COMINCIAMO COL ROVESCIARE LA PIRAMIDE GERARCHICA

Bozza dell’articolo di Riccardo Terzi scritto per “Alternative per il socialismo”. Di seguito anche la registrazione del convegno “Il sindacato. C’è ancora? – Presentazione del numero 25 di Alternative per il Socialismo”, registrato a Roma mercoledì 3 aprile 2013.

 

Uno degli effetti più inquietanti del grande sconvolgimento politico di questo passaggio di secolo è nel fatto che tutto il nostro vocabolario ne esce sovvertito, e ogni parola deve essere ridefinita, riconquistata, restituita al suo significato. Anche le parole più semplici, in apparenza più ovvie, sono diventate un campo di battaglia, e rischiamo continuamente di scivolare nella retorica o nell’irrilevanza.

Lo schema classico che vede contrapposti i due campi dei progressisti e dei conservatori è ormai inutilizzabile, sia perché la destra attuale non è affatto tradizionalista, ma si propone come forza motrice dell’innovazione, sia perché non è più chiaro che cosa possa significare la parola “progresso”, essendo ormai svanita l’illusione di un cammino della storia tutto ascendente e progressivo. Ciò che appare in evidenza è solo la forza della tecnica, il suo incremento di potenza, ma ciò resta del tutto opaco e indifferente rispetto a qualsiasi obiettivo politico.

In questa generale confusione delle lingue, si fa strada la manovra più aggressiva, con la quale si vogliono chiudere definitivamente i conti con il passato: è la stessa distinzione tra destra e sinistra che ha perso ogni significato, e sono fuori dalla realtà tutte le rappresentazioni ideologiche su cui si reggeva quella distinzione. La vera destra oggi è questa: è il pensiero che nega le differenze, che tutto appiattisce, senza più tenere aperto un varco tra il reale e il possibile. È l’ideologia più estrema e assoluta, perché essa fa tutt’uno con la realtà, è la resa del pensiero alla nuda materialità dei dati di fatto. Tutta la complessità del reale viene compressa, e ciò che resta in piedi è solo la governabilità del sistema, la sua efficienza. Non ci sono problemi da risolvere, ma solo tecniche funzionali da adottare. È l’avvento dell’uomo a una dimensione, come aveva intuito Marcuse. Chi dice “né destra, né sinistra” è l’incarnazione di questa logica, di questa metafisica della rassegnazione e dell’adattamento, con la quale si vuole togliere alla sinistra anche il diritto di esistere.

Per reggere questo urto, che si dispiega con la violenza terroristica del senso comune, dobbiamo reinventare il nostro linguaggio, per rendere nuovamente visibili gli scarti, le differenze, le alternative, i conflitti. La parola, infatti, ha un senso solo se il suo affermare è anche nello stesso tempo un negare, se essa segna un confine, un discrimine, una opposizione.

Perché tutta questa premessa? Mi è stato chiesto di parlare della rappresentanza, e non è possibile farlo se la parola stessa non viene indagata a fondo nel suo significato, se non viene liberata da tutta la trama delle distorsioni e delle banalità del discorso politico-giornalistico corrente. La rappresentanza prende senso nel suo rapporto con altri due fondamentali concetti: il conflitto e la democrazia. È sempre una buona regola la ricerca degli apparentamenti, dei nessi profondi che legano l’uno all’altro concetto. Si può allora dire che la rappresentanza è la pratica del conflitto all’interno di uno spazio democratico organizzato, ed essa può vivere solo dentro queste coordinate, solo nel quadro di una società pluralistica che riconosce le differenze e le lascia agire liberamente nel loro reciproco movimento e nel loro conflitto. Sta proprio qui, in questa visione aperta e dinamica della società, il grande portato storico della modernità, che rovescia l’antico ordinamento gerarchico e autoritario, intendendo l’ordine come il risultato della libera relazione delle forze in campo, come un punto di equilibrio che è sempre mobile e aperto a diverse combinazioni.

