IL DIFFICILE RAPPORTO TRA LAVORO E POLITICA

Recensione di Riccardo Terzi al libro di Tronti “Operai e capitale” del 1966 in occasione della sua ristampa

Il libro di Mario Tronti Operai e capitale, del 1966, è stato recentemente ristampato in una nuova collana che ha come titolo Biblioteca dell’operaismo. La riedizione è meritoria, un po’ meno – a mio giudizio – l’idea di presentarla sotto l’insegna dell’operaismo, perché questo ne restringe la portata politica e culturale. L’operaismo è infatti comunemente percepito come una forma di pensiero semplificata e schematica, che riduce l’analisi politica al dato immediatamente sociologico, facendo saltare tutto il complesso di mediazioni e passaggi che occorre saper cogliere nella dialettica tra l’astratto e il concreto, A Tronti forse non dispiace essere definito così, come l’esponente più insigne dell’operaismo italiano, perché egli ha in mente l’idea di una cultura militante, che si schiera in modo incondizionato da una parte, agendo dentro il conflitto sociale come una forza di mobilitazione e d’organizzazione strategica.

Ma il suo pensiero, in realtà, è più complesso e più denso, e l’operaismo ne costituisce solo un aspetto, un momento, che viene immesso dentro una visione forte della politica e della sua autonomia: l’iniziativa politica come azione strategica che s’innalza oltre il livello della spontaneità, che forza la situazione e la spinge verso una rottura e un rovesciamento dei rapporti di potere. È Lenin il modello di questa concezione della politica. Non spontaneità operaia, ma organizzazione, partito, intelligenza tattica, inquadramento «dall’esterno» della coscienza di classe in quanto coscienza politica. «La coscienza di classe è appunto per noi il momento della tattica, il momento dell’organizzazione, il momento del partito. Interpretiamo così la tesi leninista della coscienza politica, che deve essere portata agli operai dall’esterno. Dall’esterno, attraverso l’organizzazione di partito, devono essere portate le svolte della tattica. Dall’ esterno, devono essere ricostruiti tutti i passaggi pratici del processo della rivoluzione». L’autonomia del politico, su cui lavorerà Tronti negli anni successivi, è già qui presupposta. E ciò significa che il rovesciamento rivoluzionario non è indirizzato solo contro le leggi del capitale, ma anche, nello stesso tempo, contro la spontaneità operaia, contro la sua tendenziale passività. La classe operaia è la forza che continuamente riproduce il capitale, mettendo in moto i rapporti di produzione capitalistici, quindi agendo come una condizione interna per il funzionamento del sistema. Per questo, la classe operaia deve anche abolire se stessa, e questo trascendimento non può che essere il risultato della politica, il risultato di un’azione che è esterna all’immediatezza sociale.

Senza questa rottura, teorica e pratica, il conflitto sociale finisce per essere incanalato dentro il sistema, come un elemento della sua manutenzione e stabilizzazione. Ed è quello che è avvenuto con le forme storiche d’organizzazione del movimento operaio, che hanno funzionato come «mediazione ideologica interna al capitale». Prescindiamo per ora dal problema della fondatezza di questo giudizio. Sulla «integrazione» della classe operaia, sulla forza di manipolazione e d’assimilazione ideologica del neo-capitalismo, c’è stato un vasto dibattito negli anni sessanta. Ciò che qui importa segnalare è il tipo di risposta che Tronti propone a questo problema, una risposta che è tutta giocata sul terreno dell’iniziativa politica. Se questo è l’impianto teorico, che riproduce fedelmente la concezione leninista del rapporto tra classe e partito, allora davvero siamo fuori del campo dell’operaismo, perché il primato è tutto e solo della politica.

Proprio il terreno della politica, così fortemente assunto da Tronti come il luogo dell’azione rivoluzionaria, appare essere il suo punto debole, perché qui davvero non sembra esserci alcun rapporto tra la sua costruzione teorica e la realtà effettuale. Questo nodo irrisolto affiora più volte nel libro, ma finisce per essere solo aggirato, rinviato a un ipotetico e improbabile futuro. «Bisogna saper trovare il luogo, il punto in cui una catena di circostanze ha fatto sì che ci sia un solo nodo da sciogliere perché riprenda a camminare il filo del movimento rivoluzionario: il nodo del partito, la conquista dell’organizzazione». Ma questo cammino si scontra con una realtà dissociata, perché «il partito considera fallito il punto di vista operaio, gli operai considerano fallito il punto di vista del partito. Eppure non è possibile il processo rivoluzionario senza classe e partito insieme».

