IL GOVERNO DELLE CITTÀ E IL SINDACATO

Contributo di Riccardo Terzi, come Responsabile Riforme istituzionali CGIL nazionale, al confronto avviato dalla CGIL intitolato “Partecipazione, sviluppo e qualità urbana”

La CGIL, nell’ambito del programma in materia di riforme istituzionali, welfare e nuovi diritti di cittadinanza, ha avviato un primo confronto con i sindaci di alcune città. Pubblichiamo in questo speciale i primi contributi al tema.

Contributi per un sistema si relazioni sindacali:
Gennaro Iovinella, Marco Formentini, Luigi Agostini, Walter Vitali, Riccardo Terzi, Giovanni Memola, Carlo Ghezzi, Valentino Castellani, Sergio Cofferati, Walter Tocci

IL GOVERNO DELLE CITTÀ E IL SINDACATO
Riccardo Terzi – Responsabile Riforme istituzionali CGIL nazionale

Con la nuova legge elettorale e con l’elezione diretta dei sindaci i Comuni hanno riacquistato ruolo e autorevolezza politica primaria. L’investitura democratica forte, la limpidezza degli schieramenti politici e la garanzia di stabilità e di governabilità creano una situazione nuova rispetto all’esperienza precedente.

Il principio costituzionale di autonomia dell’ente locale esce sicuramente rafforzato; è possibile avviare una nuova stagione delle autonomie. A ben guardare si tratta della più rilevante riforma istituzionale attuata negli ultimi anni, mentre non si è ancora trovato un assetto convincente per il sistema elettorale nazionale e perdura la crisi dell’istituto regionale. Nonostante lo straparlare di “seconda Repubblica”, che giunge talora a vere e proprie forme di delirio retorico, dobbiamo onestamente riconoscere di essere ancora lontani da una riorganizzazione coerente dello Stato e delle sue istituzioni e di trovarci in presenza di gravi conflitti tra i diversi poteri dello Stato.

In questo quadro i Comuni rappresentano per i cittadini uno dei pochi punti di riferimento certi in cui il nuovo meccanismo dell’elezione diretta del sindaco ha, fino ad ora, dato complessivamente una prova positiva. Va quindi respinta la richiesta del referendum che modifica il sistema elettorale vigente il quale avrebbe l’effetto di eliminare l’elemento più significativo e innovativo, cioè il ballottaggio al secondo turno tra i due candidati più rappresentativi.

Partiamo, allora, dal riconoscimento del nuovo ruolo delle amministrazioni comunali che vedono i sindaci legittimati direttamente dal consenso popolare, e con le giunte svincolate dalle necessità della rappresentanza politica. La giunta non è più sede di mediazione tra i partiti, ma organo di collaborazione tecnico-politica che risponde direttamente al sindaco e che deve garantire l’attuazione del programma amministrativo. Convinti che sta nel governo delle città uno dei punti di forza del nostro ordinamento e convinti che i comuni, così rinnovati, possono essere protagonisti e punti di riferimento in questa complessa e tumultuosa fase di transizione istituzionale, vogliamo promuovere un confronto con gli amministratori dei comuni.

Peraltro dobbiamo guardarci dai rischi di eccessiva semplificazione e da facili suggestioni di segno presidenzialistico.

È importante che i cittadini possano concorrere direttamente alla scelta del sindaco, ma ciò non esaurisce la vita democratica, al contrario la vera misura della democraticità dell’azione politica e amministrativa ·avviene dopo la formazione del governo e dipende dalla possibilità per i cittadini e per le loro organizzazioni rappresentative di concorrere alle decisioni e di esercitare un efficace controllo.

Va rifiutato il modello presidenzialista-plebiscitario. Con tale posizione viene meno l’ispirazione fondamentale del nostro ordinamento costituzionale basata sull’equilibrio e sulla divisione dei poteri e si passa a una visione del tutto estranea alla tradizione democratica europea. Per fortuna i nostri sindaci, che non hanno di queste megalomanie, possiedono una visione più realistica e corretta della loro funzione.

Comunque è bene tracciare con chiarezza i limiti e le condizioni entro le quali si svolge la funzione di governo che non dispone di una completa libertà di decisione, ma che deve essere bilanciata da efficaci contrappesi e strumenti di controllo.

