è troppo indietro. Chi vince ha il controllo del governo e di tutte queste altre cose.

La ricerca che possiamo fare deve andare nella direzione della civilizzazione, dell’arretramento della politica, della crescita delle responsabilità delle classi dirigenti. Attraverso la responsabilità esse devono avere e propagare non una visione magica ma una visione progressiva, concreta, graduale, del miglioramento della qualità della civiltà nazionale.

Per questa via possono essere contrastati i tanti pericoli che abbiamo davanti.

Ne indico uno per la destra e uno per la sinistra.

Per la destra il rischio che la sua funzione si incancrenisca in un braccio di ferro permanente e illimitato con la giustizia, per cui la sua sorte potrebbe identificarsi con la sorte di una forza che vuole trionfare sui giudici, schiacciarli e sopprimere l’autonomia della magistratura.

Per la sinistra il rischio è quello di diventare una forza che si limita a proteggere inter essi corporati, di settori propri tradizionali della società, e che perde di vista il compito della civilizzazione, del miglioramento ad esempio della qualità della scuola, della formazione dei cittadini.

È questo il compito che a mio avviso bisogna attribuire, rinnovando la nostra stessa visione della politica, alla classe dirigente, cioè alla parte più dotata, più illuminata, più avanzata della società.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Credo che siano giuste le preoccupazioni che, in forme e con argomenti diversi, sia Terzi che Bosetti manifestano sullo stato della crisi italiana. Credo anche che sia questo un tema che va affrontato con molta umiltà, nel tentativo di selezionare e catalogare alcuni problemi. Mi pare francamente molto difficile che in questa fase si possa fare più di questo.

Considero perciò questi incontri interessanti e importanti perché spero che essi possano contribuire alla crescita della consapevolezza attorno ad alcune questioni.

In tale ambito vorrei limitarmi a fermare l’attenzione su tre o quattro punti.

Il primo, non a caso, riguarda i caratteri della crisi italiana, di cui tutti quanti, credo, avvertiamo l’anomalia.

Ciò che adesso Bosetti affermava in relazione agli elementi di analogia, ai tratti che accomunano le forme in cui si manifesta la crisi dei sistemi politici in molti paesi europei è certamente vero, e troverei molto utile un approfondimento in merito. Tra l’altro, l’esistenza di un tale tema, che potremmo definire crisi dei sistemi politici europei, ci può consentire di stemperare il senso di oppressione che la nostra crisi ci dà.

Pur tuttavia, credo che permangono alcuni peculiari tratti di anomalia nella rappresentazione e nella descrizione possibile della crisi italiana.

A me sembra abbastanza evidente che una ragione di questa anomalia sta nella sua fenomenologia recente. Detto in altri termini, come lamentarsi del fatto che la crisi italiana sembra mancare soprattutto di classi dirigenti in grado di rappresentarsela e di risolverla? Essa è stata caratterizzata dall’azzeramento, certamente motivato, data la degenerazione nella quale la vita morale e politica italiana era caduta, di un intero ceto politico e di un sistema di organizzazione della politica, peraltro in assenza di un movimento reale dentro la società.

Come non essere colpiti dal fatto che lo stesso elettorato italiano, e cioè coloro che sono alla base della democrazia, sono passati nel giro di qualche anno da un consenso larghissimo, quasi totalitario, verso alcuni partiti e le forme di gestione della politica che essi in larga parte rappresentavano, ad un rigetto altrettanto totalizzante che è poi sfociato in un nuovo consenso per soggetti spesso assai poco diversi dai primi.

Che cosa è Forza Italia rispetto al partito socialista o rispetto alla vecchia democrazia cristiana? Ma vorrei evitare di cadere in un discorso così immediatamente politico e cercare invece di approfondire alcuni elementi di riflessione più generale.

Sull’onda di un processo di degenerazione, senza voler d are qui un giudizio di valore, ci siamo trovati immersi in questa fase assai singolare, completamente diversa da altri momenti, in cui il passaggio era da una classe dirigente ad un’altra, da un pezzo della storia ad un altro.

Ecco perché trovo particolarmente complicato comprendere quanto sta succedendo nella realtà.

Personalmente ho molti dubbi e li manifesto senza cercare di coprirli.

In altre fasi della storia d’Italia sono state operate delle cesure; esse avvenivano però in una situazione nella quale si erano già formate sul campo classi dirigenti alternative.

Si può fare un esempio per tutti.

All’indomani della caduta del fascismo, ci si è trovati di fronte alla necessità di fondare la repubblica, redigendone la Costituzione. Tale processo si innestava nel concreto di una lotta e nel concreto di una formazione di idee, di programmi, di dialettiche tra forze reali che andavano costruendo il rapporto tra la società politica e la società civile in Italia.

Forse l’assenza della politica oggi, il vuoto della politica può essere spiegata con l’assenza di questo sforzo preparatorio.

La politica non è che s’inventa; le classi dirigenti, diceva Terzi, non si costruiscono a tavolino. Forse sono malato di storicismo, ma credo che le classi dirigenti si costruiscono nel concreto di una lotta, di un conflitto, comunque di una costituzione dialettica del mondo, dal quale e intorno al quale esse si formano.

È evidente che siccome il vuoto non esiste, né in fisica, né in natura, né tanto meno nella politica e nella storia, se la politica scade, qualcuno deve pur riempire quel vuoto.