Questa nuova saldatura viene però solo predicata, enunciata, ma non viene individuato alcun percorso concretamente praticabile. Il movimento operaio, nelle sue forme storicamente realizzate, ha imboccato, almeno nella pratica, la strada del riformismo, è quindi ormai solo un momento interno di stabilizzazione del sistema. Il sindacato, in particolare, viene visto solo come un elemento d’integrazione, il cui risultato è quello di rendere più fluidi e più accettabili i meccanismi dello sfruttamento capitalistico. Lotta economica e lotta politica vengono così dissociate: «un sindacato che si trova a gestire le forme concrete della lotta di classe senza poter neppure parlare di un loro sbocco politico, e un partito politico che esaurisce la sua funzione nel parlare di questo sbocco politico senza il minimo riferimento e il più lontano legame con le forme concrete della lotta di classe». Ciò che colpisce, in quest’analisi, è questa totale e cruda sottovalutazione dell’esperienza sindacale, proprio negli anni in cui si andava organizzando un nuovo ciclo di lotte e riprendeva forza, dal basso, l’unità dei lavoratori. Qui si vede come Tronti, nonostante la sua dichiarata avversione per le ideologie, sia anch’egli prigioniero di uno schema ideologico, per cui alcune cose non riesce a vederle o le vede deformate. Non vede che è proprio dal terreno sindacale che si rimette in movimento tutta la situazione e che si aprono nuovi spazi politici. Il principio leninista del primato del partito viene invece estremizzato, fino a dire: «rifiuto di tutto intero il terreno sindacale, rifiuto di chiudere entro una forma contrattuale, formale, legale, il rapporto di classe». E, in un altro passaggio: «legare il sindacato al partito con una cinghia di trasmissione sembra ancora la via più praticabile della lotta di classe», fino a prevedere, nella lunga prospettiva, «una identificazione, sul terreno di classe, tra partito e sindacato».

Ma poi, quando si passa al piano della politica, manca il soggetto, manca la forza organizzata che può reggere tutto il progetto. Resta in sospeso il giudizio sul PCI, che forse può essere ancora recuperato a un progetto rivoluzionario, e che comunque continua ad avere radici profonde nella realtà operaia. «Non consegnare il PCI all’operazione riformista del capitale», questa è la prima esigenza. Il rapporto col PCI non viene però seriamente affrontato e tematizzato. Il PCI, in fondo, è visto solo come un luogo, uno spazio dove tentare di aprire nuove strade, in controtendenza rispetto alla sua linea politica ufficiale, utilizzando i suoi canali organizzativi che lo collegano alla realtà operaia. Si tratta solo di una possibilità strumentale, non di una potenzialità strategica, di una posizione tattica in attesa che una precipitazione della crisi possa cambiare tutto lo scenario: «ma un’alternativa di organizzazione, sul piano politico generale, in questo momento, in Italia, nessuno la può vedere».

Dunque tutto è affidato a una difficilissima lotta politica e culturale, ancora tutta da organizzare e da impostare. Col partito non si rompe, ma il partito, così com’ è, è inutilizzabile. E allora, si tratta solo di agire dentro l’ambiguità della situazione, cercando faticosamente di riannodare il filo che si è spezzato tra lotta operaia e azione politica. Come si vede, il discorso finisce per impantanarsi nelle secche di una situazione politica che ha escluso da sé ogni prospettiva rivoluzionaria. Di fronte a questa crisi, c’è solo il volontarismo di un voler ricominciare dal principio. Così infatti si conclude il libro: «di nuovo, tutto rimane ancora da fare». Tutto rimane da fare perché il fare è un assoluto, è il rifiuto totale del sistema, e non si vedono le tappe di un processo che già è in atto e che può essere guidato, indirizzato verso nuovi sbocchi. Rifiutando il riformismo si rifiutano tutti i passaggi parziali, e resta in piedi solo una grande rappresentazione mitologica: la strategia del rifiuto, la classe operaia che dice il suo no totale e definitivo alla produzione capitalistica. Solo a quel punto il processo rivoluzionario comincerà davvero a prendere forma.

