CONSULTA PROGRAMMATICA SPI CGIL

Roma, 12 aprile 2013

Relazione introduttiva di Riccardo Terzi

Con le elezioni di febbraio si è determinato un passaggio politico di straordinario rilievo, che non può in nessun modo essere sottovalutato o minimizzato. È tutta la situazione politico-istituzionale che entra in un processo di fortissima accelerazione di tutti i movimenti di scomposizione e ricomposizione delle identità politiche, aprendosi a nuovi inediti scenari, ancora avvolti nell’incertezza, e che appaiono nello stesso tempo inquietanti e stimolanti, il segno di una definitiva decadenza del sistema politico o di un suo possibile riscatto.

Il dato di fondo è l’esplodere di una vera e propria “crisi di sistema”, che non può più essere vista solo nei suoi dettagli marginali, né quindi può essere fronteggiata con aggiustamenti parziali. La crisi investe direttamente l’intero sistema politico, nella configurazione storica che esso ha assunto come democrazia dei partiti e come espressione di una democrazia rappresentativa, fondata su una rete stabile e organizzata di identità culturali e programmatiche. Non si tratta qui di prima o seconda o terza repubblica, di queste banalità del discorso politologico corrente, ma del fatto che si è determinato un vero e proprio cedimento strutturale del nostro sistema democratico, che si è aperto un drammatico vuoto, nel quale possono essere tentate le più avventurose scorribande.

Voglio ricordare che di ciò ci siamo occupati per tempo, in particolare nel convegno di Firenze sulla partecipazione democratica, mettendo al centro la necessità urgente di una radicale democratizzazione del sistema, di una ricostruzione democratica ancora tutta da inventare e da praticare. I segni della crisi democratica erano già da tempo presenti e visibili, ed era evidente il distacco crescente tra cittadini e istituzioni, che in molti casi ha assunto i caratteri del rifiuto, della rabbia, del livore anti-politico. Con le elezioni c’è un ulteriore salto di qualità, per cui il tema della crisi della democrazia appare di una assoluta evidenza, senza che sia più possibile per nessuno occultarlo o minimizzarne la portata.

Il Movimento 5 Stelle è il detonatore che ha fatto saltare tutto il già precario equilibrio, e in ciò sta la sua importanza, il suo eccezionale rilievo, e anche il carico di responsabilità che deve saper fronteggiare, avendo nelle sue mani diverse e opposte strategie politiche. A ciò si aggiunge un ulteriore incremento dell’astensionismo elettorale, che sta via via assumendo dimensioni sempre più allarmanti. Che si tratti di astensionismo o di voto di protesta, è chiaro che i canali tradizionali della rappresentanza politica sono inceppati, ostruiti, e che le elezioni segnalano, proprio per questo, non la vittoria di un campo sull’altro, ma piuttosto l’inadeguatezza di tutte le proposte politiche in campo. Non facciamoci ingannare dall’effetto perverso dell’attuale legge elettorale, con il suo abnorme premio di maggioranza. La sinistra ne è stata, per ora, avvantaggiata, ma ciò non toglie che questa attuale posizione di forza della sinistra non è suffragata dal consenso popolare, ma è solo l’esito occasionale di un meccanismo istituzionale che la stessa Corte Costituzionale ha dichiarato del tutto illegittimo.

Le elezioni segnano quindi, per la sinistra, una pesante battuta d’arresto, perché non ha saputo intercettare e rappresentare la domanda di cambiamento, ed è rimasta chiusa nel suo perimetro tradizionale, senza riuscire a produrre una nuova forza espansiva. D’altra parte, tutta questa traiettoria di svuotamento della politica era già del tutto visibile con la parentesi del governo “tecnico” di Mario Monti, la cui legittimazione era solo l’effetto dell’incapacità del sistema politico di costruire una qualsiasi proposta di governo. Non si trattava di una “sospensione della democrazia”, perché tutte le norme costituzionali erano formalmente rispettate, ma era la più drammatica dichiarazione di impotenza della politica.