Guardiamo all’Italia di oggi: lo spazio che una volta era proprio della politica, viene oggi coperto da una moltitudine di poteri corporativi.

Anche qui, badate, non sto dando dei giudizi di valore.

Questi poteri corporativi possono agire bene o male, a seconda dei casi, hanno certamente un ruolo nella loro specificità, però invadono necessariamente un terreno che è al di là della loro funzione tradizionale, classica.

Se la funzione dei giudici diventa quella che è diventata in Italia, nonostante i risultati sicuramente efficaci, può senz’altro accadere che questo potere dilaghi. È un rischio che è nelle cose. Non attiene né alla cattiveria degli uomini, né, tantomeno, a quella dei giudici, ma al fatto che l’equilibrio dei poteri non ammette vuoti. Dove c’è un vuoto il potere più forte cammina, dilaga, esce dai suoi confini.

Quando diciamo che la politica deve rientrare in campo, che cosa vogliamo dire se non che la politica deve riprendere il proprio ruolo, ovviamente correggendo se stessa? La vicenda italiana è stata ed è una vicenda molto complessa, nella quale si so no intrecciati problemi giudiziari e problemi politici.

L’azzeramento di molti partiti non avviene infatti solo ad opera del potere giudiziario, che pure incide in maniera determinante sui gruppi dirigenti, ma avviene anche perché delle funzioni storiche si sono ad un certo punto esaurite, o si sono andate esaurendo. La compattezza che nella storia della prima repubblica aveva tenuto assieme società, partiti, gruppi, classi, Stato, ideologie ad un certo punto diviene frantumazione, si infrange sull’onda di tangentopoli e di tutto ciò che tangentopoli ha alle proprie spalle.

In questo quadro, non si può essere sorpresi su questo dilagare dei poteri corporativi: il potere della magistratura e non solo quello. Il fatto stesso che Forza Italia, cioè un’azienda, riesca a fare un partito, è il segno che qualcosa è mutato, che il vuoto è stato tale da consentire queste irruzioni dentro il vecchio mondo della politica.

Una cosa del genere non sarebbe stata certo concepibile nel momento in cui i partiti si formavano, attraverso complicate dialettiche storiche, attraverso lunghi processi ideali, politici, anche di natura molto aspra.

Il disordine sta qui, ed è per questo che pur comprendendo la possibilità di fare un discorso, certamente fecondo, sulla crisi dei sistemi politici, non mi sentirei di immaginare che siamo il laboratorio di ciò che succederà in Europa da qui a poco. Altre volte lo abbiamo creduto, per poi accorgerci che le cose non stavano esattamente così.

Il secondo punto che intendo sviluppare provo a sintetizzarlo così.

Dove sta il particolare rischio italiano, quali sono i tratti peculiari d ella crisi italiana? Il rischio, secondo me, è in primo luogo nella strutturale debolezza dello Stato e della nazione italiana. Insisto da tempo su questo concetto, anche in relazione ai caratteri odierni della questione meridionale.

La specificità di questa crisi italiana oltre che nell’azzeramento di un’intera classe dirigente, con il conseguente vuoto, con i conseguenti poteri corporati che hanno uno spazio infinito davanti a loro, almeno fino a quando non si determineranno nuovi punti di equilibrio, sta nella debolezza strutturale dello Stato italiano e del senso di appartenenza alla nazione.

È un tema che fa parte della storia d’Italia. Non a caso sta ritornando molto, non solo in saggi e articoli di giornali, ma anche in una più attenta ricerca storiografica. È il tema dell’Italia, nazione difficile, Stato debole, fragile, per ragioni che sarebbe utile in un’altra occasione approfondire.

Sia chiaro. Non si tratta di fare del catastrofismo. Il nostro paese ha punti di resistenza nella società straordinariamente diffusi, anche se di difficile classificazione.

Basta guardare Napoli, la sua situazione sociale, la disoccupazione che a leggere le statistiche è a livelli insostenibili. Eppure l’esplosione non avviene. Evidentemente ci sono punti di resistenza nascosti di varia natura a seconda delle diverse congiunture nelle quali ci si trova.

Non penso dunque in termini catastrofici. Non sempre riesco anzi ad essere convinto che la democrazia italiana è a rischio. Avverto anche qui un bisogno di cautela. Il rischio che vedo, questo sì, è un processo di progressiva marginalizzazione del Paese rispetto all’Europa.

Il centro della crisi è lo Stato e la crisi che sta a ridosso della crisi dello Stato è qu ella che riguarda l’appartenenza alla nazione Italia.

Sono questi i dati di fondo della crisi italiana, quelli che meglio ne spiegano la specificità. Da qui la oggettiva rilevanza dei temi relativi alla riforma istituzionale.

Proviamo a rivolgere lo sguardo a quanto avviene in altri paesi europei.

In Francia c’è il riconoscimento reciproco dei grandi aggregati politici in campo. A nessuno è mai venuto in mente di mettere in discussione la legittimità di Chirac, o, da parte di Chirac, la legittimità di Mitterand, anche perché lì la destra è destra che nasce, come sappiamo, dalla lotta antifascista, e che, quindi, ha un suo preciso tratto storico.

O pensiamo al senso di appartenenza a se stessa della Germania.

Proviamo un po’ a rapportare a quanto avviene in Italia l’immenso processo di riunificazione che la Germania sta operando.