Altri, negli anni successivi, cercheranno di aprire altri varchi, non più dentro il movimento operaio organizzato, ma contrapponendosi a esso anche in forme violente. Si forma così, alla fine degli anni sessanta, una vasta galassia di movimenti, di gruppi, che cercano di rovesciare l’egemonia del riformismo politico e sindacale sulla classe operaia, entrando direttamente in conflitto, negli stessi luoghi di lavoro, con le organizzazioni ufficiali del movimento operaio. Il tragitto politico e culturale di Tronti è diverso. Anche se non si può negare una linea di discendenza tra le sue teorie e l’esperienza successiva dei vari gruppi estremisti, Tronti resta fedele a una sua autonoma linea di ricerca, che tenta di rintracciare nella realtà e nell’ esperienza operaia concreta i germi di una nuova politica. Il movimento del Sessantotto non lo coinvolge, sia perché il soggetto protagonista non è la classe operaia sia perché, con tutte le sue riserve sul PCI e sul sindacato, non può condividere la linea di una contrapposizione frontale, ritenendo che questo continua a essere il terreno di una possibile azione di classe, che va rinnovato, ma non abbandonato. Comunque sia, anche nel Poscritto del 1970 non c’è nessuna eco del Sessantotto: si parla d’altro, di Lenin, della socialdemocrazia tedesca e del New Deal americano.

Sono pagine di grande interesse, nelle quali si respira un diverso clima culturale e si avverte l’esigenza di andare oltre le ideologie, oltre gli schemi dottrinari, per afferrare la realtà operaia nella sua interna verità, nella materialità concreta dei processi in cui essa si esprime. La polemica anti-ideologica non è una novità. Essa percorre tutto il libro e n’è uno dei principali fili conduttori. Si basa su una particolare lettura di Marx (il Marx del Capitale e dei Grundrisse), contro le interpretazioni filosofiche, hegelianeggianti, che si concentrano sul Marx giovanile, sul concetto d’alienazione, sulla dialettica rovesciata, su un’interpretazione che resta tutta interna alla storia del pensiero filosofico. «Marx non è l’ideologia del movimento operaio: è la sua teoria rivoluzionaria». Occorre quindi, anche dall’interno del marxismo, un processo di deideologizzazione, in coerenza con quell’affermazione cruciale dello stesso Marx, nell’Ideologia tedesca, per cui «il comunismo non è per noi uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti».

Marx rivoluzionario e scientifico, contro il Marx filosofo. È la stessa polemica di Galvano Della Volpe e della sua scuola, e di Althusser in Francia. Il grande ostacolo da rimuovere è l’eredità di Hegel, la sua dialettica che tutto assorbe e tutto giustifica, in nome di un movimento che non è fatto dagli uomini, ma dalla storia dello Spirito, in cui gli uomini si trovano involontariamente implicati, manovrati dalla superiore «astuzia della ragione». Se non si spezza questa dipendenza filosofica, anche il marxismo diviene solo una «visione del mondo», una filosofia della storia, insomma un pensiero, non una pratica rivoluzionaria.

Questa polemica ha anche un immediato risvolto politico, perché nella cultura ufficiale del PCI prevale una lettura storicistica di Marx, la quale passa attraverso Hegel e attraverso Croce, per affermarsi come una nuova e più alta forma d’umanismo, che non nega ma raccoglie tutta l’eredità della filosofia classica. Dietro la disputa teorica c’è dunque la divaricazione delle strategie: una politica nazionale di unità democratica, che interpreta le esigenze profonde della storia senza mediazioni ideologiche, nell’essenzialità di un conflitto di classe non negoziabile, non mediabile, dove non sono in gioco i valori dello spirito, ma solo la materialità delle contraddizioni sociali.