Possiamo anche discutere all’infinito se fosse giusto e inevitabile partecipare a questa inedita esperienza di governo, e soprattutto si possono sollevare molte obiezioni sull’eccessiva arrendevolezza dimostrata su alcuni decisivi capitoli dell’azione di governo, dalla politica previdenziale a quella del mercato del lavoro. In fondo, si è accettata l’idea che Monti rappresentasse l’unica possibile ricetta per il risanamento finanziario e per il recupero della credibilità internazionale dell’Italia. Se si accetta questo presupposto, allora c’è spazio solo per qualche marginale manovra correttiva. Nessuno a sinistra ha avuto la forza di dire che l’errore non era nei dettagli, ma nell’impianto strategico. E così la sinistra si è barcamenata, anche in campagna elettorale, tra continuità e discontinuità, senza mai dire con chiarezza quali fossero i punti di svolta e di rottura rispetto all’esperienza del governo in corso. Sulle pensioni, ad esempio, nessuno ha detto che l’intera architettura della riforma andava radicalmente modificata. Si è scelta una strada minimalista, nel momento stesso in cui la crisi sociale assumeva caratteri di estrema drammaticità, con gli effetti inevitabili di radicalizzazione dei comportamenti elettorali.

Il governo Monti, d’altra parte, non era affatto un governo “neutro”, ma era l’espressione di una robusta e aggressiva ideologia tecnocratica, che nega alla radice ogni valore alla distinzione tra destra e sinistra, perché c’è un’unica possibile agenda, c’è un’unica soluzione ai problemi, e la soluzione è nell’ortodossia del pensiero liberista dominante. In questa medesima direzione si è dispiegata una fortissima e concentrica offensiva mediatica, tutta giocata sull’irrilevanza delle categorie classiche della democrazia rappresentativa e sull’avvento di un nuovo mondo post-moderno, post-ideologico, che segna il tramonto di tutti gli antichi conflitti. Le forme tradizionali del conflitto politico, in questa ottica, sono solo l’armamentario residuale di una stagione ormai tramontata, e la stessa democrazia è un rituale inutilmente tortuoso ed inefficace, perché ormai ciò che conta è solo l’efficacia e la rapidità della decisione. Ciò che reclama il sistema è solo la sua stabilità e governabilità. E in questa prospettiva viene attivato tutto quel sottofondo di antipolitica che da sempre attraversa la società civile.

Si è scatenata una vera e propria campagna di delegittimazione del sistema politico, rappresentato come il territorio della corruzione e dell’inefficienza: una campagna efficace, perché effettivamente corruzione ed inefficienza hanno intaccato in profondità il nostro sistema democratico, ma anche distorcente, perché concentrata solo sul versante della politica, mentre si sorvola sui dati più macroscopici delle diseguaglianze di reddito e di potere, su quelle che sono le vere “caste”, privilegiate e dominanti. Il vero volto della destra, oggi, sta qui, in questa offensiva modernizzante e tecnocratica, che punta a liquidare le differenze, a negare il conflitto, ad appiattire tutto il discorso politico, negando alla sinistra anche il diritto di esistere, perché il pluralismo democratico è consentito solo all’interno di un perimetro rigidamente circoscritto, sorvegliato attentamente dai guardiani dell’ordine costituito.

Molti hanno contribuito a questa visione di una politica che non è più politica, ma tecnica di governo, manutenzione del sistema, dando luogo ad una peculiare forma di trasversalismo, fondata sull’indifferenza e sull’irrilevanza dei contenuti. Anche il trasformismo, in questo contesto, diventa un fenomeno del tutto fisiologico. È stata a lungo coltivata l’idea che la sinistra, per poter vincere, dovesse negare il suo tradizionale retroterra culturale e sociale, e avventurarsi nel mare dell’indistinto, disponibile a qualsiasi contaminazione. Lo stesso PD è stato inizialmente pensato in questa chiave, come una forza che si brucia alle spalle tutta la zavorra della sua tradizione, come l’incontro di tutti quelli che non hanno più un passato, un fondamento, una qualche forma di radicamento nella storia. È stata una drammatica illusione, oggi solo parzialmente e tardivamente corretta.