Mentre qui discettiamo sul secessionismo Nord-Sud, lì si decide come condividere uno sforzo enorme e un sacrificio enorme che, naturalmente, stiamo pagando anche noi (ma questa non è una buona ragione per non apprezzare).

Quindi quando parliamo di crisi dei sistemi politici in Europa, non ci dobbiamo mai dimenticare che parliamo in fondo di realtà diverse.

La preoccupazione di una possibile marginalizzazione del nostro Paese deriva proprio dal fatto che alle spalle della nostra crisi non c’è questa stessa realtà, non c’è né questo senso di appartenenza nazionale né questa statualità all’interno della quale ci si possa in un certo senso riconoscere.

Ed allora, e faccio un’affermazione della cui problematicità mi rendo conto, la definizione della riforma istituzionale può probabilmente portare il discorso un poco più avanti.

Se identifichiamo nella crisi della statualità e nella crisi dell’appartenenza nazionale quello che può essere il vero rischio di marginalizzazione del Paese è evidente che la riforma istituzionale diventa centrale.

Non è un caso che taluni aspetti positivi che possono essere colti nell’attuale situazione italiana vengono dall’interno di alcune città che hanno individuato nella centralità del governo amministrativo e cioè nella centralità di una riforma istituzionale di fatto, la chiave per riacquistare identità e appartenenza.

Vorrei arrivare al terzo p unto e vorrei farlo attraverso uno spunto polemico.

A mio avviso questa questione del federalismo non riesce a prendere corpo perché il federalismo è estraneo alla storia d’Italia. Temo che se ci ingolfiamo in questa formula del federalismo come formula risolutiva dei mali italiani commettiamo un errore.

So di essere, in questa fase, in assoluta minoranza. Oggi chi non si dichiara federalista, viene considerato un partitocrate, un partigiano della prima repubblica. Eppure io continuo ad essere convinto che non è questa la via giusta. Storicamente è una via che non c’è mai stata in Italia e quando c’è stata, c’è stata in forme secessioniste, antimeridionaliste o anche anti-nordiste, che per certi aspetti è la stessa cosa. Non voglio fare paragoni irriverenti, perché tutti noi abbiamo un grande rispetto per la personalità di questo grande meridionalista, ma penso a Salvemini che voleva l’esercito meridionale e a Bossi che irrompe sulla scena della politica italiana cavalcando, sotto la voce federalismo, una vera e propria spinta alla secessione.

Pongo questa questione in maniera molto provocatoria perché, lo ripeto, oggi è difficile non dirsi federalista. Croce diceva non possiamo non dirci cristiani, oggi sembra che si debba rovesciare questa formula e dire non possiamo non dirci federalisti.

Io non credo che sia questo il punto. Io credo che la riforma istituzionale italiana abbia bisogno di un rapporto stringente fra due cose: riforma dello stato e decentramento dei poteri, che non è affatto il federalismo.

La parola latina fedus, e cioè federalismo, vuol dire realtà diverse che cercano di federarsi. Si può parlare, pure problematicamente, di un federalismo europeo, e cioè di stati che cercano di unificarsi, ma dov’è la base del federalismo italiano? Che cos’è questo federalismo? Che cosa significa per l’Italia federalismo? Noi possiamo parlare, ed è tutt’altro problema, di decentramento di poteri, di responsabilità e di funzioni, ma per costruire il decentramento dobbiamo costruire il centro. Altrimenti che cosa decentriamo? Questo sfacelo dello stato italiano? Questo sfacelo dell’amministrazione pubblica? Dobbiamo sincronicamente mettere insieme le due cose: riforma dello Stato e decentramento dei poteri.

Sta qui la difficoltà. Sta qui il carattere diffuso delle classi dirigenti di cui abbiamo bisogno. Sta qui l’impossibilità di chiudere tutta la vicenda e la sua possibile interpretazione in chiave, per così dire, leaderistica.

Condivido perfettamente la tesi di chi dice che non possiamo identificare la politica con i leader.

Però dobbiamo anche capire perché esiste tale identificazione. È solamente il frutto del vuoto italiano o c’è qualche cosa che sta spostando i rapporti tra la società, i gruppi sociali e la politica? Paradossalmente, lo specializzarsi della politica in amministrazione non rischia di portare con se la necessità di personalizzare la politica, come risposta al carattere anonimo dell’amministrazione? Prima la politica poteva essere in parte personalizzata e in parte no, perché aveva dietro grandi racconti storici, grandi racconti ideologici, nei quali l’umanità riconosceva il senso della propria direzione: sto andando verso qualcosa o sto per costruire addirittura un’altra società.

I leader erano comunque importantissimi, lo sappiamo bene noi della vecchia sinistra come i leader erano importanti, però intorno ai leader c’era tutta una concentrazione di idee, di culture, di programmi, di persone. Oggi che la politica tende sempre più a diventare amministrazione non si può escludere che i leader siano l’unico momento in cui la politica, personalizzandosi, si concentra e diventa possibilità di scelta.

Sono riflessioni sparse e interrogativi a voce alta, perché, lo ripeto, personalmente sono affascinato dall’idea, molto comune tra quelli della mia formazione e della mia generazione, di guardare alla politica non come una somma di amministrazione più leader, ma come movimento, conflitto, confronto dialettica di identità, dialettica di idee.

Vorrei proporvi un’ultima riflessione che spero utile per lo svolgimento della nostra discussione.