Per quanto riguarda i Comuni un problema è il rapporto tra la giunta e il consiglio comunale che non può essere ridotto a un organo passivo di mera ratifica, ma deve mantenere funzioni essenziali di indirizzo. Il rafforzamento del ruolo del sindaco richiede una rimotivazione politica forte dei compiti del consiglio, il quale deve essere liberato da una serie di adempimenti burocratici secondari e deve concentrarsi sulle grandi questioni di indirizzo politico e strategico. Il problema dei rapporti tra sindaco, giunta e consiglio non sembra essere stato finora adeguatamente affrontato e risolto.

Analogamente si pone il tema dei rapporti con le organizzazioni sociali e, in particolare, c’è il problema di definire un nuovo sistema di relazioni sindacali. Se il quadro istituzionale è cambiato, anche il ruolo e l’ambito di iniziativa del sindacato deve essere ridefinito. In questa epoca di semplificazioni propagandistiche il necessario passaggio verso nuove regole viene interpretato come la fine del consociativismo. Ma qui occorrono davvero analisi più accurate. Il consociativismo, se vogliamo usare correttamente questo termine e non dilatarne a dismisura il significato, consiste nella confusione e sovrapposizione dei ruoli, nel venir meno dell’autonomia istituzionale dei diversi soggetti, per cui tutti si occupano di tutto, e ciascuno finisce per avere un diritto di veto, con conseguente allungamento abnorme dei tempi della decisione fino a determinare stati di paralisi. Per spezzare il meccanismo perverso del consociativismo occorre ripristinare la pienezza dei poteri e la sovranità di ciascuna istituzione nel proprio ambito. Ciò vale per tutti, anche per il sindacato che non deve essere coinvolto in modo improprio in compiti di gestione amministrativa che non gli competono, e che deve disporre di piena autonomia, progettuale e contrattuale.

Ma, detto ciò, il tema del sindacato è centrale e il sistema di relazioni con le forze sociali è indicativo dell’orientamento politico e della volontà democratica delle diverse amministrazioni.

Su quali basi queste relazioni possono oggi essere definite?

Proviamo a fissare alcuni punti orientativi.

Il sistema delle relazioni sindacali riguarda il rapporto tra soggetti dotati di autonomia in cui la ricerca dell’intesa e del consenso non deve condurre a un offuscamento delle rispettive distinte responsabilità. Né il sindacato può essere cinghia di trasmissione, né può essere menomata la pienezza di responsabilità politica e decisionale degli organi di governo ai vari livelli. E con ciò il problema del consociativismo è risolto. Ma l’autonomia non è, non deve essere, indifferenza reciproca o rapporto solo conflittuale, perché è nell’interesse delle parti e soprattutto è nell’interesse della collettività ricercare possibili terreni di accordo. Un sistema di relazioni consiste nell’intesa sulle procedure del confronto, nella definizione di un metodo che renda possibile un’interlocuzione costruttiva e raccordo tra le parti.

Il metodo della “concertazione”, contenuto nell’accordo sindacale del luglio ‘93 con il governo Ciampi, può essere opportunamente realizzato anche a livello dei governi locali. Ciò non riguarda solo il sindacato, ma l’insieme delle organizzazioni economiche e sociali. Si tratta allora di individuare apposite sedi (bilaterali, triangolari o multilaterali, a seconda dei temi di cui si tratta) per verificare le condizioni, i contenuti e i limiti di una tale politica di concertazione. Questa pratica non lede l’autonomia dei soggetti, ma li impegna in una ricerca e in un confronto costruttivo, in cui ciascuno tiene conto non solo dei suoi interessi legittimi, ma anche dell’interesse generale.

Ovviamente, affinché questo confronto possa essere utile, va attivato quando il processo decisionale è ancora aperto e richiede il massimo d’informazione e la possibilità di esaminare più ipotesi in modo che le forze sociali non siano costrette, di fatto, a ratificare o respingere decisioni già prese, ma possano effettivamente concorrere alle scelte programmatiche.

Per dare ordine e chiarezza a questo sistema di rapporti può essere utile fissare nel corso dell’anno un paio di sessioni nella fase di predisposizione del bilancio e del programma e nella fase di verifica, garantendo la massima trasparenza. Occorre operare in modo che siano chiare le diverse proposte in campo e che siano comprensibili per i cittadini i punti di accordo e di disaccordo.