Le diverse forme di trasversalismo convergono su un punto, che al centro della politica non sta più la questione sociale. L’accento si posta sui valori culturali, o sugli interessi territoriali, o sui diritti civili, o più semplicemente sui requisiti di efficienza tecnica di cui ha bisogno il sistema. Il conflitto sociale cessa di essere nominato e rappresentato politicamente. Accade così che interi territori sociali, quelli più colpiti dalla crisi, si trovano senza voce e senza rappresentanza, e in questo vuoto possono agevolmente transitare i messaggi della demagogia e del populismo. Non abuserei però della categoria del populismo, che spesso serve solo a definire tutto ciò che sfugge alla nostra comprensione e che sfida le nostre tradizionali forme interpretative. Se diciamo solo populismo, non abbiamo ancora detto nulla di determinato, di storicamente concreto. Alla comprensione dei fenomeni si sostituisce l’invettiva moralistica. Che si tratti di Berlusconi, o della Lega, o del movimento di Grillo, dobbiamo accollarci la fatica dello studio, dell’analisi, prendendo sul serio tutto il complesso di motivazioni, di interessi, di culture o subculture, su cui si sono costruiti movimenti politici di una certa ampiezza.

Il lavoro di ricostruzione democratica passa anche da qui, dalla ridefinizione delle identità, da una lettura attenta e aggiornata del pluralismo, nei suoi aspetti culturali e sociali, per rendere chiaro dove stanno le linee di confine, i punti di rottura o di convergenza, e per vedere più a fondo nel complesso sommovimento della società, oltre la fragile apparenza degli slogan, e soprattutto oltre il velo dell’infinita disputa personalistica di cui si nutre, con noioso accanimento, tutta l’informazione giornalistica.

Ho parlato di “ricostruzione”, ma, per essere più precisi, il problema che abbiamo da affrontare è la definizione di un nuovo modello democratico, di una nuova forma della democrazia organizzata, essendo evidente che le forme del nostro passato politico non possono essere fatte risorgere, perché sono inevitabilmente legate ad una stagione storica che si è esaurita. Un nuovo modello su quali basi può essere costruito? Il nodo centrale mi sembra essere quello di una partecipazione democratica che non può più avere come canale esclusivo quello dei partiti politici. La democrazia ha bisogno di nuovi strumenti, di nuove regole, per mettere in grado i cittadini, singoli o associati, di partecipare alle scelte, sia sulla scala più ristretta della comunità territoriale, sia su quella più larga degli indirizzi di fondo della politica nazionale. La costruzione di questi nuovi strumenti è il grande tema su cui occorre lavorare, sapendo che occorrono procedure complesse, che siano in grado davvero di approfondire i problemi, di mettere a confronto le diverse ipotesi possibili, senza facili scorciatoie semplificatrici, e con un lavoro sistematico di documentazione, di conoscenza, per poter assumere decisioni che siano razionalmente ponderate e non lasciate all’emotività del momento. La grande scommessa è dimostrare che la democrazia può essere allargata, estesa a tutti, rifiutando di rinchiuderla nelle ristrette oligarchie degli esperti. E non si tratta solo di decidere da chi ci facciamo rappresentare, ma anche e soprattutto quali devono essere i contenuti concreti dell’azione di governo, ai diversi livelli. Per questo, non bastano le primarie, che riguardano solo il chi e non il che cosa.

In questo nuovo quadro la funzione dei partiti politici deve essere totalmente ripensata, ridefinita, eliminando non solo le forme più stridenti di privilegio e di commistione di pubblico e privato, ma ogni forma di monopolio della rappresentanza, ogni pretesa di essere l’esclusivo canale di mediazione tra cittadini e istituzioni, per dare luogo ad un ruolo nuovo ed innovativo, di promozione e di regolazione di un processo democratico allargato in cui entrano a pieno titolo altri soggetti, altre forme di organizzazione della volontà collettiva.