Nell’89 è finito, come sappiamo, il comunismo reale, e di questa vicenda sono state date le più diverse interpretazioni. Bosetti prima ricordava quello che ci siamo detti molte volte, cioè che l’89 è stato l’emblema della crisi di tutta la sinistra, non solo della sinistra comunista, ma anche di quella socialdemocratica che a tutt’oggi, tra l’altro, continua ad essere in grande difficoltà.

C’è stata una specie di sincronia culturale e politica fra l’89, la fine del comunismo e l’irruzione, la vittoria delle forze che avevano veramente poi contribuito a questa fine.

È indubbio infatti che la politica di Reagan aveva contribuito in maniera decisiva all’accelerazione della crisi dell’Unione Sovietica. Basterebbe pensare alla spinta fortissima che il Presidente degli Stati Uniti aveva operato sul gap tecnologico, per cui oramai era diventato impossibile, a meno di ricorrere alla guerra, che una classe dirigente sconfitta come quella sovietica potesse tenere il campo e reggere il confronto con l’occidente e gli USA. E credo che dobbiamo a Gorbaciov se c’è stata la fine dell’Unione Sovietica e non la guerra.

Ma assieme al muro in questi anni 90 cade in realtà anche l’interpretazione liberista, nella versione reaganista-teacheriana, delle possibilità di sviluppo a livello mondiale, che aveva dominato gli anni ‘80.

Dopo l’89 e quella che appariva come una vittoria definitiva del terreno democratico si sono e si stanno susseguendo in realtà fatti più diversi. Nazionalismi, fondamentalismi, guerre irrompono pesantemente sulla scena ed il gioco diventa enormemente più complesso.

Con il comunismo reale cade dunque anche l’ipotesi liberista.

È uno dei nuovi dati di fronte ai quali non si capisce perché la sinistra non si decide a fare i conti, e a farli fare ai propri avversari, fino in fondo.

A tratti, sembra che viviamo in un idillio generale, in una situazione dove quasi tutto è scontato.

Così non è, tutt’altro.

Mi sembra possa esse re questo un terreno importante di riflessione e di iniziativa per le forze di centrosinistra. Sarebbe utile non continuare a trascurarlo.

 

TOBIAS PILLER

Cercherò di fare qualche considerazione partendo non dal punto di vista di un tedesco ma di un europeo che ha vissuto in Germania e in Inghilterra e che ha visto l’Italia un po’ da vicino e anche un po’ da fuori.

La prima questione che intendo porre è la seguente.

Se definiamo, come io credo bisogna fare, classe dirigente non solo i politici, ma tutti coloro che hanno responsabilità, bisogna allora prioritariamente chiedersi: come si scelgono questi dirigenti in Italia? E attraverso quali strumenti e percorsi selettivi? Qui in Italia, forse più che in altri paesi, già all’inizio d ella carriera la selezione avviene attraverso la “conoscenza”, questa cosa al confine tra l’intermediazione e la raccomandazione. Si deve conoscere qualcuno che conosce qualcuno e così via.

Ciò non vuol dire che quelli che arrivano a quel determinato posto siano incapaci o non adatti, ma soltanto che la concorrenza, in aziende come la RAI, in un ministero o in tante altre istituzioni, è abbastanza limitata.

Quando tra cento ragazzi bravi tra cui si può scegliere, solamente cinque, che sono raccomandati, vengono assunti, allora vuole dire che la base della selezione è abbastanza ristretta.

Lo ripeto. Ciò non vuol dire per forza che quelli che ci sono non sono bravi, ma soltanto che altri si sarebbero potuti dimostrare più bravi ancora.

Una seconda domanda potrebbe essere: come vengono poi impiegati questi dirigenti? In Italia sembra molto difficile definire regole del gioco, compiti e competenze chiare. Nei servizi di base come acqua, nettezza urbana, traffico, e così via, con tutti i problemi che ci sono, perché non vengono attribuite chiare responsabilità? E perché è tanto difficile lasciare a qualcuno l’iniziativa? Perché non si dà potere di assumere decisioni, di fare approvare scelte e di procedere celermente su un determinato problema? In Italia ci sono tanti bravi dirigenti che lottano tra intrecci illegali e problemi che non li fanno andare avanti.

In alcuni casi può essere un sindaco, un presidente di una provincia di una regione o di un ente a trovarsi in questa situazione. Con regole del gioco e responsabilità chiare certamente si può anche lasciar fare ad un responsabile, un dirigente. Si può verificare se chi dirige è in grado di raggiungere qualche traguardo ed in caso contrario cambiarlo. Si può anche dire: questo è sbagliato, o tu devi andare da un’altra parte; ma non bisogna aver paura di lasciar fare a qualcuno e di dargli responsabilità.

Un’altra cosa che trovo curiosa è che in Italia prima ancora di affidare poteri e competenze si pensa ai controlli e così tante volte non si parte.

L’ultima moda mi sembra la denuncia dell’abuso d’atto di ufficio.

Io penso che nel 90% dei casi si può anche smetterla con la denuncia dell’abuso d’ufficio, in quanto una decisione sbagliata può sempre esserci e per commettere un abuso ci vuole molto di più di una decisione sbagliata.