Ora, è questa stessa intelaiatura teorica e concettuale che viene oggi rimessa in discussione, perché al pluralismo delle idee e degli interessi si sostituisce l’univocità e la presunta oggettività di un paradigma economico dominante, che non ammette alternative, per cui la stessa democrazia viene confinata all’interno di un perimetro rigidamente tracciato, oltre il quale c’è solo l’illusione o, ancor peggio, l’eversione. La democrazia viene messa sotto sorveglianza, e una nuova casta di custodi dell’ortodossia ha il compito di garantire la tenuta e la coerenza dell’intero sistema.

È in questa morsa, politica, ideologica, di potere, che siamo stati schiacciati, non solo per la virulenza dell’attacco, ma anche perché molti, troppi, a sinistra, si sono illusi di poter cavalcare l’onda della modernizzazione, di guidarla e di piegarla ai propri fini. Se non ci decidiamo a parlare anche delle nostre responsabilità, tutto il discorso resta monco e privo di qualsiasi efficacia.

Ora, in questo universo chiuso e compatto, che non lascia spazio a nessuna alternativa, non c’è nulla da rappresentare. Ci può essere solo una logica di tipo corporativo, per coltivare qualche limitata nicchia di potere. Decisionismo politico, da un lato, e corporativizzazione del corpo sociale, dall’altro, è questo lo sbocco logico di tutti i processi politici e ideologici in corso. L’agenda politica è una, una sola, ed essa riguarda solo gli strumenti di manutenzione del sistema, riguarda solo i mezzi, essendo precluso ogni discorso sui fini. Tutti i corpi sociali, in questo contesto, sono solo segmenti parziali, e il loro spazio possibile non è quello del progetto, ma dell’emendamento, la loro vocazione non può essere il conflitto, ma la partecipazione passiva ad un gioco deciso da altri.

La negazione del conflitto, che viene così apertamente alla luce, non è altro che l’essenza stessa del pensiero autoritario, come ci insegna tutta la nostra storia politica passata, dove sempre il potere dispotico si regge sui valori di gerarchia, di ordine, di unità nazionale, contro le turbolenze e le incertezze della democrazia, contro il suo relativismo, contro ogni forma di pluralismo organizzato. Ecco che allora il tema della rappresentanza appare in tutta la sua pregnanza, non come un dettaglio marginale, ma come una possibile forza d’urto che mette in discussione il sistema di potere.

Ma quale può essere lo spazio, l’orizzonte, per un soggetto sociale che non si rassegni alla logica dell’emendamento corporativo? Tutte le parole della nostra tradizione sono ricoperte di polvere, e hanno un suono falso, retorico, nostalgico. Come possiamo allora nominare quello che siamo, quello che vogliamo essere? Forse bisogna far parlare non le parole, ma i fatti, e le parole verranno da sé, come la forma in cui si raccoglie un nuovo contenuto. Parlo qui del sindacato, anzitutto, ma si tratta di un discorso che ha una valenza più generale, perché è l’insieme della società che ha bisogno di rappresentanza. Una società senza rappresentanza, senza soggetti collettivi organizzati, diviene infatti il terreno di conquista per ogni sorta di avventurieri e di demagoghi.

Il punto essenziale, per il sindacato, è se esso riesce pienamente a dare forma all’autonoma soggettività del mondo del lavoro, il che vuol dire rappresentare una alterità, un punto di tensione, non in nome di una ideologia alternativa, ma in un rapporto immediato e vivente con le domande, individuali e collettive, di cui si compone la concreta esperienza di vita delle persone. Non si tratta di organizzare la “sinistra” sindacale, di forzare in senso politico il campo di azione del sindacato, ma piuttosto di fare emergere la forza della sua autonomia, del suo essere un soggetto sociale che obbedisce ad una logica diversa rispetto alla politica.

Oggi, ciò che appare è una situazione di incertezza e di ambiguità, con un sindacato diviso e oscillante, e queste stesse divisioni sembrano essere prodotte dal gioco delle diverse appartenenze politiche, con una caduta complessiva del livello di autonomia. È anche questo un effetto della forzata “bipolarizzazione” di tutto il sistema politico, per cui tutta la complessità sociale viene semplificata e inquadrata nel meccanismo della competizione bipolare, e tutti gli spazi vengono occupati, colonizzati, prosciugando ogni forma di autonomia. È una trappola da cui il sindacato deve riuscire rapidamente a schiodarsi, per rendere visibile la sua autonoma funzione sociale. E l’autonomia ha in sé, necessariamente, il momento del conflitto, perché essa esprime un punto di vista che è, comunque, “altro” rispetto agli equilibri politico-istituzionali.