Ma, tornando al Poscritto, il fatto più interessante e più sorprendente è che, in questa ricerca di un’esperienza operaia non sovrastata dall’ideologia, quindi non deviata nei suoi fini, viene indicato come un modello quello delle lotte operaie negli Stati Uniti d’America nel periodo del New Deal, dal 1933 al 1947. «Se sul terreno della lotta di classe la vittoria si misura con che cosa e con quanto di questo che cosa si è conquistato, allora gli operai europei hanno davanti a sé come il più avanzato modello di comportamento, per i loro bisogni di oggi, il modo di vincere, o se volete il modo di battere l’avversario che hanno adottato gli operai americani negli anni trenta». Il punto di forza di quest’esperienza di lotta è proprio il suo essere ideologicamente vergine, volta solo a sfruttare realisticamente tutte le contingenze favorevoli, tutti gli spazi di iniziativa, senza essere imbrigliata da una teoria. Mentre la storia operaia europea, soprattutto nella sua versione classica, quella della socialdemocrazia tedesca, è schiacciata sotto il peso delle burocrazie, dei congressi di partito, delle lotte di frazione, tutto questo condizionamento non c’è nell’esperienza americana, per cui il conflitto si rivela allo stato puro, senza mediazioni.

Questo giudizio irrompe come una straordinaria novità e rottura, dopo che si è teorizzato lo schema leninista per cui solo una teoria rivoluzionaria e un partito armato di questa teoria possono dare un senso alle lotte operaie, le quali, senza queste condizioni, sono solo un aggiustamento momentaneo del sistema capitalistico. In quest’analisi dell’esperienza americana s’intravede, quindi, anche se non dichiarata, una nuova direzione teorica, nella quale la critica dell’ideologia diventa ben più radicale e coerente, investendo di questa critica le stesse categorie del marxismo. Tronti si spinge molto in là, fino a dire che, nel corso della guerra, gli operai americani hanno saputo adottare «non più la parola d’ordine antiquata e socialista della lotta alla guerra, ma la rivendicazione di classe più moderna e sovversiva che si potesse allora concepire: partecipazione operaia ai profitti di guerra». L’esperienza americana appare così a Tronti, che ha sempre visto con assoluta ostilità tutta la retorica intorno ai «valori», come l’esempio di una pratica di classe che sta tutta sul terreno materiale, del conflitto e del possibile equilibrio tra gli opposti interessi in campo. Ciò significa anche riconoscere che nello stesso campo del capitale ci può essere un’iniziativa lungimirante, capace di aprire uno spazio d’interlocuzione e di dialogo. Così è stato nel New Deal di Roosevelt, che non solo ha puntato al riconoscimento del ruolo del sindacato, ma ne ha fatto un momento essenziale dell’azione di governo. Iniziativa capitalistica e iniziativa operaia per un momento s’incontrano e si sorreggono l’una con l’altra. «Ci sono momenti in cui vengono dunque a coincidere gli interessi delle due classi opposte, non più però nel senso tradizionale dell’interesse politico formale, quando tutti si combatteva per la conquista della democrazia. Il contenuto dell’interesse acquista ora uno spessore materiale».

Certo, è solo un passaggio, un momento. Ma il fatto di vedere come la dialettica di classe possa anche conoscere momenti di convergenza e d’alleanza, è questa una novità importante che si introduce nel rigido schema del marxismo ortodosso. La novità è nel fatto di vedere come le vie dell’iniziativa operaia possono seguire, nelle diverse situazioni, percorsi originali e imprevisti, senza che vi sia un unico possibile schema teorico. L’importante è prendere in mano l’iniziativa: «il rapporto tra le due classi è tale che chi ha l’iniziativa vince». Ma l’iniziativa può anche scompaginare gli schemi prefabbricati della dottrina. Non è casuale, credo, la bella citazione di Keynes: «quando un dottrinario passa all’azione, deve, per così dire, dimenticare la sua dottrina». E tutta l’esperienza americana è un capovolgimento pratico dell’ortodossia teorica: «se andiamo a cercare lì il partito, non troveremo più che “gruppi” di intellettuali mentre coltivano il proprio giardino». E allora, «non bisogna rimanere prigionieri dei nomi dati alle cose. Un partito può chiamarsi nei suoi documenti organizzazione politica della classe operaia ed essere nei fatti un’associazione di pompe funebri, una società di mutuo soccorso. Un sindacato può restringere i suoi programmi nello stretto ambito dell’immediato interesse operaio, e assolvere proprio per questo fatto in un certo momento a una funzione di partito, a un compito politico di scontro con il sistema».