A volte questi dirigenti dell’amministrazione pubblica sembrano impauriti. Forse perché sono stati individuati non tramite una corretta selezione o concorso ma attraverso i contatti dei politici che poi non li hanno fatti lavorare in modo imprenditoriale, assegnando loro obiettivi e strumenti per arrivare a quel determinato traguardo.

In questo senso più che dirigenti sembrano essere solamente dipendenti di qualcuno.

E in seguito a tangentopoli è ancora più difficile che un pubblico ufficiale, un amministratore, sia disposto a firmare un pezzo di carta e così tutto si è ulteriormente rallentato.

La mia risposta a questi problemi è abbastanza semplice: ci devono essere regole del gioco chiare e bisogna far lavorare i dirigenti.

Con regole del gioco e competenze chiare si possono individuare meglio le responsabilità e per questa via esercitare un più efficace controllo.

Se invece la responsabilità è sempre di tutti, tutti possono intervenire un po’ su tutto e la responsabilità di fatto non è mai di nessuno.

Proprio quando una cosa non va, è più utile assegnare le competenze in modo chiaro: la nettezza urbana alla città, il traffico alla provincia, la sanità alla regione e via di questo passo.

Sempre a proposito di dirigenti devo dire di essere stato qualche volta colpito dai lor o comportamenti e dal loro modo di lavorare. Forse non c’è l’abitudine di lavorare in team.

Non ho elementi sufficienti per riferirmi al sindacato, lì è immaginabile che ci siano esperienze di come si può lavorare in un team, ma nelle aziende, in politica e anche nei giornali si vede che c’è una gerarchia molto piramidale. E quando si vuole abolire la gerarchia e scegliere di lavorare in un team, allora non ci sono le esperienze per farlo, perché nessuno ha imparato a lavorare in team, né si conoscono quali sono i comportamenti e le regole di cui si ha bisogno.

Si guardi ad esempio all’ALITALIA; Schisano l’anno scorso ha cercato d i disegnare la gerarchia della compagnia di bandiera italiana sul modello British Airways, laddove c’è un amministratore delegato e poi un team di tanti dirigenti, tutti allo stesso livello di direttore centrale e ognuno col suo dipartimento. L’idea era quella di far andare avanti il progetto di rinnovamento dell’azienda ma questo modello non ha funzionato.

I motivi possono essere diversi, ma sta di fatto che adesso si sta riorganizzando la gerarchia in ALITALIA e ci saranno un’altra volta l’amministratore delegato, due direttori generali, qualche direttore centrale e poi vice direttori centrali e così via. C’è, evidentemente, poca voglia e poco interesse a decentrare e responsabilizzare.

Perché non potete dare più competenze a più livelli e poi controllare i risultati? Certamente si avrebbe meno potere di quel che si ha quando si è il solo a poter fermare o avviare un determinato procedimento, ma l’alternativa è che ad ogni livello si può sempre trovare qualche espediente per aiutare gli amici, dato che il controllo comunque non c’è.

Di fronte ad una montagna di carta e di lavoro di ordinaria amministrazione, un dirigente non può seguire i suoi collaboratori e nello stesso tempo avere il tempo di mandare avanti i progetti strategici.

Vorrei dir e qualcosa anche rispetto alla moda o la malattia del telefonino. È stata abolita la segretaria, la quale potrebbe essere una assistente con cui tanta gente potrebbe già fare alcune cose.

Quando telefono ad un ufficio stampa, chiedendo magari se mi si può mandare l’ultima notizia che è stata data alla stampa, spesso mi accorgo che quella segretaria non ha il permesso di fornire una notizia che peraltro è già stata pubblicata.

Di propria iniziativa non me la può mandare e deve, quindi, chiedere al dirigente. Oppure devo cercarlo io e parlargli, disturbarlo. Spesso il dirigente è in giro, non è più in ufficio e così la segretaria mi dà solamente il numero del telefonino, e quel povero dirigente impazzisce perché ogni due minuti c’è qualcuno al telefonino, non ha più la segretaria, è solo e deve fare tutto da solo.

Sempre a proposito delle regole, quelle della vita quotidiana, ho visto proprio qui a Napoli, prima durante e dopo il G7, quando sono stato qui alcuni giorni, che qualche volta i comportamenti possono anche cambiare.

Qualche volta sulle belle piazze pulite non si butta la roba per terra, poiché ognuno pensa: ma se questa piazza è pulita, anche io sento di dover rispettare quella regola secondo cui non bisogna sporcarla. È un esempio molto semplice, ma se non si parte da qui non funzionerà mai niente.

Infine, penso che non si può parlare solamente dei comportamenti dei dirigenti. Occorre sempre inquadrare questo problema nel quadro dei comportamenti di tutti.

Se i liberi professionisti non pagano le tasse, i tassisti si lamentano d i quelli che non pagano le tasse ma poi non fanno la ricevuta e così via; se tutti pensano di avere un campo dove poter fare ciò che vogliono perché le regole sono troppo complicate e non vale la pena di rispettarle, come si può dire poi ai dirigenti: voi dovete essere fuori dalla norma, mentre tutti gli altri fanno diversamente, agiscono così come vogliono, voi dovete dare l’esempio.

È sempre il problema di fare le regole, evitando, se possibile, di farle troppo complicate. Se nessuno le capisce, nessuno le rispetta. E quando a rispettarle è uno solo finisce col sentirsi anche stupido.

Non si può parlare dei dirigenti immaginando che se le cose non vanno è solamente responsabilità loro.