Di quale conflitto parliamo? Non c’è affatto bisogno di immaginare l’evento mitico di una rivolta generale contro il sistema. Anzi, nell’attesa sempre frustrata di questo evento, finiamo per essere del tutto paralizzati ed impotenti. Il conflitto va colto non sul terreno di una filosofia della storia, ma negli infiniti risvolti pratici della nostra vita quotidiana, come un dato della realtà, come una tensione permanente che è nelle cose, come un fermento su cui costruire, di volta in volta, nuovi livelli di coscienza e di organizzazione. Nonostante tutta la violenta offensiva ideologica dispiegata, la realtà sociale non è affatto pacificata, normalizzata, ma è un campo di instabilità e di irrequietezza, attraversato dalle più svariate contraddizioni. È nella società stessa la spinta verso un nuovo ordine, la domanda di una struttura, di una forma solidale, contro gli effetti disgreganti del libero mercato.

Si tratta quindi di metter mano ad un lavoro non eccezionale, ma quotidiano, nel mezzo delle cose, nel mezzo delle contraddizioni reali, con un’opera paziente di organizzazione e di selezione degli obiettivi possibili. Potremmo parlare di pratica riformista, se questa parola non fosse stata così vergognosamente storpiata. Su queste premesse, si può delineare, mi sembra, una linea di grande duttilità e libertà sindacale, combinando ed integrando tra di loro i due momenti del conflitto e della mediazione, con la capacità di dire, di volta in volta, il nostro sì o il nostro no, fuori dalle logiche della politica e dai suoi ricatti, senza che mai il sì o il no divenga un vessillo ideologico.

Sul sindacato si è abbattuta tutta una violenta offensiva mediatica per dire, in sostanza, che la prova della sua responsabilità nazionale consiste in una dichiarazione di resa, in nome degli interessi superiori della nazione. Se si fa resistenza, se si dice di no, allora questo è il segno che si resta prigionieri di vecchie ideologie, che si è conservatori, corporativi, irresponsabili. È in particolare la CGIL, e ancor più la FIOM, l’oggetto privilegiato di questa campagna antisindacale. È del tutto evidente che dobbiamo mandare al diavolo tutta questa congrega di commentatori prezzolati. Ma, una volta compiuta questa sana operazione di esorcismo spirituale, restano i problemi, e resta l’urgenza di una approfondita ricognizione critica sulla situazione sindacale.

Se tentiamo una valutazione di lungo periodo, a partire dagli anni ‘80, sono allora evidenti gli arretramenti, gli scacchi subiti, e i conti non tornano. Non possiamo interpretare tutto questo processo come se si trattasse di una congiura della storia, né possiamo limitarci ad esibire il trofeo delle nostre gloriose battaglie. Alla fine, conta il risultato dell’intero processo storico, e questo risultato ci parla di una sconfitta. E una sconfitta non può essere mai rimontata se si aggira il tema delle responsabilità, degli errori, se non ci decidiamo ad esercitare lo spirito critico, con tutta la necessaria durezza, verso noi stessi.

Tematizzare la sconfitta, indagarla, interpretarla in tutti i suoi passaggi, sarebbe già questo uno straordinario passo in avanti. Ma questa operazione – verità sarà possibile solo se si creano le condizioni per una discussione libera, aperta, spregiudicata, se c’è dunque un salto di qualità nella vita democratica dell’organizzazione. Ho già sottolineato il nesso inscindibile tra rappresentanza e democrazia, e ciò vale sia in rapporto alla struttura politica e istituzionale, sia nella relazione tra rappresentanti e rappresentati, che deve essere sempre tenuta aperta, in modo fluido, nelle due direzioni, dall’alto e dal basso. C’è democrazia là dove c’è circolarità del processo, senza intoppi, senza barriere burocratiche. Sotto questo profilo, nella storia di qualsiasi grande organizzazione di massa si alternano i momenti ascendenti, creativi, nei quali prende forza la spinta partecipativa, e i momenti di stabilizzazione, nei quali l’ordine burocratico riprende il sopravvento. È un equilibrio sempre instabile, e tutta questa dialettica va vista con realismo, nei suoi diversi passaggi, nel suo rapporto con le diverse situazioni storiche.