Mi sono soffermato su questa parte del libro perché mi sembra quella più innovativa e più ricca di sviluppi, proprio perché a un certo punto conta la forza dei fatti e si rompe l’involucro rigido della teoria. Tronti, per quanto io lo conosco, ha sempre questa capacità di sorprenderci, di aprire varchi imprevisti, di illuminare qualche nuovo scenario, anche se tiene sempre saldo il suo retroterra e non rinnega mai nulla del suo passato. Il suo è un pensiero mobile, ma non ondeggiante, il contrario di ciò che abbiamo sotto gli occhi, la retorica del cambiamento e dell’innovazione senza che nulla di nuovo venga veramente pensato. È questa la ragione per cui io lo considero come un interlocutore, con cui confrontarsi e anche confliggere, in un dialogo alla pari, perché so dove sta, in quale campo, ma so anche che questo suo stare in un campo non significa esserne prigionieri e ripetere verità ormai stantie, ma significa sempre cercare, cercare senza deviare, mettere anche tutto in discussione, ma mai nel senso della rimozione e del trasformismo. Dopo avere confessato questo mio atteggiamento simpatetico, che non significa affatto una coincidenza di posizioni politiche, ma solo il riconoscersi in uno stile di pensiero, proverò ora, infine, a tirare le somme e a valutare oggi, a quarant’ anni di distanza, il significato di Operai e capitale, cercando di esprimere questo mio giudizio con il massimo di schiettezza critica.

Per un verso, si potrebbe semplicemente dire che è un libro ormai illeggibile, definitivamente fuori tempo, perché esso è incentrato su un’idea, quella della rivoluzione operaia, che era già assai problematica negli anni sessanta e che ora è fuori da qualsiasi prospettiva politica immaginabile. In più ci sono le asprezze del linguaggio di Tronti, le sue forzature retoriche, le sue provocazioni: per fare solo un esempio, la ricorrente immagine dell’odio di classe, che oggi stride violentemente con il nostro modo di sentire e ci sembra essere annunciatrice d’inutili violenze. C’è quindi, a una lettura contemporanea, utilizzando i nostri attuali metri di giudizio, un senso vivissimo d’estraneità e di distanza.

Sul piano più immediatamente politico il libro – come ho già avuto modo di dire – non riesce ad articolare una tattica efficace, perché tutta l’analisi sfocia nel mito del «rifiuto», senza definire i passaggi e pensando che il rapporto tra capitale e lavoro sia ormai giunto al suo combattimento conclusivo. «Strategia contro strategia: la tattica ai burocrati delle due parti». Ma questa è solo una rappresentazione idealizzata. La storia reale ha preso tutt’altra direzione e i «burocrati», vale a dire i politici pragmatici e riformisti, ne hanno scandito i tempi e le forme. Ciò che resta in piedi del movimento operaio e della sua cultura politica è solo quel tanto o poco che il riformismo è riuscito a trasmettere e a rinnovare, passando attraverso la profonda trasformazione di questi ultimi decenni. Tutto il resto è crollato. Ma questo destino d’inattualità, se guardiamo bene, non riguarda solo il libro di Tronti, ma ha investito la maggior parte della letteratura marxista del novecento. E allora la domanda è: dove si è compiuta, e perché, questa rottura? quali processi hanno determinato questo rovesciamento d’egemonia, per cui oggi ci troviamo tutti a parlare un altro linguaggio, a ragionare con altre categorie di pensiero? Negli anni sessanta un libro come Operai e capitale poteva essere giudicato troppo radicale ed estremista, ma il linguaggio in cui era scritto era d’uso corrente, perché si trattava appunto delle categorie classiche del marxismo. Non è Tronti che ha perso la sua partita con la storia, ma è quel linguaggio, quella cultura, quel modo di rappresentare il mondo.

Intorno a questo mutamento non c’è stata indagine, ricognizione accurata delle sue cause e dei suoi effetti, c’è stata piuttosto rimozione, per cui la crisi, proprio in quanto non afferrata nelle sue ragioni, ha finito per dilagare e per travolgere tutti gli argini. Da una teoria politica strutturata, alimentata da una lunga sedimentazione culturale, si è così passati a un linguaggio evanescente e retorico, che non sottintende nessuna analisi della realtà, ma solo un’enunciazione astratta di valori. Se l’analisi storico-sociale viene smentita dalla realtà, si tratta allora di correggerla, di aggiornarla, di rifare daccapo il lavoro d’interpretazione del reale, di dire con chiarezza cosa si conserva e cosa si abbandona delle precedenti teorie. Ma quasi nessuno si è cimentato in quest’impresa. Ci sono qui e là spezzoni d’analisi sociale, ma non c’è alcuna sintesi politica, alcun tentativo serio di ricostruire un quadro d’insieme.