Un’ultima riflessione, da tedesco che tante voltesi lamenta sui limiti dei politici e dei dirigenti in Germania. Bisogna sempre vivere con quei dirigenti e quei politici che ci sono, anche se in Germania abbiamo adesso solo Kohl e il verde Fischer e Geyser dei comunisti e Scharping della SPD.

Perché anche se uno immagina di conquistare una ragazza bellissima e molto in gamba se poi in realtà trova una fidanzata bella con cui si capisce va avanti lo stesso, anche se certamente non è il suo ideale teoretico.

Bisogna pur adattarsi a quelli che sono i concreti limiti della vita.

 

GENNARO MARASCA

Parto da una serie di con siderazioni che faceva De Giovanni sulle particolarità della crisi italiana e su alcune sue anomalie. Se è vero che nella crisi della politica vi sono caratteri che accomunano diversi Paesi europei, lo è altrettanto il fatto che qui in Italia ci sono delle specificità che la rendono unica.

Una d i esse è certamente rappresentata dall’irrompere del potere giudiziario che ha, per così dire, mandato a casa una intera classe dirigente.

La mia opinione è che la magistratura è intervenuta persino in ritardo. Il vero problema infatti non è tanto il suo intervento in una determinata fase politica quanto l’alto tasso di illegalità esistente.

Forse non è il più alto tasso in assoluto nel mondo industrializzato però ha assunto qui da noi caratteristiche di sistema.

L’intervento della magistratura ha prodotto tanto degli effetti positivi, quanto, in misura certamente minore, negativi. Di fatto con la sua azione ha completamente azzerato una classe dirigente, ed il processo di sostituzione si dimostra assai arduo anche perché non è sorretto da un progetto politico preciso e da un movimento che gli dia forza e consistenza.

Sta qui un punto sul quale bisogna stare molto attenti. È del tutto evidente che la crisi di altri poteri e di altri livelli istituzionali ha consentito un’espansione non del tutto corretta e fisiologica dell’azione giudiziaria, anche in conseguenza della mancanza di quella rete di controlli utili a prevenire, precedere l’intervento giudiziario e possibilmente ad impedirlo dato che ad esso si dovrebbe fare ricorso nei casi estremi.

Ciò ha prodotto una serie di eccessi che sono stati esaltati anche dal fatto che, probabilmente, in una certa fase all’interno delle forze politiche si è posto come unico centro dell’iniziativa la questione morale. Quando la politica si riduce a questione morale senza che ci siano progetti complessivi, gli effetti non possono che essere quelli verificatisi.

Siamo in una situazione certamente difficile, dalla quale bisogna rapidamente uscire. Per questo occorre tornare a fare politica, avere un progetto complessivo più che accorgimenti tecnico istituzionali che lasciano il tempo che trovano.

Un altro degli aspetti fondamentali su cui occorre attentamente riflettere è la crisi dello Stato in tutte le sue articolazioni. Non è certamente confortante la circostanza che spesso la politica è ricerca di alleanze a tutti i costi con assai scarsa capacità/volontà di affrontare i nodi istituzionali e politici di grande rilievo che pure le sono davanti.

Ho letto il documento che ci è stato proposto, le indicazioni anche condivisibili e la denuncia di una serie di rischi, alcuni probabilmente già verificatisi.

Tra essi, è stato più volte richiamato anche nella discussione, l’eccessivo leaderismo e la mancanza di partecipazione al processo di elaborazione politica.

Credo che nell’affrontare questi temi ciascuno di noi debba provare ad essere sincero fino in fondo.

Forse alcuni di questi rischi sono in una certa misura inevitabili, in quanto esatto prodotto di un sistema elettorale tendenzialmente maggioritario. Dappertutto, laddove c’è un sistema simile o uguale al nostro, la partecipazione al voto e alla politica tende inevitabilmente a diminuire. Per certi versi mi sembra un fatto logico, normale.

Non che voglia esaltare il sistema proporziona le, ma sono convinto che nella ricerca di un nuovo sistema elettorale si doveva riflettere un po’ di più. Erano possibili opzioni diverse.

Sull’onda di una serie di degenerazioni, certamente molto gravi, abbiamo cambiato il sistema precedente, senza però introdurre una serie di contrappesi nel sistema istituzionale, nella costituzione, che se adottati prima della riforma avrebbero potuto funzionare da anticorpi.

Vorrei accennare ad un’ultima considerazione.

Credo che la cosa fondamentale oggi sia non tanto trovare delle alleanze spurie che possono anche consentire di vincere in un determinato momento ma che non consentono poi di governare, quanto invece ricercare valori fondanti per un progetto politico che possa produrre effetti duraturi.

Questa ricerca va fatta guardando anche a quelli che sono i valori scritti nella nostra carta costituzionale. Forse guardo con occhio troppo benevolo a ciò che di buono abbiamo alle spalle ma sono convinto che i valori della solidarietà, del lavoro, che ho visto riportati anche nel documento, sono il frutto di un compromesso alto, e uso volutamente questi termini, fra le tre tendenze culturali essenziali presenti in quella fase nel Paese: i cattolici, il movimento socialista e comunista, la parte migliore del movimento liberale.

Tale compromesso non fu una sommatori a di questioni o di proposte, ma il tentativo di individuare dei valori comuni a quelle tendenze culturali molto forti.