Ciò che intendo dire è che nelle condizioni attuali, dove occorrerebbe il massimo di sforzo creativo per uscire dalla crisi, la burocratizzazione della struttura diviene la palla al piede che impedisce qualsiasi nuovo sviluppo. Lo spirito conservatore ha una sua giustificazione quando si tratti di garantire la tenuta organizzativa di un sistema che funziona, ma è del tutto controproducente nei momenti di crisi, quando occorre innovazione, rinnovamento, sperimentazione di nuove forme. In questi momenti, non c’è nulla di più imprudente della prudenza.

Per queste ragioni mi sembra giunta a piena maturazione l’esigenza di un ripensamento profondo del modo di essere del sindacato e del funzionamento delle sue strutture organizzative. Torna attuale la parola d’ordine della “rifondazione” del sindacato, su cui aveva scommesso Antonio Pizzinato, nella sua breve esperienza di Segretario generale della CGIL. E comunque non c’è dubbio che dobbiamo oggi liberare forze, energie, spirito critico. Non ho precise soluzioni da proporre, ma avverto sempre più forte il disagio per un sistema che premia la fedeltà e non l’autonomia, l’osservanza delle regole e non la creatività, la stabilità dell’organizzazione e non il suo rinnovamento.

Per un sindacato che metta al centro la sua autonomia e il suo radicamento sociale, occorre promuovere una nuova figura di sindacalista, che sia del tutto proiettata nella materialità delle condizioni sociali, nell’analisi dei processi e nella gestione dei conflitti, senza l’attesa di salire sul primo treno politico che passa. È la piramide gerarchica che va rovesciata: va valorizzato chi sta in prima linea, a contatto diretto con la realtà, e vanno ridimensionate tutte le sovrastrutture burocratiche di cui si compone una macchina troppo pesante, centralizzata, e spesso inefficiente. Con questo medesimo criterio vanno ripensate le procedure di composizione e di selezione dei gruppi dirigenti, ai diversi livelli. Se i partiti hanno inventato le primarie, e questa innovazione ha introdotto un po’ di vitalità in una struttura atrofizzata, anche le organizzazioni sindacali hanno bisogno di inventare le forme della propria interna democratizzazione.

Infine, di fronte alla pressione sul sindacato per rinchiuderlo in un angusto spazio corporativo, a ciò si deve reagire con un impegno ad allargare il terreno di gioco, ad occupare nuovi spazi, per intercettare in tutta la loro complessità le domande sociali, non solo nel lavoro, ma nella vita civile e nell’insieme delle relazioni sociali. Quando si dice “centralità strategica del territorio” si vuol dire, credo, questo spostamento verso una visione più larga e sistemica dei bisogni sociali che intendiamo rappresentare. Ma tutto ciò, finora, è rimasto allo stato embrionale, con alcune generiche affermazioni di principio, e con esperienze concrete ancora troppo frammentate, e talora discutibili. Il territorio non è la chiusura localistica, non è la frantumazione dei diritti di cittadinanza, ma è il campo in cui tutti i nostri obiettivi (lavoro, welfare, qualità della vita) prendono corpo e si aprono a possibili sperimentazioni. Il sindacato è, per sua natura, un soggetto della sussidiarietà, in quanto, partendo dalla sua parzialità, persegue obiettivi di interesse generale. In questa prospettiva, nuovi campi di iniziativa possono essere esplorati, senza il timore di avventuraci in nuovi territori e senza restare bloccati da un confine troppo rigidamente fissato tra contrattazione e gestione. Se l’obiettivo è la democratizzazione del sistema, in tutti i settori, sottoponendo a controllo dal basso tutte le strutture di potere, allora dobbiamo prendere sul serio questa nostra funzione, e agire a tutto campo nella vita civile ed economica del paese.



Numero progressivo: D8
Busta: 4
Estremi cronologici: 2013, marzo-aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: 2 copie
Pubblicazione: “Alternative per il socialismo”, n. 25, marzo-aprile 2013