Questo impegna il sindacato in uno sforzo propositivo e progettuale, in un lavoro che va oltre la normale azione contrattuale e di tutela dei lavoratori.

Soltanto in questo modo abbiamo titoli per essere davvero interlocutori validi.

Occorre quindi definire in modo preciso l’ambito del confronto, ovvero quali sono le materie, quali gli atti amministrativi e programmatici da sottoporre a questa procedura.

Si possono, in via sommaria, da un lato distinguere le scelte strategiche che coinvolgono l’intera collettività e che richiedono perciò la più ampia partecipazione democratica e, dall’altro lato, i compiti di gestione amministrativa per i quali va garantita la piena autonomia nell’esercizio della responsabilità di governo. Nei protocolli di relazioni sindacali è necessario circoscrivere l’ambito del confronto in modo da evitare un’estensione abnorme del sistema della concertazione che finirebbe per essere paralizzante e inapplicabile. Tali protocolli dovranno tener conto della complessità istituzionale dell’ente locale e individuare il livello del confronto con il sindaco e la giunta, il consiglio comunale, la dirigenza amministrativa.

Per quanto ci riguarda dobbiamo aver chiari sia i nostri compiti sia i nostri limiti; i compiti e i doveri che ci vengono dall’essere una forza rappresentativa del mondo del lavoro che non vuole restringere la sua azione al solo ambito del rapporto di lavoro, ma che tutela i lavoratori e i pensionati in quanto cittadini e portatori di bisogni sociali complessi e, ciò malgrado, i limiti propri di un’organizzazione che rappresenta interessi parziali, per quanto consistenti essi siano, e che non vuole sostituirsi all’autonoma responsabilità del potere politico.

Sulla base di questi principi generali si può definire un nuovo sistema di relazioni sindacali, libero da vecchie incrostazioni corporative e consociative, proiettato a un confronto limpido e trasparente sulle grandi scelte strategiche, che devono essere assunte per il futuro dalle nostre città.

Dovrebbe esser chiaro che il problema delle relazioni sindacali impostato nel suo rapporto con le scelte strategiche generali non è soltanto una questione di procedure, ma è una questione politica. La nostra non è una rivendicazione di parte, ma nasce dalla convinzione che i grandi temi della città moderna e della sua trasformazione possano essere affrontati attivando un più adeguato circuito di partecipazione e di consenso. Il sindacato è in questo senso un interlocutore necessario, non esclusivo, ma indispensabile per raggiungere obiettivi significativi di riorganizzazione civile e sociale. Sono destinate al fallimento le illusioni tecnocratiche di interventi dall’alto che non poggiano sul consenso della gente.

Le città hanno la necessità, drammatica e urgente, di una grande riorganizzazione: negli stili di vita, nel sistema degli orari, nell’organizzazione dei servizi collettivi, nella tutela dell’ambiente, nella valorizzazione del patrimonio culturale, nell’uso del territorio.

E ciò non può essere fatto senza partecipazione attiva e senza consenso sociale sufficiente per cambiare i comportamenti sociali e individuali.

Altresì siamo convinti che non può bastare l’intervento pubblico tradizionale, che va superata una concezione statalistica e dirigistica e che occorre ampliare lo spazio per l’iniziativa sociale di più soggetti, per una rete diffusa di associazionismo democratico. L’intervento pubblico è molto più efficace se interagisce con questo tessuto autonomo della società civile e di cui il sindacato è una parte rilevante.

Un campo importante su cui è evidente l’interesse del sindacato è quello della riorganizzazione del sistema degli orari. Questo pone problemi assai complessi di organizzazione della produzione e dei servizi e di organizzazione sociale che possono essere affrontati mediante il confronto diretto con i lavoratori coinvolti in tali processi. In generale è necessaria una nuova capacità di progettazione e di scelta consapevole circa l’uso e l’organizzazione del territorio, che inverta la tendenza prevalente negli anni passati. È stata abbandonata, di fatto, ogni visione di insieme, ogni forma di pianificazione e di finalizzazione, ovvero di governo politico dello sviluppo, con i risultati devastanti che vediamo. Il governo del territorio è il primo compito dell’ente locale; esso richiede una solida base scientifica, il rilancio di una vera cultura urbanistica e capacità di mediazione tra interessi diversi, assicurando il coinvolgimento di tutti i soggetti sociali. I comuni hanno anche una significativa funzione economica e di promozione dello sviluppo, sia perché all’ente locale fa direttamente capo un insieme rilevante di strutture amministrative, di aziende pubbliche e di enti, sia perché nell’attuale fase di emergenza occupazionale occorre attivare tutti gli strumenti utili per allargare l’iniziativa economica, creare nuova occupazione ed elevare il livello complessivo di professionalità della forza-lavoro.

