C’È UN VICOLO CIECO DA EVITARE: L’ISOLAMENTO

Dopo referendum

di Riccardo Terzi

Nei nostri commenti ai risultati del referendum del 9 giugno mi sembrano ancora prevalenti atteggiamenti di ritorsione propagandistica, a cui corrispondono, d’altra parte, tra le forze di governo, bollettini di vittoria privi di qualsiasi analisi critica. È mancata finora una valutazione più serena, più distaccata, una presa d’atto dei problemi politici complessi che quel risultato solleva. Le spiegazioni troppo semplici e troppo lineari sono comunque inadeguate, perché in ciascuno dei due campi convivono motivazioni assai differenziate e si intrecciano in modo assai complesso diverse posizioni sociali e politiche.

Occorre portare alla luce, attraverso un’analisi attenta, le ragioni che hanno determinato la sconfitta dell’iniziativa referendaria. I riti consolatori hanno il respiro corto. E diventano assai pericolosi e devianti quando si teorizza che la sconfitta di oggi è la premessa delle vittorie di domani, quando si accetta il discrimine tra i sì e i no come la linea di demarcazione tra forze progressive e forze conservatrici, una linea che ci e provvisoriamente sfavorevole, me che sarebbe comunque il punto d’avvio per le prossime battaglie.

Il fatto è che, nel referendum, la sinistra, politica e sociale, si è divisa. Questa divisione ha innescato processi negativi, che si tratta ora di neutralizzare, e in questa divisione stanno, in gran parte, le ragioni della sconfitta. Il referendum, quindi, non può essere considerato come un punto di partenza, come un passaggio difficile che abbia in se potenzialità di natura strategica; ma al contrario le basi su cui costruire la nostra iniziativa futura non possono che essere altre, e il problema politico più urgente è quello di ricostruire le condizioni di una unità larga della sinistra, una unità che non può prescindere dal contributo indispensabile delle forze socialiste e delle forze popolari di orientamento cattolico.

La battaglia contro il decreto governativo ha avuto una sua legittimità specifica e circoscritta. Non abbiamo motivo di cambiare il nostro giudizio severamente critico su quei decreto e sull’intera politica economica del governo. Possiamo però domandarci se lo strumento del referendum fosse il più idoneo, e se non abbiamo rischiato, con una battaglia prolungata su questa specifica questione, di compromettere gli interessi più generali e strategici del movimento operaio, i quali non possono essere affrontati senza una salda unita della sinistra e dei lavoratori.

A questo punto, serve a poco ragionare sulle possibili opzioni alternative che avremmo potuto prendere in considerazione. Tuttavia, non ci si dica che tutto era necessario e razionale; evitiamo, una buona volta, di giustificare tutto e di difendere tutto.

Serve invece, ragionare sulle prospettive, sugli obiettivi per i quali dobbiamo oggi lavorare. In primo piano sta l’obiettivo dell’unità sindacale e dell’unita della sinistra. È superfluo dire che si tratta di un percorso non facile, non lineare. È meno superfluo dire al partito che occorre una battaglia politica per l’unità, che vanno contrastate e battute quelle posizioni che ritengono inevitabile e oggettiva una divisione strategica e di lungo periodo all’interno del movimento operaio.

Ogni volta che si parla di unità, c’è subito chi ci mette in guardia dal rischio delle mediazioni di vertice, dei compromessi pasticciati, chi ci ricorda che l’unità si fa sui contenuti, su obiettivi chiari, che abbiano il consenso delle masse. Sono tutte preoccupazioni giuste, ma questi richiami troppo spesso costituiscono un alibi e una copertura politica per posizioni che, nei fatti, hanno rinunciato a porsi il problema dell’unità della classe lavoratrice. Può così prendere corpo, per una spinta di tipo integralistico, il rischio di imboccare il vicolo cieco di un crescente isolamento politico.