Probabilmente, il problema della nazione che pone De Giovanni sta anche qui, nel tentativo di individuare e trovare dei valori che ci accomunino anche nella differenza dei programmi e delle scelte concrete.

Ci vogliono dei valori fondanti. Probabilmente è questo il nuovo patto che va fatto.

A mio avviso essi sono ancora quelli della Costituzione. Vanno rivisitati, meglio precisati, ma comunque non possono essere abbandonati: sono ancora quelli che possono offrire una aspettativa, possono creare fiducia anche per i momenti futuri.

Credo ce ne sia grande bisogno.

 

RICCARDO TERZI

Mi pare che il senso di questo incontro sia emerso con una certa chiarezza: dare voce al bisogno di rimotivare la politica e di dare uno sbocco alla situazione di crisi che investe la vita politica nazionale.

Condivido molte delle cose dette mentre avverto un’esigenza di approfondimento e di confronto ulteriore con De Giovanni sul tema del federalismo.

Per ora mi limito alle seguenti considerazioni.

Considero giusta l’affermazione secondo la quale i problemi di carattere istituzionale sono oggi un elemento centrale, che c’è, cioè, una crisi dello Stato. Tale crisi, se non viene per tempo affrontata, rischia di determinare uno scollamento della società italiana e dobbiamo quindi avviare una operazione complessa e organica di riforma delle istituzioni.

Ciò può essere fatto sostanzialmente operando in due direzioni.

La prima, quella finora prevalente nel dibattito politico e forse an che nell’orientamento dell’opinione pubblica, che è un po’ bombardata da vari messaggi, è la risposta della concentrazione autoritaria: riduciamo questo eccesso di complessità della vita democratica, concentriamo il potere in un punto, scegliamo la persona, il leader a cui tutti i diversi poteri devono fare riferimento. Il massimo di concentrazione in un punto e di semplificazione dei processi decisionali, quindi: è l’ipotesi presidenzialista più o meno variegata.

Come dicevo è una linea sostenuta da molti, non soltanto a destra, purtroppo. Il completamento della riforma elettorale in senso maggioritario non può che essere questo. La legge elettorale era un primo passo, adesso dobbiamo fare il secondo passo: il presidenzialismo e quindi un esecutivo forte che non è più emanazione del Parlamento, ma che ha una diretta investitura popolare. È’ una tesi che ha una sua coerenza, anche se personalmente la considero pericolosa e da combattere.

Per chi non intende imboccare questa strada, la direzione alternativa è quella di una forte articolazione dei poteri e quindi di rottura degli elementi di centralizzazione.

Lo Stato centralistico, così come è stato finora, non ha funzionato, non ha risolto i problemi del Paese.

Costruiamo quindi un sistema forte di autonomie, di autogoverni locali, di diffusione del potere, dei centri di decisione, dei punti di governo.

Io questo lo chiamo federalismo. Ovviamente possiamo ragionare sui termini, sulle storie, sulle culture, ma quando parliamo di federalismo intendiamo un processo di questo tipo, non soltanto la delega di competenze dallo Stato alle Regioni, ma la costruzione di un sistema in cui i livelli territoriali locali hanno poteri propri, poteri primari e sono dunque depositari di effettivi poteri decisionali.

Il tutto poi può essere raccordato con il livello centrale attraverso appositi strumenti istituzionali, come avviene in tutti gli stati federali.

Un esempio possibile è la camera delle regioni del tipo di quella in vigore in Germania dove c’è una seconda camera espressione diretta dei governi regionali. E il modello federale tedesco non è un modello che determina delle spinte alla secessione. Lì, come è noto, è avvenuto l’opposto, dato che la Germania, lo ricordava anche De Giovanni, ha affrontato un problema di riunificazione nazionale.

È questo sicuramente un tema da approfondire.

Io vedo però queste due strade: o accettiamo una risposta come quella che ci viene suggerita da varie parti, dalla destra e da alcuni amici nostri che guardano appunto al modello presidenzialista come alla soluzione della crisi politica italiana, oppure dobbiamo indicare una strada diversa, che sviluppi nella misura più ampia possibile la divisione e l’articolazione dei poteri, sia tra i poteri centrali e i poteri decentrati sia tra i diversi organi dello Stato, salvaguardando sfere essenziali dell’autonomia come la magistratura e degli altri organi di vigilanza e di controllo.

Personalmente sono convinto che bisogna evitare la soluzione per cui chi vince prende tutto. È il tema che poneva anche Bosetti. Il rischio che corre l’Italia è, che in mancanza di un sistema di regole e in mancanza di forti contrappesi istituzionali, la posta in gioco diventi troppo alta.

La ridefinizione dei poteri e della forma dello Stato implica la necessità di affrontare un altro aspetto fin qui non emerso, che è la dimensione internazionale.

C’è qui innanzitutto il tema dell’Europa nel momento in cui si va a una crescente integrazione economica e le decisioni strategiche sono sempre meno di livello nazionale.

Senza una dimensione politica democratica sovranazionale non contiamo nulla, perché tutte le decisioni di fondo passano per canali, per vie che non sono controllate democraticamente.

È quello che sta già accadendo. C’è dunque il rischio che la grande disputa per prendere questo potere rischia di essere una disputa finta, perché in realtà il potere, nel frattempo, se n’è andato da un’altra parte.

Vedo allora la necessità, se così si può dire, di un doppio movimento.