In questo quadro si colloca il problema delle relazioni sindacali tra comune e sindacato come aspetto non esclusivo, ma importante, di uno stile di governo aperto alla società civile e che, proprio per questa apertura, sia in grado di affrontare con efficacia e con il consenso necessario i grandi e complessi problemi dell’organizzazione della vita urbana in tutti i suoi aspetti.

Una volta individuate le scelte politiche e strategiche, si tratta di garantire un funzionamento coerente della macchina amministrativa. Questo rapporto tra politica e amministrazione è stato e resta un punto critico, esposto a varie forme di distorsione, sia nel caso in cui è la politica a invadere l’amministrazione, sostituendo ai criteri di professionalità quelli dell’appartenenza partitica e della fedeltà personale, sia nel caso in cui l’istanza legittima di autonomia e di neutralità dell’amministrazione si trasforma in un’azione di resistenza che impedisce o snatura la realizzazione degli obiettivi politici. In questo passaggio critico l’azione del sindacato può essere importante per impedire lo stravolgimento del rapporto tra politica e amministrazione, nell’uno o nell’altro senso, e tanto più il sindacato potrà svolgere efficacemente questa funzione quanto più è coinvolto e partecipe nelle scelte di indirizzo politico generale.

Il problema dell’amministrazione, della sua efficacia e funzionalità rappresenta una condizione di base, ed è interesse di tutti garantire questa condizione e rimuovere tutti gli elementi di burocratizzazione e di inerzia che inceppano il funzionamento della macchina amministrativa e che rischiano di far fallire qualsiasi progetto innovativo.

Il sindacato deve fare la sua parte, e in effetti un’azione riformatrice è stata avviata con la riforma del rapporto di lavoro del pubblico impiego e con l’adozione di nuovi criteri contrattuali che favoriscono la professionalità e l’efficienza dei pubblici servizi. Occorre dar vita nella pubblica amministrazione a rapporti contrattuali trasparenti e a meccanismi di decentramento e di flessibilità che consentano di sperimentare le soluzioni più adeguate per una migliore organizzazione dei servizi e per una piena valorizzazione delle risorse professionali. Sotto questo profilo il recente contratto degli enti locali presenta novità significative che aprono qualificanti spazi di contrattazione. I comuni possono dare un impulso importante in questa direzione, spezzando le vecchie logiche centralizzatrici e offrendo ai lavoratori e al sindacato un terreno di confronto innovativo, esplorando le possibilità di riforma della macchina amministrativa e di innovazione della strumentazione contrattuale. A questo confronto il sindacato è disponibile e interessato, e pensiamo che, pur nella normale articolazione e dialettica presente nel confronto sindacale sia possibile superare la logica della conflittualità e realizzare convergenze e obiettivi comuni. In questo caso servono a poco gli interventi dall’alto, le direttive, gli atti di autorità, se non si instaura un confronto diretto con i lavoratori interessati e si attiva un processo di partecipazione capace di valorizzare la responsabilità dei lavoratori.

La nostra tesi di fondo – quindi – è che il nuovo ruolo dell’ente locale e l’autorevolezza dei governi locali dovuta alla nuova legge elettorale si debbano integrare con la ricerca di forme efficaci di partecipazione. Proprio questa più forte autorevolezza e legittimazione consentono e richiedono lo sviluppo di una rete democratica, di un insieme di rapporti, di relazioni, di canali di partecipazione, in modo che il comune sia davvero la prima e fondamentale cellula dello Stato democratico, l’essenziale punto di riferimento per i cittadini.

