I FEDERALISMI POSSIBILI E IL FEDERALISMO SOCIALE

Seminario CNEL 15 marzo 1994

Resoconto stenografico della relazione di Riccardo Terzi – Segretario Generale CGIL Lombardia

Io eviterei di mettere in opposizione il tema del federalismo sociale e il tema del federalismo politico. La mia opinione è che l’esigenza profonda da cui nasce l’istanza federalista è un’esigenza sociale, di organizzazione delle comunità locali, della società civile, e quindi sicuramente c’è bisogno di sperimentare delle forme anche nuove e originali di federalismo sociale, come ci è stato opportunamente suggerito da questo incontro; credo però anche che queste esperienze di federalismo sociale non riusciranno a decollare, ad avere una solidità sufficiente se a questo non si accompagna anche un’operazione di carattere politico e istituzionale. Quando abbiamo cercato di affrontare, come regionali della CGIL, il tema del federalismo abbiamo ragionato sulle esperienze del sindacato, sulle esigenze che avvertiamo dall’interno del versante sociale, e al contempo abbiamo avvertito la necessità di una riforma istituzionale di tipo federalista, che segni un atto visibile di rottura, di discontinuità con tutta quella che è stata l’architettura istituzionale in Italia in tutti questi anni, con quegli elementi di giacobinismo o di centralismo che sono stati fin qui prevalenti nell’ordinamento dello Stato.

Finora, quello che c’è stato, anche nella esperienza delle regioni, un’esperienza che è rimasta un po’ a metà, che non è riuscita ad avere una sua fisionomia effettivamente autonoma, quello che fin qui è prevalso è un modello di decentramento: il luogo della sovranità è uno, unico ed esclusivo, ed è quello dello stato centrale, il quale poi può delegare determinate funzioni. Le regioni, quindi, hanno poteri delegati, non hanno una sovranità propria. Nel bilancio delle regioni, una percentuale altissima, attorno al 90%, è data da risorse vincolate, che le regioni non possono che spendere secondo delle direttive assolutamente rigide. C’è un meccanismo che è soltanto di decentramento, di delega di poteri, restando unica la fonte della regolazione politica.

Noi dobbiamo rovesciare questo rapporto. In questo senso credo sia corretto parlare di federalismo, per costruire un sistema di autogoverno locale, avere dei poteri effettivi a livello locale e avere un ordinamento statale, nazionale, limitato a quelle funzioni che sono funzioni indivisibili. Non tutto può essere affrontato a livello regionale o a livello locale, ci sono delle funzioni essenziali per l’unità nazionale: la politica estera, l’ordinamento giudiziario, la difesa. Va comunque rovesciato il rapporto: non c’è uno Stato che si decentra, c’è un sistema di autogoverno territoriale, che sta insieme anche attraverso delle funzioni che, essendo indivisibili, richiedono un ordinamento di carattere superiore.

Io credo che questa esigenza di riorganizzare su base federale il sistema politico sia accentuata in questo periodo non soltanto perché sono venuti avanti dei fenomeni che attengono alla sfera della identità (crisi di identità, ricerca di nuova identità), ma anche per ragioni più strettamente economiche. In questo passaggio da una economia a prevalenza industriale ad un’economia più sofisticata, sempre più diventa decisiva l’organizzazione del sistema territoriale. Questo è molto evidente in Lombardia che dovrebbe essere – lo è stata fino a poco fa – una regione forte, perché è una regione con uno sviluppo industriale molto avanzato. Ma questo oggi non è più sufficiente: nella competizione con le altre regioni forti dell’Europa è decisivo il funzionamento complessivo del sistema territoriale, se facciamo funzionare bene le sinergie, i rapporti fra i diversi pezzi del sistema. Se c’è un’industria forte, ma poi non funziona l’università, non funziona la ricerca scientifica, non funziona il sistema dei trasporti, allora non siamo in grado di competere, di assicurare davvero uno sviluppo economico forte.

Questi problemi non saranno mai decisi e affrontati in modo adeguato da un potere centrale. Il centralismo forse poteva funzionare con l’industrializzazione. Quando Stalin aveva il problema di fare dell’Unione Sovietica una grande potenza industriale in grado di reggere il conflitto militare, allora quel modello fino a un certo punto ha funzionato, ma in una fase come quella attuale, un sistema di direzione politica e di governo politico centralizzato è sicuramente un elemento di declino e di fallimento. Quindi io vedo nella rottura del centralismo una condizione indispensabile, una condizione sia di efficienza, per un verso, sia di sviluppo democratico, di sviluppo della partecipazione, di riconquista di un consenso sociale che si è smarrito, e questo smarrimento è anche all’origine dei fenomeni politici che abbiamo davanti.

Questo apre un campo di ricerca, di sperimentazione molto grande. Se noi partiamo da questo presupposto: che l’amministrazione è di norma un’amministrazione regionale e locale, tranne che per quelle pochissime funzioni indivisibili, si apre un campo di sperimentazione immenso. Pensiamo a come si potrebbe riorganizzare il sistema scolastico, tipico esempio oggi di centralismo: è possibile innovare in questo campo, costruire dei sistemi formativi adeguati alle esigenze delle singole realtà territoriali? Così anche in altri campi, come quello della politica dei trasporti, dove pure ci sono certamente delle grandi reti nazionali o internazionali, ma c’è la possibilità di organizzare un sistema regionale dei trasporti che crei quelle condizioni di efficienza complessiva del sistema territoriale. Gli esempi possono essere molto vari. Probabilmente sarà necessario riesaminare la dimensione territoriale delle regioni. Io parlo della Lombardia, e non credo che le stesse cose si possono fare nello stesso modo in regioni che hanno una dimensione molto piccola. Mi pare ragionevole pensare a una riorganizzazione non in tre repubbliche, ma in 10-12 regioni rispetto alle 20 attuali, e aprire quindi una fase di grande sperimentazione. Però qui le resistenze sono fortissime: nel momento in cui tutti parlano di regionalismo, di federalismo e non si trova ormai più nessuno che sul piano teorico sostenga il centralismo, sul piano pratico non è cambiato assolutamente nulla; questa ventata di cultura federalista è rimasta una ventata puramente retorica. Questo è tipico dell’Italia, dove un po’ tutto diventa retorica. E quando affrontiamo problemi concreti vediamo delle resistenze formidabili.

