COSTRUIAMO UN MODELLO ITALIANO

di Riccardo Terzi

Conflitto o cogestione: ma è davvero questa l’alternativa che si pone davanti al movimento operaio? E perché rifiutare a priori l’idea di “istituzionalizzare” il rapporto fra lavoratori e imprese? Imitare gli altri comunque non serve. Proviamo a formulare qualche proposta concreta
Dopo gli articoli di Francesco Galgano, Pietro Barcellona e Silvano Andriani, pubblichiamo questo intervento di Riccardo Terzi

 

Il dibattito politico è spesso deviato e intorpidito dalla forza emotiva dei simboli e dalla suggestione delle ideologie, ed è difficile sfuggire a queste trappole. Accade così che la discussione si trasforma in una disputa nominalistica, in cui non contano i concetti, ma le parole. II tema della “democrazia industriale” è tra i più esposti a questi pericoli di ideologizzazione. Dopo la pubblicazione degli articoli di Francesco Galgano e di Pietro Barcellona, vedo il rischio di una discussione che ricalchi questo rituale, senza riuscire ad afferrare l’oggetto concreto, il problema specifico, che richiede analisi puntuali e proposte operative.

Conflitto o cogestione: sono questi i termini reali del problema, è utile porre così la questione? A me non sembra; e per questo non mi persuade la risposta di Barcellona, che in sostanza si limita rivendicare il valore dei tratti originali dei sindacalismo italiano, dei suoi caratteri di conflittualità è di antagonismo, traendo da ciò principi assoluti, leggi generali, come, ad esempio, quando sostiene che “ogni forma di istituzionalizzazione dei conflitto sociale e sindacale finisce fatalmente col bloccare l’iniziativa del sindacato”.

Il conflitto sociale ha radici materiali, di classe, e non dipende in misura determinante dalle forme organizzative e dalla peculiarità delle istituzioni politiche; queste possono essere più o meno efficaci, ma non sono mai tali da poter condizionare, in modo assoluto, il quadro complessivo dei rapporti di classe. Sostenere che gli istituti della cogestione comportano di per sé una collocazione subalterna del movimento operaio e sono tali da imbrigliare il conflitto significa valutare le situazioni storiche secondo un punto di vista esclusivamente formale, vedere le istituzioni non come riflesso del rapporti sociali, ma all’inverso i rapporti di classe come determinati dalla forma delle istituzioni politiche.

D’altronde, l’idea che il movimento operaio, là dove esso è stato organizzato sotto l’egemonia dei partiti socialdemocratici, sia ridotto a “produrre consenso attorno ai valori capitalistici”, che sia insomma soltanto un coacervo di interessi corporativi senza alcuna finalità di cambiamento politico e sociale, è un’idea, questa, tanto diffusa, quanto inesatta. Abbiamo cercato da tempo di superare questi schemi interpretativi, questa rappresentazione unilaterale, e tornare oggi a dipingere le social-democrazie europee con i vecchi ingredienti ideologici (l’integrazione nel sistema, la subordinazione, la rinuncia alla lotta di classe) non contribuisce alla chiarezza, e spinge il partito non alla ricerca oggettiva, allo studio, ma a quell’atteggiamento consolatorio di superiorità “ideologica” che già ha provocato molti danni e ha alimentato un provincialismo superficiale e pieno di sé. La stessa esperienza sindacale italiana non è riducibile ad un conflitto assoluto permanente, che viene dal rifiuto della “condizione di merce della forza lavoro”.

 

È in questo contesto che si pone il problema della “democrazia industriale”: esso è un problema cruciale per un movimento operaio che vede come la difesa della forza lavoro comporta un processo politico, una conquista di strumenti, di diritti, di spazi democratici per poter intervenire sulle scelte di politica industriale. La discriminante, allora, non è tra democrazia istituzionalizzata e contrattazione: entrambe queste leve vanno usate, su tutti i terreni occorre cercare di avanzare. E davvero non si capisce perché qualsiasi intervento legislativo debba essere considerato come un cedimento, come un ingabbiamento, come una trappola. Su questo punto ha ragione Galgano, quando sottolinea la necessità di non affidarsi alla mutevolezza dei rapporti di forza, l’importanza che possono avere strumenti di carattere legislativo, e si domanda cosa sarebbe rimasto dello Statuto dei diritti dei lavoratori se lo si fosse adottato non per legge, ma per contratto.