Questo discorso non riguarda solo il sindacato, ma riguarda l’insieme della società civile e l’insieme delle sue organizzazioni. C’è tuttora, nelle grandi città, una carenza di vita democratica: ci sono periferie senza voce, strati sociali passivi e cittadini senza diritti come è il caso degli immigrati dal Terzo mondo o dall’Est dell’Europa. Occorre dunque un nuovo sviluppo democratico, che renda effettivi i diritti di cittadinanza e allarghi gli spazi di autogoverno, e occorre riprendere in esame il tema della partecipazione per individuare nuove forme di intervento. Intorno a questo nodo si può sviluppare l’autonomia statutaria dei comuni, con soluzioni differenziate in rapporto alla diversità delle situazioni e dei contesti economico-sociali. Si dovrà anche riflettere sull’esperienza delle circoscrizioni, che sono rimaste a uno stadio di sviluppo assai debole ed esaminare la possibilità di un più significativo decentramento delle funzioni amministrative, così come si dovrà regolamentare l’istituto del referendum sulle questioni di interesse cittadino. Per le grandi città resta aperto il problema della costituzione del governo metropolitano. Si è determinato un ritardo assai serio, e ora si cerca, con un nuovo provvedimento legislativo, di ridefinire i tempi e i meccanismi vincolanti per giungere al varo delle aree metropolitane entro la fine del ‘96.

A questo punto però la discussione si intreccia necessariamente con un problema di ordine più generale che riguarda l’assetto complessivo del nostro ordinamento locale con le ipotesi di riforma istituzionale della forma di Stato.

È infatti all’ordine del giorno il tema del federalismo, ovvero di un nuovo assetto dei poteri e di una nuova distribuzione di risorse e di competenze tra Stato centrale e regioni. Guardiamo a questa prospettiva con grande interesse. Il federalismo può essere la chiave di una riforma democratica dello Stato che sviluppa l’autogoverno e avvii un processo positivo che ricostruisca sul territorio autonomia e responsabilità, nuove classi dirigenti e nuova capacità di governo. D’altra parte una tendenza in questo senso, che si tratti di Stati federali o di forme sviluppate di regionalismo, è presente in tutta Europa, essendo ormai matura la necessità di riformare le vecchie strutture statuali centralizzate e di riconoscere uno spazio reale di autonomia e di autogoverno alle regioni.

In Italia il progetto federalista deve fare i conti con alcuni dati peculiari della nostra situazione economico-sociale e della nostra storia politica. In primo luogo, l’Italia è il paese che ha al suo interno i più marcati squilibri territoriali, tra il Nord e il Sud, e quindi occorre assicurare garanzie certe sui meccanismi di perequazione e di solidarietà. Un federalismo indifferente a questa esigenza, che sia espressione dell’egoismo delle regioni forti, è per noi del tutto inaccettabile. Anche per il Sud la sfida del federalismo, in quanto scommessa sull’autonomia e sulle capacità di autogoverno, può essere un’occasione di riscatto, di rottura dei meccanismi perversi di dipendenza propri dell’economia meridionale assistita. Questa scommessa è possibile, ed è possibile il consenso intorno ad essa, se viene garantita una distribuzione equa delle risorse, che tiene conto degli attuali squilibri e che si propone di rimuoverli.

Il secondo dato caratteristico della situazione italiana è la tradizione politica forte delle autonomie comunali e la debole identità regionale. Il federalismo ha, quindi, bisogno dell’apporto delle autonomie locali e deve essere pensato non come nuovo accentramento di potere delle regioni, ma come sviluppo di tutto il sistema delle autonomie: il massimo decentramento possibile dallo Stato alle regioni e dalle regioni agli enti locali. I comuni quindi, i grandi comuni in primo luogo, possono essere degli attori importanti e decisivi in questa azione di riforma, assumendo la prospettiva della riforma federalista dello Stato e immettendo in questa prospettiva tutta la ricchezza della loro esperienza democratica. Se il nuovo contesto di riferimento sarà quello delle regioni, e se spetterà alle regioni – come è logico che sia in un’impostazione federalista – un compito ordinamentale rispetto al sistema delle autonomie locali, dovranno essere trovate, nel rapporto e nel confronto tra regioni ed enti locali, gli assetti più adeguati per quanto riguarda la suddivisione delle competenze, il modello istituzionale e organizzativo dell’area metropolitana, il ruolo delle province. Tali assetti dovranno essere il risultato di una ricerca aperta a soluzioni differenziate ma aderenti alla realtà dei diversi contesti regionali.


Numero progressivo: B7
Busta: 2
Estremi cronologici: 1995, 19 giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Nuova Rassegna Sindacale”, n. 23, 19 giugno 1995, pp. VI-VIII