Noi stiamo lavorando come CGIL, con alcuni regionali, sulla riforma del Ministero del Lavoro, un tipico caso di poteri che potrebbero essere affidati quasi completamente alle regioni, perché i mercati del lavoro sono mercati regionali, perché la struttura centralistica del Ministero e di tutti i vari uffici del collocamento hanno raggiunto livelli di inefficienza altissimi, però qui c’è una resistenza molto forte per cui quello che viene avanti è qualche ipotesi molto minimale, molto timida di potenziamento delle sedi decentrate del Ministero, senza affrontare alla radice il problema.

In questa situazione, io vedo in questo rapporto tra il tema del federalismo sociale e quello del federalismo politico, la condizione di ricostruzione di una classe dirigente. In Lombardia – non voglio generalizzare, ma ho l’impressione che non sia soltanto un caso lombardo – c’è ormai da tempo una completa assenza di classe dirigente, perché non c’è più la vecchia borghesia ambrosiana, non c’è una classe dirigente politica autorevole e significativa, per non appesantire troppo il giudizio; i punti decisivi dell’economia lombarda dipendono da realtà esterne, da grandi società multinazionali, o da scelte politiche che prescindono dal contesto locale. Da tutto ciò scaturiscono molti degli aspetti perversi che hanno aperto una crisi politica profonda nel paese. Il fallimento di una classe dirigente è dovuto anche al fatto che non si sono create le condizioni, in tutti questi anni, perché nelle singole realtà locali si formasse davvero una classe dirigente legata a quella realtà concreta e capace di dirigerla. Io credo che un processo di federalismo apra delle possibilità anche in questa direzione, e credo che questo valga anche per il Mezzogiorno. Viene usato contro l’ipotesi federalista l’alibi del Mezzogiorno, il fatto che il Mezzogiorno non è pronto. In realtà nessuno è pronto, e tutti devono costruire delle condizioni che oggi non ci sono. Nel Mezzogiorno c’è stata una classe dirigente che si è formata soltanto in rapporto con il potere romano, un ceto di intermediari, quelli che organizzavano le clientele al servizio di qualche notabile nazionale. Anche lì è mancata una classe dirigente. E senza esercizio di autonomia, non si forma una classe dirigente.

In questo contesto politico-istituzionale vanno affrontati i problemi sociali. Io penso a una struttura politica rinnovata, in questa logica federalista, che non sia un puro fatto istituzionale, ma sia aperta a forme nuove di partecipazione sociale. Qui valgono tutte le cose dette: la ricerca di nuovi strumenti, di nuove forme di cooperazione, di concertazione, di un ruolo attivo delle forze sociali nel rapporto con le istituzioni, riesaminando il tema della partecipazione in un modo diverso da come era stato affrontato dalla cultura politica negli anni Sessanta.

Oggi abbiamo bisogno di maggiore distinzione dei ruoli. Molte forme partecipative hanno dato luogo, in passato, a delle forme di consociativismo assolutamente abnorme e non funzionante, abbiamo bisogno invece di ruoli molto autonomi, di una responsabilità autonoma dei vari soggetti istituzionali come dei soggetti sociali, i quali però devono saper dialogare, devono saper trovare delle forme di comunicazione e devono cercare le vie per risolvere i problemi, attraverso strumenti di concertazione, di confronto, in cui ciascuno mantiene del tutto intatta la propria funzione autonoma. E questo sicuramente vale per il sindacato, che deve garantire la sua autonomia, rispetto a qualunque sistema politico, quali che siano le maggioranze.

Questo richiede per il sindacato un’operazione complessa che non siamo ancora riusciti a fare, di riforma organizzativa vera. Anche noi siamo una delle tante strutture centralizzate, giacobine, per cui tutto deve essere fatto nello stesso modo in ogni parte d’Italia; il modello organizzativo è assolutamente uniforme e quindi, essendo uniforme, può funzionare da qualche parte, ma sicuramente non funziona nelle altre e comunque non valorizza le risorse locali e anche le diversità culturali che possono essere un elemento di ricchezza.

Noi sentiamo un’esigenza duplice: in primo luogo è necessaria un’apertura a una dimensione più larga, che è quella europea; qui c’è un ritardo, abbiamo bisogno di un sindacato che pesi in Europa, acquisisca la dimensione europea come sua dimensione permanente, perché questo è il livello necessario per le questioni più importanti, per le grandi questioni strategiche. In secondo luogo occorre un recupero pieno della dimensione locale e della dimensione regionale.

Nessuna delle tre organizzazioni confederali riesce, da sola, a fare una riforma sufficientemente radicale, perché c’è una forza di inerzia, tipica di tutte le burocrazie. Se facciamo un sindacato nuovo e unitario, se diamo vita ad un soggetto nuovo, forse possiamo darci un modello organizzativo davvero rinnovato, all’altezza delle esigenze che abbiamo davanti.



Numero progressivo: C7
Busta: 3
Estremi cronologici: 1994, 15 marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Resoconto stenografico
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CNEL -