Utilizzando il linguaggio di Tronti, potremmo dire che c’è stata un’offensiva strategica vincente del capitale, che è riuscito a depotenziare e destrutturare la forza d’urto operaia, spostando il conflitto altrove, attraverso un’organizzazione produttiva non più centrata sulla grande fabbrica ma dispersa nel territorio, utilizzando sempre più sistematicamente le risorse della globalizzazione e il differenziale di forza contrattuale che ne discende, dato che il capitale ha una mobilità illimitata, mentre la forza-lavoro resta insediata in un determinato territorio, e tutte le istituzioni sociali costruite nel tempo dal movimento operaio (sindacato, stato sociale, diritto del lavoro) restano ancora essenzialmente confinate nell’ ambito, ormai seriamente depotenziato, dello stato-nazione.

Ciò non significa che il conflitto sociale viene riassorbito e superato, ma che prende altre strade, si differenzia e si articola, e che esso non ha più il suo cuore pulsante nella fabbrica, ma attraversa in varie forme tutto il tessuto sociale producendo nuove fratture, nuove esclusioni, nuove forme di dominio. Occorre quindi rintracciare queste nuove traiettorie del conflitto, i luoghi, i soggetti, i percorsi della coscienza individuale e collettiva, gli embrioni d’organizzazione su cui si può far leva per costruire un qualche progetto politico nuovo, che abbia un rapporto con la realtà e che entri in comunicazione con il vissuto concreto delle persone.

Questo è il tema, oggi drammaticamente aperto. È in questo vuoto d’analisi e di proposta che dobbiamo cominciare a camminare, cercando di articolare una nuova pratica sociale, con il passo graduale e realistico che è proprio del riformismo, insieme con la radicalità di un discorso politico che ripropone oggi, nonostante tutto, il tema dell’uguaglianza, nello spazio nazionale e nello spazio globale. Ciò che resta valido della nostra tradizione è, a mio giudizio, l’idea che la politica non può ridursi alla predicazione etica, ma ha a che fare con la rete degli interessi e dei blocchi sociali, ed è con questa materia prima che deve saper lavorare, trovando di volta in volta gli equilibri e le mediazioni possibili. Come dice anche Tronti nel suo già citato Poscritto, la funzione della politica è quella di «attivamente mediare in modo complesso l’intera complessità reale delle situazioni concrete», continuando a considerare la società, come c’insegna Marx nei Grundrisse, non come un agglomerato d’individui, ma «la somma delle relazioni, dei rapporti in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro». Il risultato del grande mutamento sociale di questi anni non è «la moltitudine», il venir meno delle appartenenze sociali per dare luogo a una generale e universale «individualizzazione». Questa è solo l’apparenza, forse il modo in cui le persone avvertono oggi la loro condizione, ed è il modo in cui le nuove forme di decisionismo politico cercano di rappresentare la realtà per poter innestare un processo di tipo plebiscitario, nel quale gli individui sono impotenti e dispersi. Non si realizzerà la profezia di Toni Negri di una rivolta delle moltitudini contro l’Impero, perché moltitudine significa passività e adattamento.

Occorre invece, come nell’America del New Deal, «organizzare i disorganizzati», costruire cioè le rappresentanze sociali che siano capaci di dare voce e visibilità ai lavori dispersi, agli esclusi, ai nuovi bisogni di tutela e di cittadinanza. Una strategia politica è essenzialmente questo: accumulazione di forza. E questa a propria volta richiede la più lucida comprensione dei processi sociali in corso, per riuscire a indirizzarli verso determinati obiettivi. Questo mi suggerisce il lavoro di Tronti: la necessità di rifare oggi, nella nuova situazione e con nuovi strumenti teorici, un’analisi che rimetta tra loro in comunicazione la politica e la società. Per non avere, nel nostro prossimo futuro, una società stremata e spoliticizzata e un decisionismo autoritario.



Numero progressivo: L25
Busta: 9
Estremi cronologici: 2007, giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Recensioni
Serie: Cultura -
Pubblicazione: “Quaderni di Rassegna Sindacale” n. 2, aprile-giugno 2007. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione” col titolo “Mario Tronti, operai e capitale”, pp. 323-334