In secondo luogo, tutta l’architettura istituzionale va riformata nel senso della orizzontalità, del pluralismo dei centri decisionali, dell’autonomia dei corpi intermedi, considerando che la governabilità del sistema non può essere affidata ad un processo di concentrazione del potere, ma può essere la risultante di un sistema a rete, spostando decisamente in questa direzione tutti i disegni di riforma istituzionale. Questa è la risposta all’idea plebiscitaria, che si concentra tutta nella figura del leader, e in questo senso occorre, dopo anni di centralizzazione, una decisa svolta nella direzione del decentramento e della valorizzazione degli enti territoriali.

Occorre però, da subito, fare i conti con la situazione di fortissima instabilità che si è creata in seguito al risultato elettorale. Ci troviamo in bilico tra spinte eversive e spinte democratiche, e ciò non sorprende, dato il carattere sistemico della crisi che si è aperta, che ha l’effetto di radicalizzare tutte le possibili alternative. Lo stesso Movimento 5 Stelle, che rappresenta la grande novità politica del momento, contiene in sé, in un quadro ancora confuso, entrambe queste spinte: il miraggio di un attacco frontale al sistema e di una definitiva liquidazione del ruolo dei partiti e delle stesse rappresentanze sociali, e d’altra parte la domanda di un cambiamento che sia fondato su una più sviluppata e matura democrazia partecipativa. Ma l’ambiguità, a ben guardare, non è solo di questo movimento, ma è di tutte le forze politiche, perché tutte sono destabilizzate, e incerte sul loro futuro e sulla strada da intraprendere.

In questo generale sommovimento, sono saltati alcuni miti, intorno ai quali si era costruita tutta una rappresentazione della politica, alimentata soprattutto dai grandi organi di stampa. Si è sfasciato, anzitutto, il bipolarismo, che aveva costituito il faro della cosiddetta seconda repubblica. Il sistema politico si sta riorganizzando intorno a quattro o cinque posizioni, confermando così il carattere plurale del nostro ordinamento democratico. Il bipolarismo è stato un tentativo forzato di semplificazione, e aveva in sé, come tutte le forme di semplificazione, un tratto autoritario, verticistico, come se tutta la complessità sociale dovesse essere costretta dentro uno schema rigido, escludendo perciò tutto ciò che in quello schema non poteva rientrare e togliendo legittimità ad ogni tentativo di affermare nuove identità politiche. Se il sistema è plurale, la sua stabilità non può essere garantita a priori da nessuna legge elettorale e da nessun meccanismo istituzionale, se non imboccando una strada apertamente autoritaria. È una sciocchezza dire che la sera dopo lo spoglio elettorale dobbiamo sapere chi sarà il capo del governo. Per governare occorrono o i voti o le alleanze. E l’attuale legge elettorale va assolutamente cambiata perché assegna, alla Camera, un premio di maggioranza del tutto spropositato, che altera il reale equilibrio delle forze. Dopo di che, sarà il libero gioco politico tra i partiti a decidere di volta in volta quali sono le possibili maggioranze parlamentari.

Inoltre, ha dimostrato la sua totale inconsistenza lo schema politologico che vede nel centro moderato il luogo decisivo della competizione politica. Secondo questo schema, vince chi riesce a rappresentare il voto moderato, e in questa rincorsa al centro diviene quindi inevitabile per tutte le forze politiche, di destra o di sinistra, smussare gli angoli della propria identità, e giocare la competizione sul medesimo terreno, escludendo le posizioni più radicali. Tutta la nostra recente storia politica dimostra esattamente il contrario: le grandi operazioni di successo, da Forza Italia alla Lega e al Movimento 5 Stelle, si sono tutte costruite su un messaggio di radicalizzazione. E tutta l’ambiziosa operazione centrista costruita intorno al nome di Mario Monti, con l’appoggio di importanti settori imprenditoriali e di figure rappresentative del mondo cattolico, ha avuto quell’esito modestissimo che sappiamo. E allora, dove sono i moderati?