Il primo di riavvicinamento alla politica da parte dei cittadini: autogoverno, recupero della dimensione locale, della dimensione territoriale concreta e quindi autonomie locali, federalismo e così via.

È questo un processo di spostamento verso il basso. Se però ci limitiamo a questo facciamo un operazione che rischia di essere perdente, per alcuni versi demagogica, finta o comunque parziale.

Da qui l’esigenza del secondo movimento, quello che ci fa affrontare una questione ancora più complessa: come la politica democratica si riattrezza per controllare e governare i grandi processi economici che ormai sono su una scala più ampia.

È questo il tema della costituzione dell’Europa come passo indispensabile per ridare forza alla politica.

C’è un secondo ambito di considerazioni a cui può essere utile accennare.

Si è detto giustamente: c’è un vuoto della politica, sono entrati in crisi i partiti, sono entrate in crisi le ideologie, le appartenenze collettive.

Parliamo di cose che hanno segnato un a storia.

La storia per molti aspetti anche gloriosa dell’Italia del dopoguerra, che non è soltanto una storia di rovine, di detriti o di corruzione partitocratiche: è anche una storia animata ed attraversata da forti idealità.

Tutto qu esto è entrato in crisi e in questo spazio lasciato vuoto della politica avviene quello che è un po’ inevitabile: esso viene riempito da altri, irrompono altri soggetti, si fanno forti le corporazioni. Dal partito azienda di Berlusconi a una ripresa, in tutti i campi, e molto forte, di posizioni e di spinte corporative, di lobby.

La politica rischia di diventare per l’appunto il teatro della lotta di corporazioni, di lobby.

Credo, e questo mi pare che sia un punto condiviso da tutti, che abbiamo bisogno di sfuggire a questo esito, di contrastare questa tendenza.

Occorre per questo ricostruire la Politica. Pe r la sinistra è essenziale, mentre la destra può anche fare a meno della politica.

La destra tutto sommato considera che la società si regola da sé, che i meccanismi competitivi sono quelli che regolano gli equilibri territoriali e sociali. La politica ha quindi una funzione puramente secondaria, di accompagnamento. La politica serve per l’appunto a dare alimento alla competitività.

Per quelli come noi che hanno un’altra idea, che pensano che la società competitiva, così come si sta organizzando, su scala mondiale, non è in grado di assicurare uno sviluppo civile, che lo sviluppo economico lasciato a sé stesso determina delle crescenti diseguaglianze sociali, dei processi profondi di disgregazione, che mette in discussione i diritti fondamentali di cittadinanza, la politica non può non essere indispensabile.

C’è bisogno della politica non per costruire una società altra, come abbiamo pensato nel passato e cioè un modello radicalmente alternativo che fa a meno del mercato, dei meccanismi competitivi, ma per trovare, quantomeno, un equilibrio tra le esigenze di carattere sociale e di carattere collettivo e le esigenze del mercato.

I teoremi liberisti di tipo thatcheriano, che hanno avuto una certa diffusione negli anni passati, sono stati gli stessi che hanno determinato in tutta Europa, in tutti i paesi sviluppati, contraddizioni sempre più acute, fenomeni diffusi e crescenti di esclusione sociale.

C’è bisogno dunque di un recupero della dimensione politica.

Con quali forme è da discutere. Certo i partiti, così come sono stati, non sono più un modello ma una democrazia senza partiti mi sembra difficile, nel senso che la democrazia ha comunque bisogno di un pluralismo politico organizzato.

Il punto è vedere che cosa sono i partiti, come s i riorganizzano, con quali caratteristiche, con quale rapporto con la società.

Considero la discussione su questo punto molto importante.

Cosa dovrebbero essere i partiti, quelli che ci sono e quelli che stanno nascendo, i vari alberi, querce, ulivi? A tutt’oggi non si è prodotto qualcosa di radicalmente nuovo.

Ci sono state delle volontà, dei tentativi anche generosi ma nessuno ancora è riuscito a dare vita a un modello nuovo e convincente, capace di rispondere alle esigenze democratiche diffuse.

È evidente che il problema non è solo quello che fanno i partiti.

Ha un senso politico quello che fanno diversi soggetti, le diverse organizzazioni sociali, ha un senso politico quello che fa il sindacato.

La sfera della politica non coincide con la sfera del partito, è una sfera più ampia. Noi abbiamo la possibilità quindi di dare un contributo alla vita politica, di arricchire la vita democratica da diverse posizioni, con diversi strumenti.

Una presenza più forte di quella che si chiama società civile, che è una presenza di forze sociali organizzate, sindacati, associazioni e così via, è un elemento indispensabile, proprio nel momento in cui c’è una sclerosi, una crisi della vita politica in senso stretto.

Anche per questo dal sindacato, dall’interno della CGIL stiamo ragionando su questi temi e stiamo cercando di impegnarci in un lavoro faticoso di ricerca, di elaborazione, ragionando sulla politica e sulle possibili sue evoluzioni.

Considero questo sforzo importante e spero perciò che esso sia solo l’avvio di un lavoro comune.



Numero progressivo: V16
Busta: 25
Estremi cronologici: 1996
Autore: Vincenzo Moretti e Rosario Strazzullo (a cura di)
Descrizione fisica: Volume, b/n, 110 pp.
Tipo: Interviste/Dibattiti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: Ediesse, Roma, 1996