E allora la discussione con gli altri, anche con i nostri critici un po’ malevoli, va fatta con serenità e con apertura, riconoscendo l’esistenza di nodi politici a cui dobbiamo dare risposte più nitide e più convincenti. La risposta non può essere in una riaffermazione orgogliosa della nostra identità di partito e delle nostre ragioni. I risultati del referendum dimostrano come posizioni diverse dalla nostra abbiano, nello stesso mondo del lavoro, radici profonde, basi di massa reali. Non sfuggiamo, quindi, alla necessità di un confronto, e anche alla ricerca delle mediazioni possibili.

Il dato più preoccupante è che la nostra sconfitta è più vistosa là dove sono più avanti i processi di trasformazione della società, italiana. Ciò risulta sia dal voto del 12 maggio, sia dal referendum. Ma è proprio qui, nel punti nevralgici dello sviluppo, che si decide la partita, che si misura il ruolo di governo delle forze politiche, e si misurano i rapporti di forza tra le classi. Noi abbiamo perso potere nella società, sia come partito, sia come movimento organizzato dei lavoratori. La società italiana sta cambiando velocemente, e la dove è più intenso questo processo il potere di contrattazione e di controllo dei lavoratori è in crisi.

Questo è a me pare, il nodo centrale. Si tratta allora di ricostruire il potere contrattuale dei movimento operaio, partendo dalle situazioni concrete, dai cambiamenti reali e profondi che si stanno producendo nell’organizzazione produttiva e nelle condizioni di lavoro. Per questa via si può ricostruire un tessuto unitario, coinvolgendo i lavoratori, restituendo un ruolo attivo agli operai, agli impiegati, ai tecnici, facendo del sindacato in modo più diretto e più ravvicinato un organizzazione che rappresenta bisogni reali, che lavora per obiettivi concreti.

Ma ciò vuol dire guardare oltre il referendum, e costruire uno schieramento e un sistema di alleanze che non può essere il medesimo di quello che si è formato nella lotta contro il decreto di febbraio. È necessario ridefinire obiettivi, interlocutori, alleanze, e quindi spezzare il più presto possibile la spirale della divisione nei movimento operaio. Non dipende solo da noi, ma in questa azione di ricostruzione unitaria il nostro ruolo è determinante.

Deve risultate chiaro che la linea politica dell’alternativa democratica non può camminare senza la presenza attiva di un sindacato capace di recuperare pienamente le ragioni dell’unità e dell’autonomia. Viceversa, un sindacato diviso, ricondotto in logiche di apparentamento partitico, non può che essere un fatto di freno e di conservazione.

In questa situazione, diventa decisivo l’orientamento dei comunisti, il loro impegno per aprite a tutta la sinistre nuovi spazi, nuove possibilità, in un confronto aperto e non viziato da volontà di rivincita e da contrapposizioni forzate. È in questione il nostro ruolo, la nostra concreta capacità di governo di fronte ai processi dl trasformazione che sono in atto. Per questo, non convincono le spiegazioni che ricorrono solo alle cause estrinseche, all’attacco degli altri, all’offensiva anticomunista; né d’altra parte può bastare una più accorta e prudente gestione della tattica politica. È il partito che deve cimentarsi su un terreno nuovo, più avanzato, che deve essere nei punti alti dello sviluppo forza trainante di un processo riformatore.

Se ritardiamo questa verifica con noi stessi, ci troveremo sempre più gravemente spiazzati e a nulla servirà esasperare i toni della nostra polemica.

Non ci serve il patriottismo di partito, né il ricorso a risposte propagandistiche. Abbiamo bisogno invece di tutta la pazienza e il rigore di un’analisi oggettiva e spassionata, del realismo e della prudenza che siano ai servizio di una politica di unità del movimento operaio.



Numero progressivo: H97
Busta: 8
Estremi cronologici: 1985, 22 giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “L’Unità”, 22 giugno 1985