È d’altra parte assai naturale che in una situazione di acuta crisi sociale ci sia assai poco spazio per una proposta di moderazione, ovvero di conservatorismo prudente, perché c’è assai poco da conservare. Ma i teorici centristi non demordono, e ancora ieri, sulle colonne del Corriere della Sera, si spiegava come gli elettori delle primarie per il comune di Roma avrebbero dovuto scegliere il candidato più moderato, perché solo così si può vincere. E c’è un continuo e fortissimo pressing sul PD perché si sposti al centro, e rompa l’alleanza con la sinistra radicale, e si decida finalmente a puntare su Renzi, l’unica vera garanzia di successo proprio perché la sua piattaforma politica non ha nulla di sinistra.

La realtà, come ha dimostrato il voto di febbraio, è assai diversa, e non c’è nessuna logica politica che tenga insieme necessariamente ceto medio e mondo cattolico dentro il comune contenitore del voto moderato. Questa operazione l’aveva fatta a suo tempo la DC, ma è strano non accorgersi che nel frattempo il mondo è cambiato. A questo punto, c’è una partita complicata che vede in campo tre diversi protagonisti: il PD, Berlusconi e il Movimento 5 Stelle.

Il PD è il centro nevralgico da cui dipendono tutti i futuri possibili equilibri. Esso si trova di fatto in una posizione centrale, ma anche in una condizione di fragilità e di debolezza, e in questa situazione tutte le sue ambiguità e contraddizioni vengono inevitabilmente alla luce. Che cosa è, e che cosa vuole essere il PD? La risposta a questa domanda non può essere ancora una volta rinviata. E a questo punto è nel PD che si gioca la partita decisiva per il futuro: se si fa garante del vecchio equilibrio, stringendo un patto di potere con il centro destra, o se scommette sulla possibilità di un cambiamento profondo, mettendosi in gioco, aprendosi alle nuove domande sociali, e tentando con lo stesso Movimento 5 Stelle di dar vita ad una competizione positiva, certo arrischiata, ma forse feconda di nuovi sviluppi. La pressione per un governo di larghe intese è fortissima e violenta, e ha trovato un interprete autorevole nello stesso Capo dello Stato. Ma sarebbe questa la scelta più insensata e pericolosa, perché darebbe luogo a questa configurazione: la vecchia politica che si arrocca e si chiude nel recinto, e fuori dal recinto la rivolta dell’antipolitica. È uno scenario da primavera araba, e la conseguenza di una tale scelta non può che essere una gestione autoritaria del potere, per tenere sotto controllo una situazione esplosiva. Il confine tra destra e sinistra, che è il confine tra principio democratico e principio di autorità, tra partecipazione e comando, passa dunque direttamente dentro i fragili equilibri del PD. C’è qui la variabile Renzi, su cui molti scommettono, e che sarebbe del tutto assurdo interpretare come una mera variante generazionale, o come una carta di riserva che può essere giocata per uscire dall’emergenza, perché ciò che è in gioco è l’identità profonda del PD, il suo essere l’erede legittimo di una tradizione della sinistra, o viceversa il suo affossatore.

Per quanto riguarda la destra, dobbiamo rassegnarci all’idea che Berlusconi è il suo autentico e autorevole rappresentante. Non c’è in vista nessun ricambio, nessun rinnovamento, e il cemento che tiene unita la destra è quella miscela di illegalità, di cinismo, di spregiudicatezza e di demagogia che si incarna nella figura di Berlusconi. Immaginare una destra diversa è un esercizio accademico del tutto fuorviante. Diverso è il caso della Lega, che ha una sua propria e autonoma dinamica. Il paradosso è che la Lega conquista un controllo politico su tutto il Nord proprio nel momento di un suo rovinoso crollo elettorale. È quindi assai probabile che a questo punto la Lega di Maroni giochi le sue carte residue come forza territoriale, cercando di ricontrattare i rapporti di forza con lo Stato centrale, quale che sia il governo nazionale, sul modello catalano o bavarese. Tutto il tema del federalismo e degli assetti territoriali torna quindi attuale, e ha bisogno di una più chiara elaborazione.