O pensiamo, forse, che sul terreno politico la classe operaia sia inevitabilmente perdente? Che pertanto ogni intervento dello stato democratico non possa che essere organico agli interessi della classe dominante?

Il movimento operaio può svolgere un ruolo dirigente se è portatore di un’idea di sviluppo, valida per l’intera società nazionale. Il problema centrale è allora quello di intervenire dentro i processi dl ristrutturazione, di governarli, di non chiudersi in una posizione solo difensiva e per questo perdente. Si tratta di costringere le forze imprenditoriali ad un confronto serrato su questo terreno, non solo nell’ambito della singola impresa ma nel campo più vasto delle scelte e degli indirizzi che debbono qualificare una politica di programmazione democratica dell’economia.

 

Con questa ispirazione si è mosso, a me pare, il movimento operaio italiano, conquistando strumenti importanti di democrazia nella fabbrica (i diritti di informazione, le prime parti dei contratti) e sollecitando un confronto politico con le istituzioni, ai diversi livelli. Con la proposta del piano d’impresa si cerca di definire un terreno più avanzato, di fissare regole e procedure di consultazione tra l’impresa e le rappresentanze dei lavoratori, tra l’impresa e gli organi della programmazione, in un quadro di chiarezza e nell’autonomia delle parti sociali.

Le soluzioni concrete possono essere diverse. Si può pensare alla costituzione di “comitati di sorveglianza”, rappresentativi delle diverse parti sociali e investiti di funzioni di controllo, o piuttosto a forme istituzionalizzate di confronto e di contrattazione tra la dirigenza dell’impressa e le rappresentanze dei lavoratori. È difficile fare una scelta di principio, e sarà l’esperienza a decidere, a suggerire le forme più opportune, e può esserci in questo campo una vasta sperimentazione, tenendo conto, tra l’altro, della estrema diversità delle situazioni.

In ogni caso, occorre partire dalla situazione concreta che abbiamo in Italia. I modelli di altri paesi europei vanno conosciuti, studiati, valutati con obiettività, ma non convince una linea di pura e semplice assimilazione a tali modelli.

La tesi di Galgano, che ha il merito indubbio di sfidare apertamente tanti luoghi comuni e tanti ideologismi radicati e tenaci, finisce per essere troppo semplicistica, adottando il modello tedesco come punto di riferimento. In Germania c’è tutta una situazione politica, un sistema di rapporti tra sindacato e partito, una storia dell’organizzazione operaia, che sono ben lontani dalla realtà italiana e che non consentono operazioni di trapianto.

 

Galgano sofferma in particolare la sua attenzione sui problema del management, sottolinea il processo tendenziale di autonomia dei manager dalla proprietà e la possibilità quindi di un loro intervento nel sistema delle relazioni industriali che possa svolgere una funzione di “mediazione”, che non sia antagonistico rispetto agli interessi della massa dei lavoratori.

Si possono citare molte situazioni in cui questa autonomia ha potuto positivamente manifestarsi, e sarebbe comunque miopia politica non lavorare su queste potenziali contraddizioni tra proprietà e dirigenti.

Questo problema dipende più che dagli strumenti della democrazia industriale dall’atteggiamento politico e dalla capacità del movimento operaio di misurarsi, a pieno titolo, con i problemi dell’impresa, della sua efficienza, della sua produttività.

Ed è questo il passaggio essenziale che il movimento operaio deve compiere, avviando al proprio interno un processo di rinnovamento, stabilendo un rapporto positivo con i tecnici e con i quadri, attrezzandosi ad un confronto di merito sulle scelte produttive, sull’organizzazione del lavoro, sulle trasformazioni tecnologiche.

In questa direzione va rafforzata la struttura del consigli di fabbrica, garantendo loro una più ampia rappresentatività di tutte le diverse componenti del mondo del lavoro, e anche costituendo sotto il controllo del consiglio dei delegati appositi organismi tecnici, capaci di affrontare tutti i problemi collegati al piano d’impresa e che abbiano per questo al proprio interno i necessari requisiti di conoscenza e di competenza.

Non si tratta, quindi, di invertire la rotta, di liquidare il patrimonio del sindacato dei consigli. Ma neanche di restare fermi, bloccati nella difesa di modelli, di forme organizzative e di impostazioni politiche che richiedono di essere rinnovati.


Numero progressivo: G13
Busta: 7
Estremi cronologici: 1982, 27 maggio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “L’Unità”, 27 maggio 1982