Infine, c’è il nuovo protagonista politico che ha messo a soqquadro tutto il sistema. Che cosa è e che cosa può diventare questo movimento? Allo stato delle cose, è difficile e forse impossibile dare una risposta, perché si tratta di un fenomeno ancora molto fluido, nel quale convergono diverse spinte, diverse motivazioni, diverse storie personali. Sarà necessario uno studio più accurato, per cogliere tutta la complessità di questo inedito intreccio politico. La domanda che sorge spontanea è la seguente: si tratta solo di una forza distruttiva, eversiva, o si tratta di una risorsa che, a certe condizioni, può entrare in gioco in una prospettiva di rinnovamento della politica? È un bivio che sempre si ripresenta per i movimenti che cercano di organizzare e incanalare le spinte di contestazione e di rifiuto del sistema. Anche il ‘68 ha avuto le due facce: quella progressiva della mobilitazione democratica, e quella feroce della risposta terroristica. L’esito, per ora incerto, dipende da molti fattori, ma dipende anche, in larga misura, dalla risposta politica che sarà decisa dalla sinistra e dalle altre forze democratiche. Serve, io credo, una politica inclusiva, che scommetta su una possibile maturazione democratica, e per questo tutti i tentativi fin qui compiuti in questa direzione non sono affatto, come qualcuno ritiene, un correr dietro ai fantasmi, ma sono il modo, l’unico possibile, per mettere il Movimento 5 Stelle di fronte alle proprie responsabilità.

Ed è giusto tenere distinti i due piani, quello del governo e quello istituzionale. Mentre il primo richiede una chiarezza di indirizzo politico, il secondo non può che essere affrontato con il concorso di tutte le forze politiche, nessuna esclusa, proprio perché si tratta delle regole del gioco (legge elettorale) e dell’assetto delle istituzioni democratiche.

Se il tema è la democratizzazione del sistema, diventa cruciale la dimensione europea, perché sempre più è a questo livello che si assumono le decisioni strategiche. La situazione attuale è del tutto insostenibile, sia per l’indirizzo generale della politica economica, tutto concentrato in modo unilaterale sull’equilibrio di bilancio e sulle misure di austerità, sia per il ruolo egemonico assunto dalla Germania a scapito di una effettiva politica di integrazione, sia soprattutto per l’opacità democratica in cui tutto questo avviene, senza che vi sia nessuna autorità di governo legittimata dal consenso popolare. L’Unione Europea è oggi una costruzione artificiosa e contraddittoria, con una gestione tecnocratica che ha l’effetto di esasperare le diseguaglianze e di indebolire il senso di una appartenenza collettiva. Salvare il progetto europeo vuol dire cambiare radicalmente il suo assetto attuale, e forse è giunta a maturazione l’idea di una vera “costituente” europea che, superando la logica degli interessi nazionali tra loro in perenne competizione, getti le basi di una vera cittadinanza europea e di una democratizzazione di tutte le strutture di governo. In assenza di questa complessiva riscrittura della Carta europea, i margini di autonomia a livello nazionale sono assi ridotti, e anche i governi di sinistra sono stretti nella morsa delle attuali politiche restrittive. È quanto sta accadendo oggi in Francia, e prima nella Spagna di Zapatero, col risultato che la sinistra produce qualche risultato solo sul terreno dei diritti civili, ma non riesce ad incidere nei meccanismi di fondo dell’economia.

Occorre dunque dare visibilità ad un programma alternativo, il che è mancato nella recente campagna elettorale. Questo vuoto programmatico condiziona pesantemente anche l’iniziativa sindacale, che non riesce ad andare oltre l’emergenza e non riesce ad avere un effettivo respiro europeo, anche per i limiti organizzativi della CES, che continua ad essere solo un organo di coordinamento scarsamente efficace. Più in generale, nella crisi di sistema che si è aperta anche il ruolo del sindacato è messo in discussione, e deve essere ridefinito, reinventato, con un’analisi aggiornata dei processi sociali che investono tutto il nostro continente, e con una severa riflessione critica sui limiti e sui fallimenti della nostra azione passata. Lo stesso risultato elettorale, con il disagio sociale che si è massicciamente indirizzato verso il voto di protesta, è un indice chiarissimo e allarmante di una crisi strisciante di rappresentanza.

Il sindacato deve marcare con grande nettezza il suo profilo di autonomia, in quanto forza sociale, che dà forma e organizzazione al conflitto, nei luoghi di lavoro e nel tessuto sociale, per indirizzarlo e per governarne gli esiti, in un rapporto col sistema politico che non può che essere, quale che sia la maggioranza di governo, di tipo dialettico, senza nessuna forma di sovrapposizione e di collateralismo. L’autonomia non è un dato acquisito, ma è un obiettivo da conquistare, e la stessa divisione sindacale ha molto a che fare con questo stato di compromissione col sistema politico, che ha prodotto una sorta di bipolarismo sindacale, tra sindacato di governo e sindacato di opposizione. È urgente ora, dopo le elezioni, una forte iniziativa che affronti i nodi strutturali della crisi, a partire da quello dell’occupazione. In questo senso va usato lo strumento del “piano del lavoro”, elaborato dalla CGIL, che può essere la base su cui costruire iniziative articolate, ai diversi livelli, definendo chiare piattaforme rivendicative, e individuando nel territorio le alleanze e gli interlocutori per la realizzazione di politiche di sviluppo. Lo stesso lavoro va compiuto sulle grandi emergenze sociali: invecchiamento della popolazione, precarizzazione del lavoro, immigrazione. C’è bisogno che nella crisi la voce del sindacato si faccia sentire, come una voce non settoriale, non corporativa, ma capace di parlare a tutti e di unificare tutto il fronte dei diversi movimenti, di resistenza e di protesta.

Dovrà essere il Congresso della CGIL a sciogliere i numerosi nodi strategici che abbiamo di fronte. Ciò potrà essere fatto se il Congresso non sarà un rito tutto interno al perimetro dell’organizzazione, ma un’occasione più larga di confronto e di dialogo con tutto ciò che si muove nella società e con tutte le forze intellettuali interessate a misurarsi con i nodi della crisi e ad offrire un loro contributo di elaborazione e di proposta. Lo stesso principio della confederalità, che resta un elemento insostituibile della nostra identità, contro le spinte corporative o aziendalistiche, deve essere meglio motivato e articolato, partendo dal presupposto che, in una situazione sociale frammentata, occorre promuovere l’autonomia progettuale e la sperimentazione innovativa nei diversi campi, senza irrigidire tutta l’azione del sindacato in uno schema uniforme e in una logica di centralizzazione. La confederalità non è il controllo verticale sulle diverse strutture, ma è lo sviluppo dell’orizzontalità, in cui ciascuno si fa carico dell’interesse generale e dà un fondamento generale, universale, alla propria iniziativa. Questo vale per lo SPI come per tutte le altre strutture.

E questo richiederà un lavoro straordinario di innovazione organizzativa, di ricambio generazionale, di democratizzazione dei processi decisionali, per rispondere alla forte domanda di cambiamento che sta crescendo in tutto il paese. Il sindacato deve ancora inventare le forme di una compiuta e matura vita democratica, oggi troppo appesantita da intralci burocratici di varia natura. Va inoltre allargato il nostro campo di intervento, oltre il luogo di lavoro, per investire la vita delle persone in tutta la sua complessità, i loro diritti, la loro libertà e dignità. Il sindacato deve aspirare ad essere il luogo dell’identità delle persone, lo strumento della loro promozione sociale, in una visione larga e unificante che tiene insieme diritti sociali e civili, dimensione collettiva e dimensione individuale. Ma su tutto ciò ritorneremo con più calma e con più approfondimento nella fase preparatoria del Congresso.

È nostra intenzione non solo confermare l’esperienza di questa Consulta, ma consolidarla e fare di questo organismo una sede feconda di confronto, il più aperto e il più libero possibile, perché di ciò abbiamo estremamente bisogno, e più allarghiamo il nostro sguardo più facilmente riusciremo a trovare le risposte giuste, per un sindacato che sia all’altezza del nostro tempo.



Numero progressivo: D7
Busta: 4
Estremi cronologici: 2013, 12 aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: Pubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione”, pp. 153-166, col titolo “Una crisi di sistema e il Movimento 5 Stelle”